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Autore: Beauty    24/09/2013    10 recensioni
AU. In una Storybrooke senza maledizione, s'intrecciano i destini di Belle French, Ruby Lucas, le sorelle Aurora e Michelle Wood, Lily King, le ballerine Ariel Flynn, Esmeralda Ramirez e Tamara Carter, Marion Parker, Mary Margaret Blanchard, Ashley Boyd, Emma Swan, Regina Mills, Mulan Chang e Alice Hatter.
One-shot preludio di una long.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Angolo Autrice: So che dovrei continuare con le 1000 long che ho in corso, ma ultimamente con il lavoro non ho molto tempo, e preferisco avere più concentrazione, per quelle.
Questa OS può essere considerata una sorta di preludio a una long che vorrei scrivere non appena avrò terminato Once Upon a Time in Storybrooke: Beauty and the Beast. L’ho pubblicata per sapere che ne pensate dell’idea, quindi per favore non siate tirchi con le recensioni :P.
Sarà molto al femminile, e per le ship comprenderà: Rumbelle (of course!), Frankenwolf, Snowing, Sleeping Hook, Hunter Swan, Michelle/Jefferson, Mulan/Filippo, Lily/Ethan, Robin/Marian, più Esmeralda (da me inventata), Ariel, Greg/Tamara, Stable Queen e Alice/Cyrus.
La faccenda della festa di Halloween avrà una sua importanza, e Zelda non è altri che Malefica.
Ringrazio LadyAndromeda e parveth per avermi concesso i diritti sui loro personaggi.
Enjoy!
Good Morning, Storybrooke!
 
Ruby
 
Il baccano di Skillet irruppe nella stanza da letto di quello squallido appartamento in Edward Street, facendo in modo che Ruby Lucas si svegliasse di soprassalto, scattando seduta sul letto disfatto. Si guardò intorno con aria spaesata per diversi secondi, prima di ricordarsi gli avvenimenti delle ultime ore.
Ad aiutarla ci pensò il suo poderoso mal di testa post-sbronza. Ruby gemette, prendendosi il capo fra le mani mentre le note di Awake and Alive – a proposito…che cos’era, una presa per i fondelli?! – continuavano a martellarle le tempie.
Il The Rabbit Hole…Quel nuovo vestito rosso che le arrivava a metà coscia comprato in saldo…un bicchiere di tequila e un altro di Bloody Mary…o erano due?...magari anche tre…Poi la musica…Billy il meccanico che le faceva i complimenti…poi un altro bicchiere di rum o due…
E poi…buio più totale.
Skillet continuava a fare baccano di prima mattina senza alcun ritegno. Ruby ringhiò, sferrando una manata alla sveglia così forte da metterla a tacere. Il silenzio ritornò nella stanza, ma il mal di testa non voleva saperne di zittirsi, quello no.
Ruby si massaggiò le tempie nel tentativo di raccapezzarsi, quando un sonoro ronfare giunse dalla parte opposta del letto. Si voltò lentamente, inorridita e vagamente conscia di ciò che era accaduto.
Come previsto, al suo fianco dormiva beato Billy il meccanico.
E, anche se grazie al cielo le lenzuola coprivano la metà inferiore del suo corpo, non le era molto difficile intuire che sotto di esse Billy non portasse assolutamente niente. In quel preciso istante, si rese conto che anche lei era nella stessa situazione.
Ruby sbuffò, gemendo di esasperazione e lasciandosi ricadere sul letto, il capo contro il cuscino. Chiuse gli occhi, dandosi mentalmente dell’idiota. Era andata a letto da Billy il meccanico, quello sfigato che lavorava a ore all’officina di Michael Tillman, quello che le arrivava a malapena al mento!
Doveva smetterla di ubriacarsi il sabato sera…o meglio, doveva smettere di non guardarsi bene intorno prima di ubriacarsi!
Ma beh, ormai quel che era fatto era fatto. E d’altra parte, non era nemmeno la prima volta che le capitava di andare a letto con qualcuno perché la sera prima aveva bevuto troppo. Anzi, le era andata anche bene: Billy era uno che conosceva e che le sbavava dietro dai tempi del liceo. Perlomeno, ora lui era contento e lei non doveva trovarsi per l’ennesima volta nell’imbarazzante situazione di chiedere il nome a colui con il quale aveva fatto sesso tutta la notte.
Riaprì gli occhi, sgranandoli totalmente quando incrociò i numeri illuminati della radiosveglia di Billy.
- Merda!- Ruby si chinò alla svelta, recuperando le mutandine e il reggiseno dal pavimento.- Merda, merda, merda!
L’esclamazione fu in grado di svegliare Billy, che tirò su il capo dal cuscino con aria frastornata.
- Che?- mugolò, con la voce impastata dal sonno.- Che succede?
Ruby non lo degnò di alcuna risposta, liberandosi dalle coperte con un calcio e gettandosi sul pavimento alla ricerca dei propri vestiti. Ringraziò mentalmente di aver tenuto la divisa da cameriera nella borsa, altrimenti arrivare in ritardo pauroso al lavoro e per di più con addosso quel completino striminzito avrebbe fatto uscire Granny fuori dalla grazia divina.
- Ruby…- fece Billy, guardandola perplesso e ancora assonnato.
- Ehi, ben svegliato!- Ruby gli sorrise come se niente fosse; decise di lasciar perdere il vestito, lo avrebbe recuperato uno di quei giorni, e s’infilò i pantaloncini rossi della divisa saltellando su una gamba sola.- Dormito bene?
- Ehm…sì, grazie…- Billy la guardò, attonito, mentre lei si abbottonava la camicetta.- Ma…te ne vai?
- Uff! Sì…- sbuffò Ruby, raccattando la propria borsetta da terra.- Il mio turno iniziava dieci minuti fa, mia nonna mi ammazzerà…Non riesco a trovare il mio vestito, se ti capita fra le mani lasciamelo fuori dalla porta, passo a riprenderlo nel pomeriggio…
Billy boccheggiò, sempre più stupefatto, mentre Ruby si avviava a passo svelto verso la porta dell’appartamento senza aggiungere altro.
- Ehi!- il meccanico si tirò su a sedere.- Non vuoi fare colazione?
- No, te l’ho detto, sono in ritardo! Prenderò un caffè al lavoro…
- Okay…- mormorò Billy, a malincuore.- Usciamo insieme, stasera?
- Stasera non posso, sono di turno!
- E domani?
- Esco con Belle. Serata fra ragazze.
- Mi chiami oggi?
La ragazza afferrò la maniglia della porta, aprendola e sgusciando fuori.
- Non so, forse non avrò molto tempo…Ciao, ci si vede in giro!
Ruby uscì dall’appartamento chiudendosi la porta alle spalle, scendendo velocemente le scale del condominio. Sospirò, pensando alla lavata di capo che le avrebbe fatto Granny una volta arrivata al locale.
 
