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Autore: este    26/09/2013    6 recensioni
"Storie di dolore, di paura ma soprattutto di coraggio. Storie di chi ha lottato e perso e vinto e alla fine ha trovato la sua ricompensa. Storie di rabbia, storie di indecisioni e di riscatti. Storie diverse, ma intrecciate in un unico, identico finale."
Perchè si sarebbero incontrati, sempre.
Endgame!Klaine
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel | Coppie: Blaine/Kurt
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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nda: Buonasera :D questa storia è un progetto che mi porto avanti da tutta l'estate, e avrei sempre voluto finirla in tempo per la Season premiere, ma tra una cosa e l'altra (complice il fatto che mi sono parecchio dilettata a scrivere stronzate, ultimamente, per le quali ringrazio tutti per i fantastici commenti) non ho mai trovato l'ispirazione per darle una forma. Oggi, per tenermi impegnata dall'ansia della 5x01 che minacciava di friggermi il cervello, ho aperto il documento word e, come succede spesso, le dita sono come impazzite sulla tastiera.

La pubblico a poche ore dalla puntata, perchè qualunque cosa succederà sarà.. epico, e, se leggerete la mia storia, capirete, per come è strutturata che.. è come un accompagnamento a questo episodio, che ci promette di essere la luce alla fine di un tunnel lungo quasi un anno

Spero vi piaccia, ci ho messo tutta me stessa.
E felice 5x01 a tutti!!!





 
Parte prima:              Kurt
 


Una delle prime cose che mia madre mi ha insegnato è stata “tieni sempre le tue cose al loro posto, Kurt. Niente disordine”. Non che fosse necessario, fin da quando ho memoria ho sempre detestato la sciatteria. Ero sempre molto attento a riporre tutti i miei giocattoli nei bauli e negli armadi, non lasciavo mai magliette e pantaloni alla rinfusa sulle sedie  e soprattutto mi curavo sempre di ripulire il ripiano della scrivania da briciole, trucioli di matite temperate, cartacce e residui di gomme per cancellare.

Si, sono sempre stato un bambino abbastanza precoce.

“Ciò che è pulito, è bene. Ciò che è sporco, è da buttare”. Niente sfugge alla regola. O almeno, così credevo.
Perché, alcuni anni dopo, nell’immondizia, ci sono finito io.

Ci ho provato, davvero. Ci ho provato, a mettermi nei panni di quegli scimmioni palestrati e cercare di capire cosa di piacevole e divertente possa derivare dal lanciare un tuo simile nel cassonetto della spazzatura. Ho compiuto lo sforzo di recedere mentalmente al loro livello – e la cosa mi ha disgustato ancora di più del lancio nel cassonetto – ma non ne sono venuto a capo.

Esiste davvero qualcosa che giustifichi un simile trattamento? Cosa stanno cercando di dirmi? Che sono.. spazzatura? Un qualcosa da buttare via?
Perché, cazzo. Non reagisco, e mi torturano. Reagisco, ed è solo peggio. Nessuno vede. Nessuno interviene. Anzi, tutti vedono e ridono. Ridono.

Forse mamma aveva torto. Forse non basta tenere in ordine la stanza o ripulire dopo aver giocato per essere considerati delle persone per bene.
Forse è il mio cuore ad essere sporco. E ripensandoci, il posto giusto, per quello, è in quel dannato cassonetto.
 

E poi, ho incontrato te.

 
 
*
 
Fare coming out non è mai stato nei miei piani, se devo essere sincero. Questo perché sono sempre stato abbastanza – anzi, totalmente – sicuro di ciò che ero. E no, non parlo del fatto che da piccolo preferivo certi tipi di passatempi o chiedevo determinate cose in regalo ai miei genitori.

La mia sessualità si è definita nel momento in cui ho emesso il primo respiro. E’ cresciuta con me, insieme ai miei capelli, alle braccia e alle gambe, insieme all’imparare a parlare, a leggere, e scrivere. Non è che ho dovuto farci i conti, era là, e basta. Ero io.

Quindi, perché dover andare a dire al mondo ciò che ero, come se fosse chissà quale grande scoperta scientifica? Non ho bisogno di avere un’etichetta addosso. Non sono una scatola di sottaceti.

