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Autore: Hatred    26/09/2013    2 recensioni
Le chiavi erano lì.
Pendeva, sbilenco, il portachiavi a forma di bottiglia di vodka che lui stesso aveva regalato a Ivan. Erano le sue chiavi.
Non si sentì triste.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Russia/Ivan Braginski
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Note: One shot. AU. Consigliata la lettura ad alta voce, con impostazione gaberiana.

 

Odore di fumo



Ancora i litigi, le urla, oggetti che volano per la stanza, insieme alle colpe, agli sbagli, continuamente rinfacciati e sempre quelli, sempre gli stessi, incorreggibili.
Di solito finivano con Alfred in una stanza e Ivan in un’altra.
Di solito il primo si accovacciava a braccia conserte sul divano a guardare la tv senza nemmeno vederla, mentre Ivan si chiudeva in camera a leggere.
A volte Ivan usciva, dicendo di andare a comprare le sigarette. Accadeva dopo i litigi più pesanti, in cui anche solo la consapevolezza della vicinanza bruciava. Erano le volte in cui Alfred si sentiva strano, arrabbiato, ma allo stesso tempo rassicurato nel vederlo prendere con sé le chiavi del loro appartamento.
C’era sempre la possibilità che potesse non tornare e ad Alfred, nei momenti di rabbia, questa possibilità dava fastidio, un tormento insopportabile e odioso, mentre nei momenti di quiete, quando ripensava ai fatti accaduti, dava angoscia. A volte –anche se non l’avrebbe mai ammesso- faceva proprio paura.
Eppure non si sentì triste quando accadde sul serio.
Ivan era uscito dalla stanza da letto, aveva attraversato il salotto dove Alfred si era appostato per fissare la tv e aveva detto con la sua solita voce atona da post-litigio: “Vado a prendere le sigarette”. Era seguito un tonfo metallico provenire dalla sua direzione, rumori di pesanti falcate, poi la porta d’ingresso si aprì e si richiuse. Sentì i passi ovattati dai muri svanire poco a poco con la lontananza, finché non rimasero solo i suoni della televisione in cui donne sorridenti pubblicizzavano un dentifricio.
Continuò a fissare lo schermo per quelli che potevano benissimo essere cinque minuti o due ore prima di alzarsi piano e girare le spalle verso il tavolino, nella direzione del suono metallico sentito prima.
Le chiavi erano lì.
Pendeva, sbilenco, il portachiavi a forma di bottiglia di vodka che lui stesso aveva regalato a Ivan. Erano le sue chiavi.
Non si sentì triste.
Non sentì nessuna emozione in particolare, forse solo uno strano retrogusto di preveggenza. Si aspettava che sarebbe successo prima o poi. Non seppe nemmeno se definirla una vera e propria emozione.
Non sentiva proprio niente.
Spense la tv e mai ci fu tanto silenzio in quella casa così come nel suo cuore.

-

Si girò nel letto, volgendo il viso dalla parte di materasso dove dormiva lui e subito un debole ma chiaro odore di tabacco gli sfiorò le narici.
Non era tornato per cena.
Poco male, nemmeno aveva cenato. Ma perché non era tornato? Era convinto che l’avrebbe fatto, perché era sicuro che senza di lui non sarebbe durato nemmeno tre ore, e invece non era successo.
Il pensiero gli diede rabbia e si voltò di nuovo, con il viso rivolto al soffitto, per non sentire quell’odore di fumo che aveva sempre odiato e che ormai impregnava le lenzuola ed anche molti dei suoi vestiti, se non tutti, irrimediabilmente.
Non riusciva a prendere sonno e anche questo lo innervosiva. Odiava il non riuscire a realizzare le sue aspettative e odiava il fatto che anche gli altri non le rispettassero e non le facessero avvenire.
Odiava il non riuscire a prendere sonno. In quel tempo passato ad aspettare di spegnere parzialmente le attività cerebrali, non si poteva far altro che pensare. Certo, si poteva anche giocare alla play station, ma l’aveva già fatto per tutta la serata, fino a togliersene la voglia.
Non ricordava nemmeno più bene per che cosa avevano litigato, quel pomeriggio.
Erano in grado di litigare su tutto, a partire dalla politica fino ad arrivare al gusto del gelato.
“Alfred stai uscendo adesso? La mostra apre tra un’ora.” Gli aveva detto una domenica, come se non avesse nemmeno ascoltato ciò che ormai gli aveva ripetuto una ventina di volte.