Lily
 
Al numero 10 di High Avenue, la mattina presto non mancava mai un buon profumo di caffelatte, e Lily King adorava quel profumo. Era con quello che si svegliava ogni mattina, quando era ancora assopita con il capo abbandonato contro il cuscino di pizzo e coperta con le lenzuola di flanella. Camera sua era come la camera di una principessa. I suoi genitori avevano sempre voluto e scelto per lei il meglio, sin da quel giorno in cui, a soli sei anni, l’avevano presa in adozione.
Lily mugolò nel sonno, rigirandosi fra le coperte fino a trovarsi supina; aprì gli occhi, puntando lo sguardo contro il soffitto della propria stanza mentre il profumo di caffelatte si avvicinava e apriva la porta.
- Buongiorno, mamma…- salutò Lily con un sorrisetto mentre udiva i passi di sua madre avvicinarsi al letto accompagnati dal profumo di una tazza di caffelatte fumante. Eliza King ridacchiò.
- Sei già sveglia, vedo…- osservò, mentre la ragazza si tirava lentamente su a sedere; Eliza porse la tazza a sua figlia.- Hai dormito bene?
Lily annuì, soffiando sulla bevanda calda.
- Sì, grazie. E tu e papà?
- Papà è tornato due ore fa. Parla a bassa voce, cerca di non svegliarlo…
Lily annuì nuovamente, pensierosa. Gianni King era il primario dell’ospedale di Storybrooke e, sebbene lavorasse principalmente in uno studio privato e trascorresse nelle corsie solo alcuni precisi giorni della settimana, di tanto in tanto anche a lui toccava fare qualche turno di notte, specialmente quando il suo vice – tale dottor Whale, un medico giovane che doveva essere certamente in gamba, se era diventato vice primario a soli trentadue anni, ma che a Lily, forse per quella sua perenne espressione da maniaco pervertito, non era mai stato troppo simpatico – decideva di prendersi una vacanza.
Succedeva raramente, eppure succedeva. Ma in ogni caso, anche se era stanco o stressato dal lavoro, Lily non ricordava che Gianni fosse mai stato scorbutico o scontroso. Anzi, era sempre allegro e gentile con lei, e lui e sua moglie non le facevano mancare nulla.
I signori King non avevano potuto avere figli, e così avevano deciso di adottare lei. Non tutti in famiglia avevano fatto propriamente i salti di gioia – in prima linea vi era l’unica parente del dottor King, tale zia Sarah, con cui Lily aveva instaurato sin da subito un rapporto di freddo distacco e antipatia reciproca…fortuna voleva che loro due s’incontrassero solo in occasioni quali il Natale e il Giorno del Ringraziamento –, ma Gianni ed Eliza l’adoravano e le volevano bene.
Certo, a volte erano fin troppo iperprotettivi – Lily non era mai andata a scuola, e aveva sempre studiato in casa con l’aiuto di un’istitutrice privata, e le uniche persone con cui le era permesso di uscire erano Marshall, il figlio della loro vicina di casa, e il suo fidanzato Antoine – e la ragazza non poteva dire che questo le andasse giù come l’acqua, ma in fondo sapeva che la proteggevano per il suo bene. E poi, aveva solo sedici anni, e una vita intera davanti: prima o poi sarebbe riuscita a fargli cambiare idea, no?
 
Ashley
 
Allungò la mano alla ricerca della scatoletta di kleenex, afferrandone uno e soffiandosi il naso, per poi passare ad asciugarsi le lacrime, senza alcun successo. Più si affannava a cercare di smettere di frignare, più singhiozzava.
Ashley Boyd si lasciò cadere pesantemente sul letto, affondando la faccia nel cuscino. Era pallida, aveva i capelli arruffati, le guance arrossate per il troppo piangere e gli occhi cerchiati per la nottata trascorsa insonne. Doveva sembrare un mostro; ma in quel momento, l’aspetto fisico le importava ben poco. Strinse le labbra per smettere di piangere, ma non ci riuscì: il pensiero continuava a correrle a Sean, a quello che le aveva detto sul fatto che loro due non potessero stare insieme, a quel bastardo di suo padre che la considerava solo una diciannovenne stupida e vuota, al suo, di padre bastardo, che aveva sposato quella stronza della sua matrigna e lei e le sue due figlie ci avevano messo meno di un battito di ciglia a ingraziarselo e a sbattere lei fuori di casa, a sua madre che non si faceva mai sentire neppure per telefono, al fatto che molto probabilmente l’uomo che amava non ne avrebbe più voluto sapere nulla di lei…e soprattutto, allo stick che teneva stretto fra le mani.
Su di esso, vi erano due lineette rosse.
 