E soprattutto, non mi pare che, a scuola, gli etero vadano in giro con un cartello appeso al collo con su scritto “mi piace l’altro sesso, se ve lo stavate chiedendo”.

Io non me lo sono mai chiesto, e a dirla tutta, non mi interessava granché. Cioè, sono fatti loro.
E anche qua, ho scoperto che mi sbagliavo.
Si, perché da chi sono sessualmente ed emotivamente attratto è una questione di interesse PUBBLICO.

E’ stato come un’onda che si avvicina alla spiaggia. Un attimo prima, il mare era calmo, vedevi solo qualcosa all’orizzonte, qualcosa che si avvicinava, lento ma inesorabile. Qualche occhiata di troppo. Un bisbiglio all’orecchio. Le risatine. Dio, quelle le odiavo più di tutto il resto.

Intanto l’onda si avvicinava, e un’onda non si può fermare. Puoi solo restare fermo, sperando che non ti inzuppi completamente.

SBAM.

Un dolore forte, a una spalla. Due ragazzi che si battono il cinque.
Una parola. QUELLA.

L’onda è arrivata, e non mi ha bagnato e basta. Mi ha trascinato con sé, al largo.

Ed è cominciato l’inferno.
 


E poi, ho incontrato te.
 
*
 
Mio padre è una persona buona. A una prima occhiata può far paura, ma io non ci ho mai fatto caso. Insomma, è mio padre. E’ quello che mi ha insegnato ad andare in bicicletta, rimettendomi in piedi ogni volta che cadevo. E’ quello che mi comprava le cose più stravaganti che esistessero, perché ero io a chiederglielo, ma era sempre attento a non viziarmi. E’ quello che mi ha tenuto per mano quando.. beh, quando mamma non poteva più farlo.

Voglio molto bene, a mio padre. Ed è stato l’atto più stupido che abbia mai commesso, il tenergli nascosto che.. che ero gay, ecco. Perché era scontato che lui lo sapesse già. Insomma, è mio padre.

Non sono un genitore, quindi neanche se mi impegnassi con tutte le forze potrei anche solo lontanamente immaginare cosa significhi essere in tutto e per tutto legati alla persona che hai educato e cresciuto. Non dico ‘dato la vita’ perché so che non è quello che rende un padre o una madre genitori.

Ma sono un figlio, e sono consapevole in ogni minuto della mia esistenza del viscerale amore che nutro per lui. E penso sia qualcosa forte tanto quanto il legame che unisce me a lui. Non so se mi sono spiegato.

Vederlo con quegli occhi, pieni di dolore, mi ha devastato. Perché mi farei insultare in silenzio dieci, cento volte, se questo significasse vederlo sereno. E mi ucciderebbe se gli dicessi una cosa del genere – probabilmente, se avessi un figlio la penserei anch'io così – perché, immagino, non puoi sentirti a posto con la coscienza se tuo figlio viene umiliato e tu non puoi fare nulla per impedirlo perché, semplicemente, non lo sapevi.

E, per quanto ne sia felice, per quanto mi faccia sentire protetto vederlo combattere per me, se che questa non sarà né la prima né l’ultima cosa che gli nasconderò. Forse un giorno troverò il modo di farmi perdonare, per queste bugie.

Ma lui è il mio tutto, e dovranno uccidermi prima che io permetta a quel dolore di abitare di nuovo i suoi occhi.

 

E poi, ho incontrato te.
 
*
 
Quando sei speciale, devi fare i conti con il fatto che, molto probabilmente, nei momenti più bui, potrai contare solo su te stesso.

Questa è una cosa che mi ripeto spesso. E’ come un mantra, quando sono da solo, a letto, e fatico a prendere sonno, perché quando mi sveglierò inizierà un'altra giornata di.. quello.

A volte lo ripeto talmente tante volte che le parole perdono di significato. Ma non permetto alla parte razionale della mia mente di registrare questa consapevolezza, perché, se lo facessi, non avrei la forza di aprire gli occhi ogni fottuta mattina.