“Vado a confessarmi poi torno Ivan, quante volte te lo devo ancora dire?”
Il fatto è che lui non stava mai zitto.
“Ed io quante volte ti devo ripetere che i biglietti per questa mostra li ho comprati tre mesi fa e con il tuo consenso?”
“Ivan, sai che se non vado in chiesa per troppo tempo mi sento in colpa, non sono un gran praticante, ma se non ci vado mai è come se non rispettassi i miei doveri di cittadino. Vuoi che manchi all’appuntamento con nostro Signore per una mostra fotografica? Possiamo anche andarci più tardi.”
Mai, mai, mai.
“Se ci andiamo più tardi rischiamo che chiuda senza avere fatto in tempo a finirla di vedere, e se tu invece di inginocchiarti a pregare ti alzassi in piedi ogni tanto e ti dedicassi davvero a qualche esercizio civico, al posto di chiedere aiuto o perdono ad un’entità che chissà se c’è e chissà dove si trova, forse saresti un cittadino migliore.”
“Punto primo: sono io l’unico in questa casa che paga le tasse e appunto perché devo provvedere ai soldi per pagarle non ho tempo da perdere con tutte le tue pratiche rivoluzionarie. E chissà che rivoluzione poi! Punto secondo: non sarà certo una mostra fotografica che mi renderà un cittadino migliore e, come ti ho già detto, ci possiamo andare più tardi e se non la vediamo tutta tranquillo che non muore nessuno. Punto terzo: se tu invece che ammuffire sui tuoi libri pieni di fantasie andassi a pregare e ad accendere un cero forse la troveresti un’occupazione, visto che con le tue forze non ci riesci e nessun filosofo tedesco ti ha ancora dato una mano.”
Era irritante. E non voleva mai ammettere di avere torto.
“Parli di fantasie tu che ti bevi quelle storielle da chierichetto! E poi non dovresti parlarmi in quel modo, perché sai benissimo quanto io mi stia sforzando per riuscire a darti una mano nonostante le mie difficoltà. Evidentemente tu impieghi tutte le tue energie per pregare e per portare rispetto a Dio, perché per le altre persone non ne hai affatto!”
E riusciva sempre a rigirare la frittata come voleva lui.
“La buttiamo sul rispetto adesso! Proprio tu, che non rispetti nemmeno la mia decisione di fare un salto in chiesa, in quanto credente! Io dico che se il mondo va a rotoli è per colpa di voi atei che non volete far altro che scardinare le poche certezze e rettitudini che abbiamo!”
Sempre, sempre, sempre.
“Sono secoli che il mondo è guidato da religiosi di ogni sorta, e si è visto come siamo messi. Forse è ora che si lasci un po’ più di spazio ad una prospettiva totalmente atea de-“
“Sì, come nella grande Unione Sovietica? Haha! Con gli scagnozzi del partito che ti spiano in casa, complimenti, è questo il mondo che vorresti?”
Ed era sempre così disfattista.
“Credevo che ne avessimo già parlato. Mi sono già espresso con te al riguardo, il tuo commento completamente fuori luogo evidenzia che di quello che dico non ti importa nulla. E siccome non ho intenzione di annoiarti con cose che tu non ascolti o che rimuovi dalla tua testa dopo cinque minuti, ti lascio all’appuntamento con il tuo Signore. Salutamelo.”
Si chiuse di nuovo in camera, come un bambino. Andò anche alla mostra da solo. Lui, in tutta risposta, non gli dedicò alcuna preghiera. L'unica cosa che per miracolo si risparmiarono, furono le botte.
Sbuffò sonoramente al ricordo. Quanto lo faceva arrabbiare quel miscredente…
Forse quel giorno il litigio era dovuto all’acquisto di un animale domestico. Ivan voleva un gatto, mentre lui sosteneva il desiderio di volere un cane. “Il cane è un animale socievole e non egoista, credevo che fosse in linea con i tuoi principi.” “Il gatto è libero e indipendente, anch’io pensavo che questi principi fossero i tuoi.”
“Ma lo vedi quanto sei incoerente?” “Incoerente io? Non mi basterebbe un’intera giornata per elencare tutte le cose che rendono incoerente te!”
No, forse questo era il litigio di due giorni prima. Ma aveva importanza ormai?
