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Autore: WhileMyGuitarGentlyWeeps    25/09/2013    3 recensioni
Joan Cameron si trasferisce a New York dopo aver capito che la vita che credeva perfetta era in realtà una gabbia dorata. Arriva al 4D in una fredda mattina di febbraio e la sua porta non si apre.
Accorre in suo aiuto, come un principe su un cavallo bianco, quello che sarà poi il suo vicino, aprendo la porta di casa sua. Lui di fiabesco non ha nulla. E’ un’anima tormentata, svuotata.
Da quel freddo giorno di febbraio le loro vite si incrociano e si scontrano in una danza in cui non ci sono né vincitori né vinti.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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I.

Era una giornata fredda, sì decisamente fredda, di metà febbraio quella in cui Joan Cameron mise piede nell’appartamento al quarto piano, il 4D, esattamente di fronte al 4C, di un piccolo palazzo in Coleridge Street, nel Queens.
La zona non era delle migliori del quartiere, ma era quanto di meglio una psicologa alle prime armi come lei potesse permettersi. Parcheggiò la sua Chevrolet lì davanti, sperando di ritrovarla la mattina successiva e trascinò le enormi valigie su per i quattro piani.
Arrivò senza fiato, la borsa scesa dalla spalla e le mani doloranti per il peso delle valigie.
Trovò la chiave al primo colpo ma, nonostante i vari tentativi la porta non si apriva.
“Niente, non funziona!” Piagnucolò. Era quella giusta, come diavolo poteva essere che la maledettissima porta non si apriva?!
“Eddai”. Tentò di rinfilarla, senza avere successo. “Ottimo”.
Chiamò il proprietario, che le disse che forse, le aveva dato la chiave di un altro appartamento. L’uomo era però fuori città e poteva portargli la chiave giusta solo il mattino successivo.
“Senta, le ho dato tre mesi di anticipo, il minimo che possa fare è darmi la chiave giusta di questo maledetto appartamento”.
Niente, non sarebbe venuto prima delle 10 del mattino dopo.
“Scherza? E secondo lei dove dovrei dormire questa notte, sotto il ponte di Brooklyn?!”. L’uomo chiuse la comunicazione. “Idiota!”
Tirò un calcio alla porta facendosi male.
“Ti spiace non strillare a quest’ora?” Era una voce alle sue spalle a parlare, la voce profonda di un uomo sulla trentina. Un bel ragazzo, i capelli neri e gli occhi chiarissimi, un lieve accenno di barba sul viso che lo rendeva più vecchio di quello che in realtà non fosse.
“Quest’ora sono le undici e…” Controllò l’orologio. “Sette minuti, mio caro. E comunque non mi sto divertendo, a quanto pare sono chiusa fuori da una casa che non ho neanche mai visto perché il padrone di casa è un idiota. Come puoi aver notato sono piuttosto irritata, quindi se potessi evirare di farmi incazzare ancora di più te ne sarei grata”.
Un sorriso si stampò sul volto del ragazzo, per nulla scalfito dal nervosismo della ragazza. Pensò che nonostante fosse isterica non fosse niente male. Era sul metro e sessantacinque, forse qualcosa in meno, snella. I ciuffi più corti di quei capelli castani e lunghi continuavano a scapparle davanti agli occhi sottili e verdi.
“Dovresti calmarti”.
Lei rise istericamente. “Sì, quando potrò entrare in casa mia mi calmerò!”
Lo sconosciuto rientrò in casa sua lasciando la porta aperta, senza aggiungere altro.
Quando ne uscì aveva qualcosa in mano, ma Joan non riuscì a vedere cosa fosse. Si avvicinò alla porta e usò ciò che aveva in mano per aprirla.
“Benvenuta a casa sua signorina”.
La ragazza era colpita, ma perplessa. “Hai appena scassinato la porta di casa mia?!”
Lui alzò le spalle come se ciò che avesse fatto fosse la cosa più normale che esista. “Non volevo sentirti strillare per tutto il giorno”.
“Ehm…Ok, grazie”.
“Quando vuoi”. Sparì dietro la porta senza dire nulla.
“Casa dolce casa”. Disse Joan sarcastica. In effetti non era male… Certo non era un attico nell’Upper East Side, ma comunque era un tetto sopra la testa. C’era una cucina abbastanza grande con un tavolo accostato alla parete, un salotto con un divano , una camera da letto luminosa senza però l’armadio, un bagno e uno sgabuzzino, che Joan pensò subito di trasformare in una piccola
cabina armadio.
Sistemò le cose e quando finì era ormai buio.
 