Ma io lo sono. Speciale, intendo. Ed è quello che amo di più, di me.

Il punto è questo. Come mi vesto, come mi muovo, come parlo e come mi atteggio: non è qualcosa di studiato. Non mi comporto da omosessuale perché ci tengo a scatenarmi appresso l’ira e l’ironia becera di quei bigotti maledetti.

Non lo faccio perché voglio dimostrare qualche stupida superiorità, né per lanciare nessun tipo di sfida a nessuno.

Io. Sono. Così.
E’ come vivo. E’ come ragiono. E’ come respiro.

Perché devo vergognarmi di questo. Perché devo scusarmi, per questo.

Perché devo sopportare che il mio quasi fratello mi chiami.. in quel modo? Io so che lui è una persona buona, lo so. Ma perché esiste questa cattiveria, questo pregiudizio gratuito nelle persone?

E soprattutto, perché nessuno sembra capirlo?
Sono così stanco.


 
E poi, ho incontrato te.
 
*
 
Mamma profuma di rose.

Non perché usi  qualche tipo di prodotto. Lei profuma e basta, come un giardino in primavera.

Secondo me è per quello che papà si è innamorato di lei. Forse mi innamorerei anche io di una donna che profuma di rose. Sarebbe difficile, ma per una come lei forse farei un’eccezione.

Mamma ha gli occhi blu come il mare, come i miei, ma i miei sono un po’ più chiari. Un po’ più sbiaditi, dico io, perché per accendere quel blu dovrei essere buono come lei, unico come lei e amare qualcuno tanto quanto lei ama me e papà.

Mamma ha un tocco delicato, come se la sua pelle fosse fatta di seta, e quando mi accarezza i capelli è come se camminassi su un prato di petali, a piedi nudi. Ha una risata squillante ma gentile, non stridula, e strizza gli occhi quando lo fa, come davanti a una luce forte. Infatti, lei dice che quando ridi è come se esplodesse una stella di felicità, davanti a te, quindi è naturale chiudere un po’ gli occhi, quel tanto che basta, perché ci tieni a voler vedere il mondo attraverso quel velo di gioia, anche se finisce presto.

Mamma per me non è mai un profumava o un aveva. Perché lei continua a vivere nei miei occhi un po’ sbiaditi, che continuano a cercarla finché non la trovo, nei miei ricordi e nel mio cuore.

Ho una rosa, nella mia stanza, fatta con stoffa blu e azzurra, perché quando penso a lei mi viene sempre in mente il mare che si congiunge con il cielo. Papà non sa che la bacio ogni mattina prima di andare a scuola e ogni sera prima di addormentarmi. Non sa che la stringo un po’ più forte, quando l’inferno là fuori è un po’ troppo scuro e non riesco a scorgere neanche uno sprazzo di blu o non riesco a vedere nessuna stella che esplode.

Papà non lo sa, perché voglio che mantenga quel sorriso che ha ritrovato, un po’ malinconico ma sereno.

Carole è una donna eccezionale, ed è perfetta per lui.

Ma neanche a lei mostrerò mai la mia rosa. Mamma aspetta di essere tenuta in mano da chi saprà rendere i miei occhi blu come i suoi.


 
E poi, ho incontrato te.
 
*
 
Il bip bip dei macchinari è snervante. Vorrei mettere la musica a palla ventiquattro ore al giorno, in quella stanza, ma capisco che non è possibile.

E’ come un grande scherzo del destino, questa situazione. Ho riflettuto, ho urlato, ho chiesto spiegazioni a un Dio in cui non credo, perché ho bisogno di un po’ di cruda razionalità, in questo casino.

Forse c’è una strana forza nell’universo, che spinge il male a restare attaccato alla vita di chi già ne ha passate tante. Forse perché è convinta che i loro cuori siano più forti, e non si spezzerebbero, anche dopo l’ennesimo colpo.

Notizia dell’ultima ora: è un’enorme balla.

Chi ha sofferto tanto nella vita non chiede altro che di essere lasciato in pace. Uno crede di meritarselo, no? Un po’ a te un po’ a me, e visto che io ci ho rimesso già qualcosa di grosso, perché diavolo non vai a rovinare un po’ qualcun altro?