Sì che ne aveva. Magari non era importante ricordarsi di preciso perché avevano litigato quel giorno, ma l’avere ben presente quanto Ivan fosse insopportabile lo aiutava a compiacersi di essere nel letto da solo.
Solo. Ah, finalmente. Niente più litigi, niente più lacrime, niente più lividi, niente più parole a vanvera, niente più deliranti ateismi, niente più scoccianti sproloqui su qualsiasi stronzata, niente più discussioni su qualsiasi divergenza di gusti personali –che divergevano su ogni cosa-, niente più rotture di scatole in altre parole, per non usare termini più volgari.
Ripensò di nuovo alle sue chiavi sul tavolo e al vuoto che aveva provato nel vederle.
Quant’era soddisfacente riempire il vuoto con la compiacenza.
Ripensò al portachiavi a forma di bottiglia di vodka. Era stato un suo regalo, il primo che gli avesse mai fatto. Erano le prime volte che uscivano insieme. I bei tempi in cui ancora non litigavano: non si può litigare fin da subito, si va veramente poco lontano. Non gliel’aveva comprato per un motivo preciso: gli era capitato di andare in tabaccheria a comprare i chewingum, aveva visto il portachiavi, aveva pensato a lui e l’aveva preso. Prima di consegnarglielo aveva avuto qualche titubanza. Temeva di fare una cattiva impressione. Ok che era russo e si sa che ai russi la vodka non dispiace affatto, ma non voleva che Ivan pensasse che lui lo considerasse un ubriacone. E invece, lo vide aprire lentamente il sacchettino bianco e, con la felicità dipinta in viso, estrarne il portachiavi. Aveva gli occhi quasi lucidi. “Grazie” disse con una voce non più sottile, ma più calda di quella che aveva di solito “non ricordo nemmeno più quand’è stata l’ultima volta che qualcuno mi ha fatto un regalo!”
Ma perché ripensava a queste cose?
Si stropicciò il viso con una mano. Doveva essere proprio arrabbiato. Aveva lasciato sul tavolo le chiavi con il suo regalo ancora attaccato.
Forse non gliene importava poi così tanto.
D’altronde sarebbe stato normale, era un pessimo bugiardo, ma mentiva spesso e Alfred non sapeva se fosse più irritante il fatto che gli fosse negata la verità o che Ivan perseverasse cocciuto in qualcosa che non gli riusciva per niente. Già gli mentiva, poi con così poco stile!
Il mentire è un’arte: bisogna stare attenti alle espressioni, alle posture, al non tradirsi. Ci serve recitazione, ci serve tecnica!
Ivan era invece come qualcuno che s’inventa di essere un Picasso quando non sa disegnare altro che omini stecchini.
“La verità è così deplorevole e deprimente Alfred, che non c’è bisogno che io ti rattristi raccontandotela”
E così aveva cercato di nascondergli il fatto che aveva perso il lavoro e che i suoi tentativi di cercarne un altro stavano facendo acqua da tutte le parti. Forse gli mentiva per orgoglio: Alfred lavorava, e guadagnava pure bene, ma Ivan non si era mai sentito meno abile rispetto a lui e probabilmente i suoi fallimenti bruciavano ancora di più se fatti presenti al suo fidanzato.
Il suo fidanzato.
Per colpa di un possessivo una volta stava per saltare un’intera nottata di sesso.
“Tu sei mio.” Gli aveva detto salendo a gattoni sul letto, mezzo nudo, ancheggiando verso di lui.
Ivan l’aveva squadrato alzando le sopracciglia. Alfred pensava fosse per via dell’eccitazione e della bella visione che con il suo corpo gli stava offrendo… Risposta errata. Era cinismo.
Subito dopo infatti, il russo spostò lo sguardo da un’altra parte e deviò il colpo:
No.”
“Come scusa?”
“Io non sono tuo.”
“No Ivan, dai. Non ricomincerai di nuovo con tutta quella roba della proprietà privata eccetera, eccetera, non puoi parlare di questo anche a letto: almeno quand’ho le mutande calate, risparmiami!”
Ivan aveva alzato gli occhi e chiuso una o due volte le palpebre, inspirando come per calmarsi.
“Non ha niente a che fare con ‘quella roba’, come la chiami tu. Penso solo che non sia totalmente corretto l’affermare il proprio possesso nei confronti di un’altra persona. Nessuno appartiene a nessuno, no?”