Mary Margaret
 
Faceva volontariato sin da quando aveva quindici anni – era stata sua madre Eva a iniziarla, quando ancora viveva a Boston –, e quando aveva assunto l’incarico di maestra elementare alla scuola di Storybrooke era riuscita a coinvolgere con passione anche i suoi allievi in questa attività.
Mary Margaret Blanchard sorrise compiaciuta, osservando i festoni che i bambini avevano creato in occasione della festa di Halloween in quell’ala dell’ospedale. Aveva voluto che anche quella, riservata ai pazienti in coma, fosse addobbata. Mary Margaret Blanchard aveva sempre creduto che anche chi si trovava in quello stato potesse avvertire e percepire cosa accadeva intorno a loro, fino a captare i sentimenti. E così, aveva coinvolto i bambini in quell’attività, e doveva ammettere con orgoglio che i piccoli si fossero veramente impegnati, tanto che anche il dottor King e il dottor Whale – il primario e il vice primario dell’ospedale di Storybrooke – avevano fatto loro i complimenti.
Ora era mattino presto, mancava solo un’ora all’inizio delle lezioni. Mary Margaret dichiarò concluso il suo giro mattutino all’ospedale, sapendo che vi sarebbe tornata intorno alle cinque del pomeriggio.
Indossò la giacca, preparandosi a uscire; prima di farlo, si voltò e gettò un’ultima occhiata alle sue spalle. Poco distante, isolato rispetto agli altri pazienti, in un letto dietro a una vetrata trasparente giaceva un uomo sulla trentina, biondo e, a una prima occhiata, anche abbastanza alto e ben piantato.
Teneva gli occhi chiusi, e chissà quando e se li avrebbe riaperti.
Mary Margaret avvertì una fitta al cuore. Suo padre le ripeteva sempre che era troppo sensibile, e aveva dannatamente ragione. Era una caratteristica che aveva ereditato da sua madre: il provare sempre una forte empatia nei confronti di chi soffriva.
O di chi era solo.
E quell’uomo era e doveva essere stato molto solo. Nessuno sapeva come si chiamasse, né da dove venisse. Sapevano solo che una sera di dieci anni prima – o forse anche di più – il sindaco Mills aveva chiamato un’ambulanza dicendo di aver trovato un uomo privo di sensi in mezzo a una strada, e lo aveva fatto portare lì in ospedale. Era senza documenti, con un’evidente segno sul capo che poteva benissimo essere ricondotto a una botta violenta.
Era giunto lì già in coma, e da allora non si era più svegliato.
Erano state fatte le opportune ricerche, certo, ma non si era giunto a niente, e da allora quell’uomo era rimasto in quell’ospedale, in coma, senza che nessuno lo venisse a trovare.
Mary Margaret sospirò, imponendosi di non pensare a quanto triste fosse quella situazione, altrimenti si sarebbe certamente gettata al suo capezzale e non si sarebbe mossa più da lì.
Si voltò, avviandosi verso l’uscita, non prima di aver salutato con il pensiero John Doe.
 