E’ un discorso egoista, ma non me ne importa niente.

Ho già ricevuto la mia dose vitalizia di sofferenza. Mia madre mi hanno tolto. Mia madre. E ora dovrei restare qui a guardare mentre mio padre potrebbe subire lo stesso trattamento? Non credo proprio.

E sono arrabbiato con il mondo, sono arrabbiato con lui che non si è preso cura di sé, e sono arrabbiato con me stesso perché le ultime cose che gli ho detto sono state da immaturi e da sciocchi, quando invece avrei dovuto dirgli che gli volevo bene finché non mi si fosse seccata la lingua.

E la cosa peggiore, in tutto questo, è studiare la sua espressione pacifica, illuminata dalla luce al neon della stanza d’ospedale. Come se, in un certo senso, stesse accettando il suo destino, e ne fosse pure contento.

Credo che voglia, da un lato, lasciarsi andare. Rivedere mamma. Ma non lo fa, perché questo significherebbe lasciare solo me, e quando ci sono io di mezzo, i suoi desideri non contano mai.

E continuo a vederlo lì disteso, con gli occhi chiusi e quell’espressione tra il pacifico e il serio, che mi fa capire che è ancora qui, che sta ancora lottando. E io non ci riesco a sentirmi in colpa. Sono fiero di lui.

Gli stringo la mano e basta, come facciamo da una vita intera.

Finché sentirò le sue dita stringermi in risposta.

Perché succederà.

Scusa mamma, se ti faccio aspettare ancora un po’, prima di ridartelo.
Ma è l’unica cosa che mi è rimasta.



 
E poi, ho incontrato te.
 
*
 
Il Glee è come una famiglia per me. Persone insospettabili, che prima erano tra i miei principali aguzzini, ora siedono vicino a me e cantano vecchie e stupide canzoni, muovendosi in ridicole e stupide coreografie.

Ed è la cosa più bella del mondo.

Tuttavia, avverto ancora un po’ di freddezza nei miei confronti. Da parte dei ragazzi soprattutto. Mi hanno accettato, ma è come se non riuscissero a capirmi fino in fondo.

D’altra parte, neanche io riesco a capire bene loro. Sono un po’ l’ultima ruota del carro, e questo compito che Shue ci ha assegnato è la prova.
Spiare gli avversari. Grazie per la considerazione, eh.

Ieri è stata una giornata snervante. Me la sono presa un po’ con tutti, per ultimo papà. E’ stupido da parte mia, non devo stressarlo, si sta riprendendo dall’infarto e ha bisogno di riposo. Ma avevo bisogno di sfogarmi, e lui è il parafulmine migliore del mondo, durante i miei momenti di tempesta.

Il fatto è che sono stanco. Ho diciassette anni, non ho mai ricevuto un bacio, non ho mai avuto un amore. Certo, se eliminiamo le imbarazzantissime cotte per tipi che gridano ‘etero’ a ogni passo.

Sono stanco. Voglio qualcuno che mi mandi il messaggio della buonanotte e del buongiorno. Che mi guardi con degli occhi creati apposta per me, e per nessun altro. Che mi abbracci senza dire nulla senza che io gli dica nulla. Voglio un sorriso in cui perdermi e in cui rifugiarmi quando sento di essere arrivato al limite. Qualcuno contro cui gridare, qualcuno da insultare senza motivo e che poi mi stringa mentre piango. Un parafulmine, insomma, che non sia legato a me dal sangue, ma dall’anima.

Qualcuno a cui, per una volta almeno, non dovrò mai dire addio.

Papà mi ha ascoltato e ha detto una cosa che mi ha fatto pensare.

“Finché non troverai qualcuno aperto e coraggioso come te, dovrai cavartela da solo.”


Aperto. Coraggioso. Come me.