Un suo collega di New York, che si sarebbe trasferito in Giappone, le aveva ceduto lo studio, ma avrebbe iniziato a lavorarci solo alcuni giorni dopo.
La mattina era il suo momento preferito, amava svegliarsi presto, fare colazione e prepararsi con calma sorseggiando un caffè. Uscì appena dopo aver ricevuto le chiavi di casa dal padrone di casa, che le aveva chiesto sarcasticamente se la notte avesse dormito sotto il ponte di Brooklyn. Non ci mise molto a trovare il supermercato, tutt’altra faccenda invece era la via del ritorno. Tutte le vie le sembravano uguali e ci mise molto prima di riuscire a trovare quella giusta.
Il mattino, invece non era per niente un buon momento per Brent ‘Cult’ Jameson. Odiava sentire il suono della sveglia la mattina, doversi occupare…Bè di qualsiasi cosa lui si occupasse. Nessuno sapeva bene che lavoro facesse, se non le persone che non lui ci lavoravano, che si potevano comunque contare sulle dita di una mano.
Quella mattina doveva andare a parlare con un tizio che doveva dei soldi ad un altro tizio. Sì, faceva l’allibratore, ma anche la guardia del corpo, detective privato su chiamata e solo per una cerchia ristretta di persone e buttafuori in una discoteca di un suo amico.
 
“Ottimo, ora che ho le chiavi non le trovo”. Joan inveiva contro che chiavi disperse chissà dove nella capiente borsa.
“Possibile che sei sempre nervosa?” Era di nuovo il tizio dell’appartamento di fronte. Quel giorno però non indossava solo dei jeans morbidi e una canotta bianca, aveva una giacca di pelle nera, tenuta aperta e dei pantaloni scuri.
“Non trovo le chiavi”.
“Se vuoi posso…” Cercò di dire lui sfoderando un sorriso a mille denti.
“No, grazie, non voglio essere complice di uno scassinatore”. Rispose lei bruscamente.
“Ok”. Alzò le mani in segno di resa, ma si avvicinò e le prese le buste con la spesa.
Joan, con le mani libere poté finalmente cercare meglio le chiavi, che trovò sul fondo della borsa.
Aprì la porta e riprese le buste, ringraziando lo sconosciuto.
“Io comunque sono Joan”. Gli disse tendendogli la mano sottile dopo che l’aveva liberata dalle buste appoggiate all’entrata.
“Cult”.
Cult? Che razza di nome era? Bah…Probabilmente non era il caso di fargli notare le sue perplessità, non sarebbe stato educato e in fondo lui era stato molto gentile. Se non fosse stato per lui avrebbe dormito chissà dove.
“Bè allora ci vediamo, Joan
La ragazza si limitò ad annuire e chiudersi la porta alle spalle. Affascinante era affascinante… Gli ultimi dirimpettai che aveva avuto erano un vecchietto che si lamentava per qualsiasi cosa e sua moglie, una vecchietta simpatica e mezza sorda, quindi diciamo che le sarebbe andato bene chiunque come vicino.
Si doveva ancora abituare a quella casa, a quel letto, al divano scomodissimo, alla porta di legno verde oliva, all’aria diversa, perché sì, quando cambi città anche l’aria cambia. New York era meravigliosa, ma nulla batteva la città in cui era nata e cresciuta: Washington. Le mancavano la casa bianca, il cimitero monumentale, con tutte quelle tombe perfettamente uguali,  l’obelisco, le passeggiate notturne con David. Ah sì, David Newlin, specializzando in chirurgia e suo ex fidanzato.
Già ex… Certe cose non funzionano e basta, no? Il per sempre felici e contenti esiste solo nelle favole.
 
“Devi pagare, ok? Quella non è gente che scherza”.
“Mi mancano ancora quattrocento dollari…Un paio di settimane e li avrò tutti, digli di darmi un po’ di tempo”.
L’uomo aveva occhi supplichevoli e, nonostante Cult non l’avrebbe mai ammesso, gli faceva compassione. Gli allungò i duecento dollari che aveva nella tasca interna della giacca.
“Ora te ne mancano duecento. Hai cinque giorni, non uno di più”.
Se ne andò senza neanche guardare l’uomo, il cui sguardo era pieno di gratitudine.
Cult salì in macchina scuotendo la testa. Si guardò nello specchietto retrovisore.
“Ti stai rammollendo, Cult!”
Si tirò uno schiaffetto e ingranò la marcia.
Sulla via del ritorno incontrò la vicina di casa, quella carina, Joan, sembrava quasi persa. Si guardava intorno alla ricerca di un punto di riferimento. Perché diavolo aveva deciso di uscire a fare un giro di ricognizione?
Cult suonò il clacson e Joan sussultò, girandosi. Individuò un volto conosciuto e si avvicinò all’auto, che aveva accostato.
“Ehi, ti sei persa?”
Annuì, imbarazzata. “Volevo conoscere la zona, ma ho fallito miseramente”.
“Sali”.
Lei fu incerta, ma alla fine accettò il passaggio.
“In questa strada il sabato non si può parcheggiare, quindi ricordatelo, invece da noi fanno la pulizia delle strade il mercoledì mattina, stai attenta o ti portano via la macchina”.
Joan annuì sperando di ricordarsi tutto.
“Lì c’è una fermata della metro, tra due isolati ce n’è un’altra, che è a un solo isolato da casa nostra”.
“Ok, fermata a un isolato da casa nostra, tra due isolati”.
“Brava, mi piacciono le persone che imparano in fretta”.
“Miss, eccola alla sua residenza”. Disse poi parcheggiando dall’altra parte della strada, di fronte a casa.
“Bè grazie, è la terza volta che mi aiuti in due giorni”.
“Consideralo un benvenuto, sono un gentiluomo”.
“Non mi fido dei favori gratuiti…Diciamo che ti devo un paio di favori, ok?” Gli porse la mano, che lui strinse in una morsa calda e rassicurante. Restò per un attimo a guardarlo, aveva gli occhi così chiari che sembravano trasparenti; lui dal canto suo fece lo stesso, la ragazza aveva gli occhi espressivi, lo sguardo intenso e delle labbra perfette, carnose ma non troppo.
Fu Cult a staccarsi per primo da quel contatto privando Joan del suo calore. La ragazza scese dall’auto e fu investita da una folata di vento gelato.
Il meteo prevedeva neve nei giorni successivi, e nell’aria si sentiva già il suo profumo, quel profumo che Joan aspettava per tutto l’anno quando era piccola.
 