Aurora
 
- Ben svegliata, signorina Wood!
La voce della governante le giunse squillante e allegra come sempre, e Aurora Wood le sorrise in risposta, ancora un po’ intontita dalla levataccia di quella mattina. Anche a costo di farsi chiamare pigrona da sua sorella e da suo padre – e lavativa da quella strega di Zelda! – non si faceva scrupolo ad ammettere che dormire fino a tardi le piaceva un mondo, e che durante il tragitto in autobus per raggiungere il liceo privato di Storybrooke spesso gli altri la scambiavano per uno zombie.
Quello zombie della signorina-tanti-soldi Aurora Wood!, canticchiò una voce maligna nella sua testa, molto somigliante a quella di Zelda, che la ragazza si affrettò a zittire. Si avviò in direzione del tavolo in vetro della sala da pranzo, sedendosi di fronte a suo padre.
- Buongiorno, Aurora - sorrise Stephen Wood, sorseggiando il suo caffè. Aurora notò che era già vestito di tutto punto, con giacca e cravatta sulla camicia bianca. Lo stesso si poteva dire di Zelda, seduta accanto a lui, anche se il suo vestito da giorno color fucsia presentava una scollatura sul davanti degna di una delle ballerine del King of the Fools.
La sua matrigna si voltò verso di lei, squadrandola con un sorriso tanto amabile quanto gelido.
- Aurora, non credo che tu sia vestita nel modo più appropriato per la colazione…- osservò, accennando alla camicia da notte e alla vestaglia che indossava la ragazza. Aurora non rispose, stringendo i denti e prendendo un pezzo di bacon dal suo piatto.
Zelda non demorse, sistemandosi i capelli biondi cotonati di permanente con aria noncurante.
- Quando andrai a Princeton, l’anno prossimo, credi che potrai scendere a colazione con addosso gli abiti da notte?
- Ora sono a casa mia!- ringhiò Aurora, già esausta di prima mattina. Avrebbe anche fatto a meno di litigare con Zelda, anzi, per quel che la riguardava loro due avrebbero benissimo potuto condurre vite separate basate sulla considerazione nulla l’una nei confronti dell’altra e sulla reciproca sopportazione – almeno fino a che suo padre non si fosse reso conto di quale abnorme idiozia aveva compiuto, sposandola –, ma a quanto pareva la sua matrigna aveva idee diverse.
Zelda non faceva altro che punzecchiarla, iniziando dalla mattina quando si svegliava e terminando la sera quando andava a letto, lasciandole solo le ore fuori casa per poter respirare un po’. Aveva cominciato quella sorta di guerra sin dal giorno seguente al matrimonio con suo padre, senza una motivazione apparente, e ormai Aurora sospettava che lo facesse solo per il gusto di screditarla agli occhi di suo padre: da qualunque diverbio, ne usciva sempre sconfitta, e se per caso non riusciva a ingoiare il rospo e il tutto degenerava in una lite, Stephen scaricava sempre la colpa su di lei, accusandola di non portare rispetto a Zelda.
Aurora invidiava da morire sua sorella. Michelle era più grande di lei di otto anni, aveva un’indipendenza economica ed era stata di gran lunga più furba di lei: appena aveva visto che le cose con Zelda sarebbero state destinate solo a peggiorare, aveva preso armi e bagagli e se n’era andata di casa.
- Stavo solo cercando di aiutarti - proseguì la donna, con falsa innocenza.- Sei ancora così giovane…Dovresti imparare ad accettare i consigli…
- Consigli non richiesti. Tieniteli per te.
- Aurora!- sbottò Stephen.- Ti sembra il modo di…
- Lascia stare, tesoro. Credo che sia nervosa per la festa della settimana prossima…- cinguettò Zelda, prendendogli dolcemente una mano. - E’ un peccato che non potrai esserci…
- Che cosa?!- saltò su Aurora, incredula. Erano due mesi che aveva organizzato quella festa di Halloween, e aveva invitato metà della scuola, e ancora le mancavano alcuni inviti per delle amiche di sua sorella...Suo padre aveva promesso che ci sarebbe stato, che succedeva ora?.- Perché non potrai esserci?
- Tuo padre deve intraprendere un viaggio di lavoro molto importante, cara - spiegò Zelda.
- Dovrò andare in Italia per un paio di settimane. Ma non preoccuparti, sono sicuro che la tua festa sarà un successone anche senza di me…
No, non è vero, pensò Aurora. Non è vero, non sarà la stessa cosa…
- Ma non si può rimandare?- insistette; stava rischiando di fare la figura della bambina piccola, ne era consapevole, eppure non poteva farne a meno. L’assenza di suo padre avrebbe significato la mancanza di un’autorità in casa sua – non si trattava di una festa chic come i ricevimenti a cui era abituata ad andare, ma ci sarebbero state luci al neon, un dj, e se stava abbastanza attenta da non farsi scoprire Filippo le aveva promesso di portare anche degli alcolici. E poi, a una festa del genere ci sarebbero stati sicuramente anche degli imbucati, persone non invitate. Questo Aurora lo aveva messo in conto, ma era preoccupata: un conto era se si fosse intrufolata Belle French, che lei trovava una ragazza simpatica – ma che Zelda le aveva categoricamente vietato d’invitare perché era solo la figlia del giardiniere –, ma che sarebbe successo se a entrare senza permesso fossero state persone come Ethan Cooper o Keith Holton?
Suo padre li avrebbe certamente cacciati fuori, ma lei, diciottenne piccola e mingherlina?
E poi, se Stephen non fosse stato presente, questo avrebbe significato che l’intera casa sarebbe stata in mano a Zelda, e il cielo solo sapeva cosa sarebbe potuto succedere.
- Temo di no. Si tratta di un affare molto importante. Non preoccuparti, vedrai che andrà bene.
Aurora strinse le labbra in una smorfia rabbiosa, alzandosi di scatto da tavola, con una furia tale che rischiò di rovesciare il bicchiere di cristallo ricolmo di latte.
- Vado a chiamare Michelle - annunciò, risoluta.
- Prima finisci la colazione…!- provò a bloccarla Stephen, ma Aurora l’ignorò, uscendo a grandi passi dalla sala da pranzo.
Il signor Wood sospirò, sconcertato.
- Io non capisco perché fa così…- mormorò.
- Semplice, tesoro. Te lo dico io: tu la vizi troppo - sogghignò Zelda.
 