In fondo è vero. Dopo quello che ho passato, so che non potrei accontentarmi di una persona qualunque. Anzi, detta così sembra un capriccio. Non potrei innamorarmi  di una persona qualunque. Perché ho bisogno di qualcuno che non dica ‘posso capire come ti senti” ma “so come ti senti”. Qualcuno con il cuore talmente martoriato di ferite da non spaventarsi delle cicatrici che scavano il mio. Qualcuno che ha lottato e sappia cosa vuol dire, perché dovrà condividere le mie, di battaglie. Perché le nostre battaglie, quelle della gente come me, in questo mondo non so se finiranno mai. Qualcuno che sarà orgoglioso di prendermi per mano e che sia capace  con una sola parola di uccidermi e di salvarmi. Qualcuno che io potrò uccidere e salvare.

Non so quando. Non so dove. Non so come. Ma il mio coraggio è la fuori, da qualche parte. E magari in questo momento sta cercando un motivo per non arrendersi. Sta cercando me, sa che ci sono anche se non ci siamo mai visti.

E allora voglio continuare ad avere fiducia, nel mondo. Voglio avere fiducia che, non importa quanto soffri, arriverà il momento in cui sarai ricompensato. Non ho fede in un Dio, ma avrò fede nell’amore che mi attende. E non vedo l’ora di incontrarlo.

Certo, il mio coraggio mi scuserà, ma ho un compito da assolvere. Gli altri si fidano di me, e non devo deluderli. Andrò da questi – come si chiamano – Usignoli e farò il mio bravo dovere da spia.


Coraggio.


Aspettami.



 
****
 

Quindici minuti. Quindi minuti da che ha messo piede in quella scuola e nessuno lo ha insultato, deriso o spintonato. File di ragazzi che camminano, parlano e ridono tra loro, senza prestargli attenzione, come se fosse la cosa più normale di tutte vedere un altro essere umano  in quei corridoi lì con loro e non ritenere necessario trattarlo male. E, a pensarci bene, lo è.

Le uniche occhiate che riceve – un misto tra il curioso e il divertito – hanno una semplice spiegazione: è impossibile non balzare all’occhio quando sei circondato da persone in divisa e tu indossi un semplice completo nero, roba di tutti i giorni. Kurt guarda quei blazer blu e rossi con rispetto, quasi con aspettativa. Sembra una corazza, quella divisa. Una protezione dallo schifo di mondo che ha fino a quel momento conosciuto.

Sarebbe bello restare lì a osservare la serenità che irradia quel luogo. Ma ha una “missione” da compiere.

Prosegue lungo il corridoio, un vociare insistito lo accompagna. Gli studenti sembrano tutti stranamente euforici, come se stesse per succedere qualcosa di epico. Gli piacerebbe sapere cosa ma, ancora, si rende conto di essere lì non per suo piacere personale. Di nuovo sospira e tira avanti, attento a non farsi travolgere da quel fiume di gente, che sembra dirigersi tutto verso un’unica direzione.

Dato che non ha idea su dove si trovi quello che sta cercando, si affida all’istinto e si accoda a un gruppetto di ragazzi che chiacchierano – non riesce a capire di cosa – cercando di mantenere un’aria il più indifferente possibile.

Il corridoio finisce, e davanti a lui si presenta una lunga scalinata, che si dipana a chiocciola fino al piano di sotto. Sopra la sua testa, una grande vetrata rotonda butta luce ovunque. Scende le scale sfiorando il corrimano di ferro battuto mentre si guarda intorno. Degli specchi sulle pareti riflettono il soffitto creando un meraviglioso gioco di alternanze. E’ un posto di un’eleganza e di un buon gusto che inizia a sopraffarlo.

L’entusiasmo degli studenti, intanto, come se fosse possibile, è persino aumentato. Kurt si spalma quasi sul corrimano per non essere di intralcio e vede altri ragazzi arrivare da altri corridoi, sempre più scalpitanti.

Kurt prende il coraggio a quattro mani, capendo che non può muoversi da solo in un posto tanto grande. Chiederà informazioni alla prima persona che si gira, sperando di aver fortuna.

Un paio di ragazzi lo hanno appena superato. Si toglie gli occhiali da sole, per educazione, e incrocia le dita.

“Scusami.”

E qualcuno, tra i tanti, si volta.