Cult non amava granché avere a che fare con ragazzini che non avevano l’età per ubriacarsi, che buttavano giù più drink di quanti riuscissero a contarne, ma si sentiva in dovere di aiutare Steve, l’amico di una vita, il compagno di bevute, la persona che lo accompagnava da quando aveva sette anni.
Si tolse i vestiti che aveva addosso per sostituirli con pantaloni e camicia neri e uscì di casa. Diede un’occhiata di traverso alla porta del 4D. Sembrava tutto tranquillo.
La discoteca era ancora vuota, era relativamente presto,ma dopo una mezz’ora i ragazzi iniziarono ad animare la serata.
Verso le due un ragazzo, mezzo ubriaco, forse con altro in sangue oltre all’alcool, si avvicinò a Cult, che stava vicino al bancone a controllare l’interno.
“Ehi, amico”. Gli appoggiò una mano sulla spalla. Quel contatto lo infastidì.
“Dai ragazzo, tornatene a casa a smaltire la sbornia!”
Il ragazzo, che non avrà avuto più di vent’anni. “Io non sono ubriaco”.
“Ne sono certo, ma è meglio se vai a casa”.
“Voglio divertirmi”.
“Sì, ma è meglio se lo fai fuori di qui”. Disse Cult prendendolo per il braccio, il ragazzo si dimenò ed estrasse un coltello. Cult si tirò indietro e fece un cenno a Steve, che lo raggiunse.
Quello che accadde dopo rimase confuso nella sua mente. Ci furono un susseguirsi di colpi assestati, colpi mancati, coltellate mancate…
 
Era un sogno strano quello che Joan stava facendo. Era nel mezzo di un bosco buio e camminava così lentamente da sembrare ferma e poi c’era un rumore, assordante, un rumore che rimbombava nel suo stomaco, nel cervello, nelle vene.
Si svegliò di soprassalto, i capelli davanti agli occhi, le coperte scostate. Il rumore, assordante data l’ora, era reale, o forse stava ancora sognando.
Si tirò uno schiaffetto. Era reale. Controllò l’ora: le tre del mattino. Odiava essere svegliata nel bel mezzo della notte.
Si trascinò giù dal letto controvoglia, sperando che fosse davvero un sogno, anche se il pavimento freddo le fece pensare il contrario.
“Ma lo sapete che ore sono?!” Urlò arrivando alla porta.
Chiunque fosse non smetteva di bussare, imperterrito.
“Un attimo”. Disse poi aprendo la porta.
Quando vide ciò che aveva davanti agli occhi rimase scioccata: Cult, sanguinante da un fianco, era sorretto da un ragazzo alto quanto lui, i capelli scuri e gli occhi chiari. Anche lui aveva dei segni di lotta, all’altezza dello zigomo destro.
“Ci devi aiutare”. Era lo sconosciuto a parlare.
“Io…Io non credo di poter fare nulla, posso portarvi in ospedale o chiamare un’ambulanza”.
“No…Niente ospedali”. Era Cult quella volta, la voce bassa.
“Tu sei un dottore, no?” Lo sconosciuto indicò il campanello, sopra cui c’era una targhetta con la scritta ‘Dr. Joan Cameron’.
“Sì, una psicologa”. Spiegò lei.
“Lascia perdere…Te l’ho detto che non ci avrebbe aiutati…Farò da solo”. Cult si reggeva a malapena in piedi e si teneva il fianco. Non usciva molto sangue dalla ferita, ma la camicia, nera si era quasi completamente tinta di un colore ancora più scuro.
“Non se ne parla, non ti lascerò fare il John Rambo della situazione”. Il tizio sconosciuto sembrò sorpreso dal sarcasmo della ragazza data la situazione. “Entrate”.

 
Salve!
Ho deciso di iniziare questa nuova storia presa da un raptus che rasentava la follia. Questo capitolo, così come alcuni dei prossimi, sono stati scritti di getto.

Lo ammetto, non ero sicura di pubblicarle il capitolo dando il via a una nuova storia, ma alla fine mi sono fatta convincere dalla vocina interiore che mi diceva di farlo.
Spero vivamente che commentiate. Mi farebbe immensamente piacere, davvero, sia che siano critiche positive che negative (anche quelle fanno bene!).
Per cui non siate timide/i.
A presto! : )

xx


 
  
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