Michelle
 
Sentire La Isla Bonita a tutto volume, la mattina presto, quando sei ancora mezza intontita dal sonno, al calduccio nel tuo letto e con il terrore di lasciare le coperte per avventurarti sotto un cielo che minaccia un acquazzone coi fiocchi, senza neanche la certezza di giungere sana, salva e asciutta alla farmacia che gestisci, non era esattamente il massimo, ma Michelle Wood si dimenticava sempre di cambiare la suoneria al cellulare, nonostante se lo fosse ripromessa un miliardo di volte.
Allungò una mano, prendendo ripetutamente a schiaffi il comodino, prima di afferrare malamente il proprio telefono – regalo di suo padre quando era diventata maggiorenne – e portarselo all’orecchio, non prima di aver dato una rapida sbirciatina allo schermo.
- Spero per te che stia andando a fuoco qualcosa…!- borbottò, vagamente conscia che i suoi capelli dovevano essere molto somiglianti al nido di un’aquila, in quel momento.
- Scusa…ti ho svegliata?- fece la voce di sua sorella dall’altro capo del filo.
- No…- sbuffò Michelle, tirandosi su a sedere con il cuore che piangeva.- Scusami tu. Credo di essere un po’ meteoropatica. Che succede?
- Papà parte per due settimane.
- Beh, che c’è di strano?
- Sabato prossimo c’è la festa, Michelle.
Michelle si gelò, improvvisamente sveglia. Si appoggiò puntellando un gomito sul materasso.
- Oh…- mormorò.- Mi spiace, Aurora.
- Anche a me…- Michelle sentì sua sorella sospirare tristemente.- Soprattutto se penso che mi toccherà rimanere sola con Zelda.
- Ah, già: Zelda! Come sta la nostra adorata matrigna?- ironizzò Michelle.
Esattamente come a sua sorella, Zelda non le era mai piaciuta, sin dal primo momento in cui aveva messo piede in casa loro. Suo padre l’aveva sposata dopo solo sei mesi di conoscenza, e sebbene fossero già trascorsi due anni da quel giorno, lei e Aurora ancora facevano scommesse su quanto ci avrebbe impiegato Stephen a comprendere chi si era tirato in casa.
Era palese che Zelda avesse sposato l’ambasciatore Wood solo per il suo denaro. L’operazione di lifting, chirurgia plastica, protesi al seno e ritocchi vari ne era stata un esempio emblematico. Aurora e Michelle Wood avevano perso la madre quando quest’ultima era morta nel dare alla luce la secondogenita – come nelle favole, pensò la ragazza, ma se queste cose capitavano nella realtà erano di gran lunga più tristi che su dei libri stampati e senza vita.
Aurora era nata prematura, sottopeso, e per diverso tempo anche lei era stata in pericolo di vita. Stephen si era dovuto dedicare anima e corpo alla neonata, e per farlo aveva chiesto alle sue tre sorelle nubili di occuparsi della primogenita, che all’epoca aveva otto anni.
Michelle poteva dire di essere cresciuta praticamente insieme a zia Florence, zia Faye e zia Sally, che l’avevano tirata su come una figlia. Erano affezionate anche ad Aurora, questo sì, ma con lei avevano creato un legame speciale, che non si era andato incrinando nel tempo.
Erano state loro ad aiutarla durante i suoi studi in farmacia – Stephen avrebbe voluto che studiasse scienze politiche e andasse a lavorare insieme a lui una volta raggiunta la laurea –, ed erano state loro, due anni prima, a ospitarla e a procurarle un appartamento in cui vivere dopo che Michelle se n’era andata da casa a seguito dell’ennesima, furiosa litigata con Zelda.
Più volte aveva chiesto ad Aurora di fare altrettanto, ma sua sorella sembrava inspiegabilmente restia a lasciare il tetto sotto cui viveva insieme al padre e alla matrigna.
- Al solito. Secondo te pianterà grane, sabato sera?
- Se anche fosse, non preoccuparti: ci sarò anche io, ricordi?- disse Michelle, sorridendo anche se Aurora non poteva vederla.- Quell’arpia ha una paura dannata di me da quella volta che l’ho minacciata con un trinciapollo…
- Okay, allora…
- E non dimenticarti di Filippo. A proposito, dov’è?
- Stamattina aveva un impegno. Doveva passare a prendere quella sua amica che ha conosciuto con il progetto Erasmus. Ha detto che si fermerà a casa sua per sei mesi. Sai, te ne avevo parlato…Quella ragazza cinese…
 
Mulan
 
Il taxi si fermò dopo aver superato di pochi metri un cartello di benvenuto.
 
Welcome to Storybrooke
 
Mulan Chang lo lesse mentre un sorriso di contentezza le si disegnava sulle labbra. Si sporse in avanti, porgendo alcune banconote al tassista.
- Grazie…- mormorò, in inglese perfetto. Studiava lingue all’università di Pechino, e fra meno di un anno si sarebbe laureata. Lì in America avrebbe dovuto dare alcuni esami, ma per il momento non ci voleva pensare. Ora, voleva solo godersi quella sensazione di contentezza e libertà che le dava l’essere finalmente arrivata a Storybrooke, e il pensiero che presto avrebbe rivisto il suo amico Filippo non faceva altro che aumentare quell’euforia.
Aveva conosciuto Filippo due anni prima, durante il progetto Erasmus, e per circa sei mesi lo aveva ospitato a casa sua, a Pechino. Sulle prime, quando aveva saputo che il suo compagno sarebbe stato un ragazzo, si era sentita un po’ delusa: avrebbe preferito di gran lunga una donna, e così anche suo padre, un tipo piuttosto all’antica. Ma sia lei sia tutta la sua famiglia si erano immediatamente ricreduti non appena avevano scoperto che caro ragazzo fosse Filippo: gentile, educato, rispettoso, mai invadente, e Mulan con lui si divertiva un mondo.
Quando era venuto il momento di salutarlo, aveva persino pianto, cosa per lei insolita, ma l’aveva rincuorata la promessa che presto si sarebbero ritrovati a Storybrooke.
E ora, molto presto, lo avrebbe rivisto.
Mulan smontò dal taxi, tremando al pensiero che si sarebbe dovuta trascinare le valigie fino a chissà dove. Il tassista la imitò, aprendo il bagagliaio dell’auto.
- Le serve aiuto, signorina?- s’informò.
- La ringrazio, ma da qui in avanti di questa damigella mi occupo io!
Mulan si voltò, sfoderando un gran sorriso mentre vedeva Filippo avvicinarsi a lei. Gli corse incontro, gettandogli le braccia al collo.
- Come sono contenta di vederti!- esclamò, abbracciandolo.
- Anche io! Ma ancora non capisco perché non hai voluto che venissi a prenderti all’aeroporto di Boston…- disse il ragazzo, sciogliendo l’abbraccio e guardandola negli occhi.
Mulan sbuffò.
- Perché avresti dovuto farti quattro ore di macchina per scarrozzarmi quando esistono i taxi?- replicò.- E poi, sei stato così gentile ad offrirti di ospitarmi in casa tua, invece di spedirmi in un albergo…
- E’ il minimo che possa fare per un’amica…!- Filippo sorrise, prendendo le valigie di Mulan dal bagagliaio del taxi.- Vieni, ho la macchina qui vicino. Oggi ti faccio conoscere i miei genitori, poi ti riposi un po’, sarai stanca…Oh, e ho una bella notizia: sabato prossimo siamo invitati a una festa di Halloween a casa della mia fidanzata.
Il sorriso di Mulan si smorzò un poco.
- Aurora?- chiese, in un soffio; sapeva che Filippo aveva una ragazza, lui gliene aveva parlato spesso con entusiasmo…anche se ultimamente, Mulan, sentiva come un gusto metallico in bocca, quando ci pensava. Stando a come ne parlava Filippo, quell’Aurora Wood era Miss Perfezione in persona…Mulan non aveva mai visto di buon occhio le persone troppo perfette, né aveva mai creduto che esistessero veramente, che tutta quella perfezione fosse solo di facciata. Forse era proprio quest’impressione di Aurora che le dava fastidio e le ispirava antipatia senza averla ancora conosciuta.
Ma avrebbe comunque provato a farsela piacere, per amore di Filippo.
Il ragazzo le sorrise, facendole strada.
Mulan lo seguì, chiedendosi come mai le parole fidanzata e Aurora Wood continuassero a correrle nella mente.
 