C’è un ragazzo davanti a lui. Ha i capelli neri, presumibilmente ricci, tenuti a bada da un’ illegale quantità di gel. Sta tenendo qualcosa in mano – sembra un orologio da taschino, esistono ancora ragazzi che usano gli orologi da taschino? – quando si sente chiamare e si gira, la bocca leggermente aperta, puntando su Kurt due occhi che sembrano pozze di oro e miele liquidi.

Non che abbia chissà quanti termini di paragone, ma Kurt è abbastanza sicuro che quello sia il ragazzo più bello che abbia mai visto in tutta la sua vita.

“Umh, ciao”, boccheggia, cercando di non sembrare irrimediabilmente imbambolato, “posso farti una domanda? Sono nuovo qui.”

Il ragazzo gli rivolge un sorriso cordiale e Kurt è abbastanza sicuro di aver perso qualche battito.

Gli porge la mano, senza alcun imbarazzo, i suoi occhi gentili sempre fissi su di lui.


“Mi chiamo Blaine.”

Si chiama Blaine. E nell’udire la sua voce, Kurt sente smuoversi qualcosa, dentro di lui. Un’eco sorda, nel più profondo della sua anima. Un pezzo del suo cuore si stacca e si dissolve. Non capisce. Non ancora.

“Kurt”. E gli stringe la mano. Il palmo di Blaine è caldo contro la sua pelle, sempre stranamente fredda.

Kurt registra a malapena il resto della conversazione. Gli Usignoli che improvvisano le esibizioni in aula magna, il Glee club popolare come le rockstar.

Ad un tratto, però,  gli occhi di Blaine si illuminano di entusiasmo.

“Vieni, conosco una scorciatoia”.

E lo prende per mano.

E’ come una doccia fredda. Lui, che quasi non conosce altro contatto umano se non le mani che lo sbattono contro gli armadietti, sta correndo mano nella mano con un ragazzo tanto bello quanto irreale. Come se fosse la cosa più normale del mondo, come se quelle mani non avessero aspettato altro che congiungersi, dopo una vita a cercarsi.

E non importa se Blaine è uno sconosciuto di cui conosce solo il nome e il colore degli occhi. Dopo un’esistenza intera passata a diffidare del prossimo, Kurt Hummel ha deciso di fidarsi.

Kurt Hummel si fida.

E un ultimo pensiero gli balena in mente, mentre continua a correre. Come un fulmine.
 

 

“Credo di averti appena incontrato.”






Parte seconda:              Blaine


 
Innamorarmi di Kurt è stato semplice, quasi istintivo. Innamorarsi di Kurt vuol dire innamorarsi di lui, nella sua piena essenza. E’ amare il suo respiro, lento e cadenzato come una preghiera. E’ amare il suo passo svelto, la sua fronte corrucciata, i suoi polsi sottili, il suono del suo sangue che scorre nelle vene.
Amare tutto, tutto. E sapere che la tua vita non sarà mai più come prima.
 
Prima di quella mattina ero solo un ragazzo come tanti, e vivevo una vita né bella né brutta. Avevo tutto ciò che potevo desiderare – ma non avevo ciò di cui avevo bisogno davvero. E’ strano come, a volte, ti rendi conto che quello che hai altro non è che il frutto di migliaia di coincidenze. Potevo non essere io la persona tra le tante a cui Kurt avrebbe chiesto di indicargli la strada. E’ stato un caso che fossi in ritardo, quel giorno. Avrei potuto essere malato, o assente. Poteva non essere lui, quello mandato – maldestramente – a spiarci. O magari avrebbe raggiunto lo stesso il salone e mi avrebbe sentito cantare, ma forse sarebbe rimasto in disparte, cercando di non farsi notare, e sarebbe scappato via subito dopo, senza uno sguardo  o una parola. Come se non fosse esistito.

Poi però mi fermo a pensare che no, non sarebbe stato possibile. Anche se quel giorno, malauguratamente, non ci fossimo incrociati su quelle scale, l’avrei sicuramente incontrato altrove, da qualche parte, e sarebbe ugualmente entrato nella mia vita. In un bar, in fila al supermercato, durante una passeggiata al parco. Lui mi avrebbe guardato e sorriso e io l’avrei guardato e sorriso e sarebbe stata da capo la nostra storia.
 