Regina
 
Un po’ di ombretto scuro, del fondotinta, rossetto vermiglio, capelli corti sistemati con un paio di colpi di spazzola e una spruzzata di lacca, eyeliner, calze di nylon, scarpe col tacco, un tailleur nero e un cappotto scuro appena sopra il ginocchio, smalto impeccabile e borsetta di Gucci.
Regina Mills si rimirò con cura nello specchio un’ultima volta, prima di prendere le chiavi della macchina e uscire di casa. Aveva sempre pensato che la sostanza contasse più dell’apparenza, questo sì, ma che una persona fosse anche in grado di vendere il prodotto. Dunque, com’era sua abitudine, non tralasciava mai di curare l’aspetto fisico, prima di uscire per andare al lavoro.
Tanto più che il sindaco della città doveva dare il buon esempio.
Giunta sul pianerottolo, controllò un’ultima volta di avere tutto ciò che le occorreva nella borsetta. Al peggio, pensò, avrebbe inviato Zelda Wood, la sua segretaria, a prenderglielo.
Si strinse nel cappotto, mentre una ventata d’aria gelida le sferzava sul viso. Il cielo era nuvoloso, molto probabilmente presto avrebbe iniziato a piovere, ma Regina sperava con tutto il cuore di poter raggiungere l’ufficio prima di essere costretta a sfoderare l’ombrello.
Iniziò a percorrere il vialetto della sua villa, diretta verso l’auto, quando una figura nel suo giardino, china sull’erba e apparentemente intenta a piantare alcuni boccioli attirò la sua attenzione. Sulle prime, Regina pensò si trattasse di Moe French, il giardiniere che lavorava a casa sua due mattine a settimana, ma subito cambiò idea quando non riconobbe in quell’uomo la figura tozza e massiccia che era propria del giardiniere abituale.
Si avvicinò, indecisa se preoccuparsi o meno.
- Ehi!- chiamò, al che lo sconosciuto sollevò il capo a guardarla.- Chi è lei? Che ci fa qui?
L’uomo, per tutta risposta, si alzò in piedi e le andò incontro. Regina avvertì una fitta di paura che si estinse subito quando si accorse che questi non aveva per niente l’aria minacciosa. Si trattava di un uomo ancora tutto sommato giovane, sui trentasette o trentotto anni, alto, con gli occhi scuri e i capelli biondo cenere. Indossava una tuta da lavoro color verde scuro, sporca di terra, e dei guanti spessi.
- Buongiorno, signora Mills. Mi spiace se l’ho spaventata. Sono un assistente del signor French…
- Oh…- mormorò Regina, dubbiosa.- E lui dov’è?
- Stamattina aveva un impegno che non poteva essere rimandato, così ha delegato me.
- Capisco. Confido che saprà fare un buon lavoro…- disse Regina.- Solo, la pregherei di stare attento con il fertilizzante, se per caso dovesse occuparsi dell’albero di mele laggiù in fondo, signor…ehm…scusi, non conosco il suo nome…
L’uomo sorrise, sfilandosi il guanto dalla mano destra e tendendola a Regina, la quale la strinse con riluttanza.
- Richards, signora Mills. Mi chiamo Daniel Richards.
 
Ariel, Esmeralda e Tamara
 
L’atmosfera generale era quella dello sbaracco, come l’avrebbe definita Ariel Flynn, come ogni mattina. Erano le cinque, e a quell’ora il King of the Fools era vuoto, fatta eccezione per gli inservienti che in quel momento stavano ripulendo la sala, i tavoli con le poltroncine e il palcoscenico dai residui di cibo e i cocci di bicchieri.
Ariel si stiracchiò, chiudendo gli occhi e passandosi una mano fra i suoi capelli rosso fuoco; aveva indossato un cappotto marrone sulla divisa striminzita che dovevano indossare le ballerine di quel locale, lungo fino alle caviglie in modo che del suo abbigliamento si scorgessero solo i tacchi a spillo dei suoi stivali neri. Era stanca morta, e aveva in assoluto bisogno di un caldo bagno rilassante. Ma prima ancora, aveva bisogno di dormire.
Ariel sbuffò, voltando il capo alla sua sinistra.
- Esme, ma che cazzo di fine hai fatto?! Muoviti, sono stanca!
- Ehi, ehi, piano con i toni!- la rimbeccò il suo capo, guardandola male.- Questo linguaggio lo usi a casa tua, bellezza. Qui nel mio locale non lo voglio sentire…
- Il locale non è tuo, tesoro, è di Peter Pan, e io parlo come diamine mi pare!
- Dai, basta…- Ariel si voltò, vendendo la sua amica Esmeralda Ramirez venirle incontro. Indossava un giubbotto imbottito che le arrivava sino alla vita, lasciando intravedere le lunghe gambe coperte solo dagli shorts dorati della divisa. Ariel non poté fare a meno di pensare che avrebbe fatto meglio a sbrigarsi a tornare a casa, se non voleva morire assiderata.
Esmeralda le si avvicinò.
- Che hai, Ariel?
- Niente…scusa, sono solo stanca…in genere non sono così, lo sai…
Era vero; raramente Ariel imprecava, ma la stanchezza giocava brutti tiri a tutti. Esmeralda non replicò, ma intascò una mazzetta di dollari e ne porse a lei un’altra.
Ariel la prese, contandoli con attenzione.
- Ci sono tutti?- s’informò.
- Sembra di sì. Che dici, andiamo?
- Sì, andiamo, non ce la faccio più…
Uscirono entrambe, andando incontro all’aria gelida di quel mattino di fine ottobre. Si strinsero istintivamente nei loro cappotti; fecero per svoltare l’angolo, ma d’un tratto Esmeralda arretrò di scatto, una smorfia disgustata disegnata sul volto.
- Ma porca miseria, Tamara, proprio qui lo dovete fare?!- biascicò.
Di fronte a lei, come se niente fosse, Tamara Carter spinse via da sé Greg Mendell, il buttafuori del locale, che sino a quel momento l’aveva tenuta premuta contro il muro, standole appiccicato addosso.
Tamara si umettò le labbra con fare sensuale, ma a Esmeralda sembrò solo una gatta in calore.
- Che c’è, Esme?- ridacchiò.- Gelosa?
- Di te?! Del fatto che oltre a questo idiota ti sei ripassata tutto il locale? Ma non farmi ridere!- Esmeralda la superò a passo svelto, seguita a ruota da Ariel. Nessuna delle sue parlò, ma la rossa sapeva benissimo cosa pensava la sua amica.
A Esmeralda non era mai piaciuta Tamara. L’aveva conosciuta cinque anni prima, insieme ad Ariel, quando era arrivata a Storybrooke senza un soldo e non aveva trovato niente di meglio che fare la ballerina in quello squallido locale di periferia, e subito si erano prese in antipatia.
Esmeralda faceva ciò che faceva solo perché in caso contrario si sarebbe trovata in mezzo a una strada, e così anche Ariel, Marion – una ragazza che aveva lavorato con loro per un po’ e poi si era licenziata – e le altre ballerine. Erano tutte lì perché vi erano state in qualche modo costrette, o spinte da necessità. Ballavano, a fine spettacolo intascavano la paga, se ne tornavano a casa a dormire e la sera tutto ricominciava. Ma non erano mai andate oltre, non si erano mai spinte fino a vendere la propria dignità.
Tamara invece sì. Era cosa nota che si prostituisse al miglior offerente per arrotondare la paga, come ghignava sempre lei, e il peggio era che non lo faceva perché ne aveva bisogno, ma perché le piaceva.
Greg Mendell, il buttafuori, era il suo amante fisso, il numero uno, ma Tamara era stata con quasi tutti i clienti abituali, da Rod Cooper fino ad arrivare – si diceva – allo stesso Peter Pan.
Peter Pan. Colui che possedeva un quarto della città.
Il nemico del ricco e potente signor Gold.
 
Emma
 
- Okay, lo zaino ce l’hai?
- Sì.
- La merenda, te l’ho messa?
- Sì.
- Per pranzo ti ho preparato un panino con del succo di frutta, va bene?
- Sì, grazie…
- Se non faccio in tempo, ti riaccompagna a casa Mary Margaret.
- Tanto abitiamo nello stesso appartamento…
- Appunto. Sicuro di aver preso tutto?
- Sì.
- Fai il bravo a scuola. Ci vediamo stasera!
Emma Swan diede un bacio frettoloso sulla fronte di suo figlio Henry, afferrando nel contempo il cappotto e cercando di annodarsi la sciarpa intorno al collo, incastrandola nel pon pon della cuffia. Il bambino rimase a guardare attonito sua madre che incespicava nella direzione della porta. Emma picchiò un ginocchio contro il portaombrelli, iniziando a saltellare su una gamba sola per il dolore.
- Ma…non mi accompagni all’autobus?- chiese Henry.
- Scusa, ragazzino, ma sono in ritardo. Tanto ci sai arrivare da solo, no?- sbuffò Emma, maledicendo mentalmente tutti gli ombrelli della terra.
- Ma com’è che siamo arrivati da un mese e sei già Vicesceriffo?- chiese il ragazzino, incrociando le braccia al petto. La donna si strinse nelle spalle, aprendo la porta dell’appartamento.
- Beh, sono un’ex cacciatrice di taglie, si vede che ho fatto colpo…Ci vediamo stasera, ciao!
Henry salutò con una mano, sospirando non appena sua madre richiuse la porta alle sue spalle.
Erano venuti a Storybrooke per cambiare vita, ma dubitava che sua madre sarebbe mai cambiata. Non aveva mai conosciuto suo padre, e da quel che ricordava erano sempre stati insieme, solo lui ed Emma.
Sua madre era una brava persona. Da ragazza era rimasta incinta a diciotto anni e aveva partorito in prigione per aver commesso alcuni piccoli furti, ma ora sembrava aver messo la testa a posto…anche se rimaneva un maschiaccio e una pasticciona senza speranza.
Si occupava di lui come meglio poteva, lavorando dalla mattina alla sera per mantenerlo. Un mese prima, si erano trasferiti a Boston a casa di Mary Margaret Blanchard, un’amica di Emma che era divenuta anche la maestra di Henry.
Per ora le cose sembravano andare per il verso giusto, e il bambino sperava veramente che sua madre riuscisse a trovare un equilibrio, una volta per tutte.
Henry si riscosse, sentendo dei colpi violenti picchiare ripetutamente contro la porta.
- Henry! Henry, apri! Ho dimenticato le chiavi!
Okay, come non detto.
 