Ricordo ancora la mattina del giorno in cui ho incontrato Kurt. Okay, sembra ruffiano dirlo, e poco credibile, ma avete presente quei giorni in cui vi svegliate ed è come se.. sentiste che sta per accadervi qualcosa di grosso? Non è come un presentimento no,è più un.. flusso di energia. Qualcosa che vi fa sentire stranamente inquieti, o su di giri. E non riuscite a stare fermi, volete muovervi, saltare, urlare.

Perché è così che è andata. Sono uscito di casa quel giorno, senza sapere che la mia vita sarebbe cambiata. Per sempre. Potevo solo intuirlo, ma era qualcosa di talmente grande, di talmente estraneo alla mia comprensione, che non pensavo potesse esistere, in un mondo come il nostro. E ci ho messo un bel po’ per capirlo. Capirlo sul serio.

Kurt diceva sempre che per lui era stato un colpo di fulmine, bello e buono. Gli piaceva prendermi in giro, sul fatto che fossi stato talmente ingenuo e sbadato da non rendermi conto subito di quello che sentivo. La fa facile lui, eppure, ancora dopo tanto tempo, mi accorgevo di quanto la mia cecità l’avesse fatto soffrire. Sono sempre stato bravo a far soffrire Kurt, in un modo o nell’altro, almeno quanto lui è sempre stato bravo a far soffrire me. Uno strano talento, il nostro, di cui forse avremmo fatto volentieri a meno ma che, certo, avrebbe paradossalmente tolto tanto valore alle cose belle che la nostra storia ci ha dato, e ci darà in futuro.

Perché due cose sono certe: che resteremo sempre l’unica persona in grado di far del male all’altro – ma male sul serio – e che ci sarà un NOI, in futuro.
Come lo so? E’ molto semplice.
 

Kurt mi ha donato il suo cuore, spontaneamente e senza riserve. E questa non è una cosa che può essere restituita al mittente  a nostro piacimento, anche quando sembra che una storia sia finita. Francamente, non credo di essere fisicamente capace di ridarglielo, così come Kurt non può ridarmi il mio. Io ho sentito fluire il suo cuore dentro di me, quel primo giorno sulle scale, quando gli ho afferrato la mano e  l’ho portato via con me. E ho regalato a Kurt il mio, nell’esatto istante in cui le nostre labbra si sono incontrate nel nostro primo, magnifico, tenero e imbarazzato bacio.

Sono convinto che Kurt lo sappia. Che lo abbia sempre saputo. Per questo sorrido e scuoto la testa ogni volta che ripesca la storia del ‘solo amici’. E’ una cosa che fa ridere anche lui, lo so, ma il suo meraviglioso e onnipresente orgoglio gli impedisce di agire diversamente. Forse è per questo che non si decide a prendere la risoluzione per dirmi addio, una volta per sempre. Non sta solo rispettando la sua promessa.  Non può dirmi addio, semplicemente. E’ il nostro miracolo, o, se preferite, la nostra condanna. Credo che Kurt l’abbia vista in questo modo, all’inizio. E non lo biasimo. Non potrei mai. Ma so anche che non possiamo avanzare pretese su qualcosa che non ci appartiene più. E lui, come mi aspettavo, l’ha capito.

E’ questo il motivo per cui ho comprato quel benedetto anello. E’ questo il motivo che per cui lo rivoglio, ora e subito, e questa volta per sempre. E’ vero, forse può sembrare il solito cliché del primo amore del liceo, che si crede sia eterno. Ma io vorrei che il resto del mondo potesse entrare per un attimo nella mia mente e vedere tutto in modo chiaro, così come lo vedo io. Così come vedo lui. E se riuscissero a rendersi conto di questo, capirebbero che non ha senso per noi aspettare cinque, dieci o vent’anni. Perché tra cinque, dieci o vent’anni saremo sempre noi, forse con più ferite addosso, ma sempre con lo stesso diritto, naturale e insindacabile, di appartenerci. Io, almeno, la penso così. Se c’è una cosa di cui ho la completa certezza è che siamo stati creati per esistere assieme. Sento questa consapevolezza forte, come se mi scorresse nel sangue. Forse non a tutti è concesso vivere un ruolo del genere, nella propria vita in quest’universo. Ma a noi è toccato. E questa è un’altra cosa da cui né io né lui possiamo scappare.