Marion
 
- Marion! Marion! Ehi, stronza, che fai chiusa là dentro?!
Marion Parker fece appena in tempo a udire le urla di Keith e i suoi colpi contro la porta del bagno, prima di venire colta da un altro conato di vomito e piegarsi sulla tazza, dando di stomaco come mai in vita sua. Tossì, madida di sudore, sentendosi la testa pesante come un macigno.
- Marion! Brutta stupida, quel caffè era freddo, faceva schifo! Esci da quel cesso, immediatamente!
- Scusa, Keith…- soffiò, debolmente, disgustosamente docile.- Adesso…adesso te ne preparo un altro…
- Lascia perdere, tanto non sei buona a fare niente, troia!
L’insulto fu accompagnato da un ultimo pugno sferrato violentemente contro la porta, quindi Marion sentì i passi di Keith allontanarsi fino a uscire dal loro squallido appartamento. Se era fortunata, pensò, sarebbe tornato solo per l’ora di pranzo.
Si tirò su a fatica, sedendosi sul pavimento freddo e sporco del bagno e appoggiando il dorso contro la parete umida. Aveva trascorso l’intera nottata in bianco, inginocchiata di fronte alla tazza a tirare su anche l’anima, e anche adesso si sentiva lo stomaco in subbuglio.
Il suo fidanzato, naturalmente, non se n’era neppure accorto.
Che mi sta succedendo?
Non volle rispondere alla sua stessa domanda, nascondendo la testa sotto la sabbia come una vigliacca, ma la sua mano tremante di paura e orrore sfiorò istintivamente il suo ventre. Nel contempo, il livido che Keith le aveva lasciato all’altezza dello zigomo iniziò a pulsare più forte.
 
Alice
 
Jefferson piantò le mani sul bancone, sentendosi infinitamente stanco. Guardò l’infermiera di fronte a sé per l’ennesima volta, con aria supplichevole.
- Voglio solo vedere come sta…Sono un infermiere, vorrei visitarla…- implorò.
- Sai che non puoi, Jefferson.
- Sono suo fratello…
- Appunto per questo. Sei troppo coinvolto. Per di più, sai in che stato è Alice. Potrebbe non riconoscerti, o diventare violenta.
Jefferson annuì, conscio che l’infermiera addetta al reparto psichiatrico dell’ospedale di Storybrooke aveva ragione. Si sentiva malissimo, infinitamente impotente. Ed era così da dieci anni.
- Posso almeno vederla?- domandò, un poco speranzoso.- Dalla finestrella. Nulla di più.
L’infermiera lo guardò un attimo, esitante; infine annuì, facendogli cenno di seguirla. Jefferson ubbidì, e lei lo condusse di fronte a una delle porte nel sotterraneo dell’ospedale.
L’uomo si sentì ancora più male quando lesse il nome di Alice Hatter scritto sulla lavagnetta.
L’infermiera sollevò la finestrella, e lui sbirciò dentro. Vide sua sorella Alice seduta in un angolo di quella stanza spoglia, rannicchiata su se stessa, le ginocchia strette al petto, lo sguardo basso e i lunghi capelli biondi che le ricadevano sul volto in modo da nasconderlo quasi completamente.
In quel momento, Jefferson si rese conto come non mai di quanto sua sorella somigliasse alla nipote, sua figlia Paige…mentre nella sua testa rimbombava il nomignolo che gli abitanti di Storybrooke le avevano affibbiato.
Alice Hatter, la pazza.
 
Belle
 
Annabelle French sistemò la colazione di fronte allo sguardo stanco e vuoto di suo padre. Gli aveva preparato il caffè con un po’ di latte, più bacon e pancetta e anche un paio di fette di pane imburrate come piaceva a lui, nel tentativo di tirarlo su di morale, ma a poco servì.
Moe la ringraziò con un cenno del capo, iniziando a mangiare con poco gusto. Belle si sentì stringere il cuore, e si voltò a lavare i piatti per non mostrare la sua espressione preoccupata.
Da tempo, gli affari andavano più che male. Suo padre aveva lavorato per anni come giardiniere nelle case dei benestanti di Storybrooke e circa sei mesi prima aveva impiegato tutti i suoi risparmi per aprire un negozietto di fiori. Ma anche quei soldi non bastavano e, per non perdere l’occasione, suo padre aveva dovuto chiedere un prestito.
E l’aveva chiesto a nientemeno che il signor Gold, l’uomo più ricco e forse più avido della città.
Inutile dire che il denaro e gli interessi che quell’essere spregevole aveva chiesto erano troppi per le loro tasche. Suo padre lavorava sino a notte fonda, e lei cercava di racimolare qualcosa con dei lavoretti saltuari, ma non bastavano mai.
Se non stavano attenti, rischiavano veramente di perdere tutto.
- Ad Halloween c’è molta richiesta di crisantemi…- la voce di suo padre le giunse così atona da spaventarla. Belle si voltò a guardarlo; Moe teneva lo sguardo fisso sul tavolo di fronte a sé.- Forse, se avrò fortuna, riuscirò a venderne un po’…
Belle esitò un attimo, quindi lo abbracciò, circondandogli le spalle con le braccia.
- Non preoccuparti, papà…- mormorò.- Troveremo una soluzione…
 
CONTINUA...
  
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