Kurt ha salvato la mia vita, così come io ho salvato la sua. Ci siamo presi per mano senza chiederci il permesso e siamo entrati nella vita dell’altro che se fosse la nostra. Abbiamo conosciuto i nostri segreti, le nostre incertezze, le nostre paure. La paura di dover esistere in un mondo che forse non è ancora pronto per noi.

Ma noi siamo pronti per il mondo. Siamo pronti per la felicità, per l’amore, per la bellezza. Siamo pronti per vivere ogni cosa e sbagliare ogni cosa e sorridere per ogni cosa. Dopo la vita che abbiamo avuto, lo meritiamo.

Fiducia. Speranza. Cose talmente belle per sé stesse che diventano essenziali, quando le si divide con qualcun altro.


Ho affrontato la paura. Ho affrontato il dolore. Ho affrontato la cosa che più mi spaventava in assoluto: una vita senza di lui. L’ho affrontata e superata e affrontandola e superandola ho capito che era ciò che mai avrei permesso mi accadesse, ancora. Ho passato talmente tanto tempo odiando me stesso che avevo dimenticato quanto è impossibile poter amare qualcun altro, se prima non si è in grado di amare sé stessi. Ho imparato a perdonarmi, ho imparato a rendermi conto che sono un ragazzo, che sono umano, che faccio errori, che farò sempre errori. Ma che non farò più un errore del genere. Mai più.

Sono caduto, mi sono rialzato, ho combattuto contro la parte oscura di me, vincendola e accettandola, perché, è chiaro, nessuno è per intero luce, come nessuno è per intero ombra. Siamo un’equa distribuzione di entrambe, e tutto sta nel mantenersi in equilibrio. Imparare a conoscere chi siamo, e nello stesso tempo sperare che nella nostra vita arrivi quel qualcuno in grado di vederla, quella luce. E di alimentarla ogni giorno, per renderci le persone migliori che possiamo essere.

La mia luce è lui. Ha grandi occhi azzurri, la pelle color della luna e un perfetto naso all’insù. E la sento ancora viva, dentro di me. Non si è spenta. Non lo fa mai.

Per questo, io aspetto. Aspetto il giorno in cui tutto ricomincerà, un’altra volta. Aspetto di sentirmi chiamare, di voltarmi e di ritrovare lui che mi sorride, una, dieci, mille volte. Aspetto di riprenderlo per mano e riportarlo via con me, questa volta senza lasciarlo andare, mai più. Di riscoprirlo e riscoprirci e amarlo e amarci finché ci regge il cuore.

Come quella mattina, uguale e diversa dalle altre, quella mattina in cui due vite sono cambiate e rinate, in modo irreversibile. Quella mattina che ricordavamo sempre, ogni volta che Kurt mi raccontava la sua vita senza di me. Storie di dolore, di paura ma soprattutto di coraggio. Storie di chi ha lottato e perso e vinto e alla fine ha trovato la sua ricompensa. Storie di rabbia, storie di indecisioni e di riscatti. Storie diverse, ma intrecciate in un unico, identico finale.

E’ sempre stata la mia parte preferita, quella. Era l’arrivo della luce dopo il percorso in una sofferenza che penso di non aver mai capito fino in fondo. Ma forse non era necessario capire, forse Kurt non desiderava che lo capissi davvero. Perché, quello che dovevo capire, era solo la fine. Quella fine. Quel ‘e poi..’ che concludeva tutti i suoi racconti.



‘e poi?’ ripeto io, sorridendo, come se non conoscessi già la risposta. Ma sentirla è sempre come la prima volta.

Lui sorride, in quel modo speciale riservato solo a me, e le sue braccia sono intorno al mio collo e le mie mani sulla sua schiena e il suo volto a un centimetro dal mio.
 


 
Io aspetto.




 
“E poi, ho incontrato te.”



 
   
 
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