“Va beh, va beh.” Aveva detto abbandonandosi contro il cuscino con le braccia incrociate.
“A volte ci penso.” Aveva continuato Ivan “All’amore intendo. Non è questione di legami formali o possesso. Una persona non si può possedere come un oggetto, è un compagno.”
“Inizi ad usare termini che non mi piacciono.”
“No, ascoltami, per favore.” Si era messo a sedere, rivolgendo il viso verso di lui, ma tenendo gli occhi bassi, sulle lenzuola. “Da decenni sono nati pensieri che esprimono la difficoltà di comprendere l’essere umano, anche a partire dalla propria personalità, ne sono derivati perfino studi-“
“Devo prendere appunti, maestro?” Aveva interrotto sbuffando.
“E’ difficile conoscere noi stessi, nessuno ci riesce sul serio. Penso di provare per te quel sentimento strano, che nonostante gli alti e i bassi posso dire con tutta certezza che sia amore,” gli aveva sorriso, dolcemente “perché con te mi sento meno in alto mare. Sento di conoscermi meglio e di riuscire ad affrontare più cose. Non ho paura di guardarmi dentro, se ci sei tu, perché so che sei con me.”
“Mi sto un po’ perdendo.”
“Scusami, non è facile spiegarlo… Tu sei il compagno, la guida che mi accompagna prendendomi per mano attraverso la mia stessa anima. Così, anche tu apri la tua anima a me: non è che me la doni, rimane tua, ma mi lasci entrare, lasci che io ti accompagni ed imparo ad amarla. Io con te faccio lo stesso. E continuando ad aprirci l’uno all’altro e accompagnandoci, riusciamo a crescere, insieme. Con anima io ovviamente non intendo il significato confessionale del termine, ma chiamo anima quella parte di noi che non è corpo e che comprende la nostra personalità, i fasci di luce, i nostri lati bui, insomma, tutto ciò che noi siamo.”
Un sospiro.
“Sai, mi dà fastidio che si rivolgano a te come ‘il mio fidanzato’: tu sei Alfred, non una mia appendice.”
A quel punto Alfred aveva sbattuto le palpebre, guardandolo senza sapere cosa dire e Ivan si era avvicinato a lui per carezzargli una guancia.
“Io ti amo perché sei Alfred Jones. Non perché sei ‘il mio fidanzato’. Amo te perché sei te, non perché sei mio.”
Quelle parole, anche se un po’ confuse, lo avevano colpito. E non avevano affatto rovinato i suoi piani, anzi, dopo avevano scopato come coniglietti per quasi tutta la notte ed il sesso era stato fantastico.
Ma quel discorso gli aveva lasciato un segno.
Forse era solo un altro dei suoi grumi di menzogne. Forse, è stata l’unica volta in cui ha mentito bene. D’altro canto era bravo a parlare, a fatti quasi niente, ma con le parole…
Se così fosse però, se fossero state veramente delle bugie, si doveva sentire solo più compiaciuto: era da quando si era messo a letto che pensava a tutti i motivi più vari per definire Ivan come una presenza da non rimpiangere.
Allora… allora che cos’era quel… quel groppo?
Sì, gli si era formato un nodo, alla gola, proprio all’altezza del pomo d’Adamo, come se esso si fosse ingrossato e si fosse appesantito, ostruendogli la gola, impedendogli di respirare. Lo sentiva così pesante che pensava gli cadesse, anzi piombasse dall’altra parte del collo, inchiodandolo al cuscino.
Si girò di nuovo e, tra i respiri affannosi, di nuovo sentì l’odore di fumo, di nuovo vide il letto vuoto laddove fino alla notte prima, per tanti anni aveva dormito Ivan. Sentì gli occhi umidi.
No, non poteva piangere, non doveva piangere: con uno scatto si mise a pancia in giù, artigliò le lenzuola, morse la federa del cuscino e serrò gli occhi, prima che qualsiasi lacrima potesse bagnargli la pelle.
Si era sempre considerato un piccolo eroe, e gli eroi non piangono! Era lui la chiave di volta nella coppia, era lui che portava il pane a casa, era lui ilpater familias! Certo, almeno sette volte su dieci era Ivan a sistemarsi tra le sue gambe, ma era ovvio che fosse lui a tirare avanti la baracca!
Aprì gli occhi e fissò un punto indeterminato nel buio, ma le sue dita artigliarono con più foga le lenzuola.
Chiave di volta, pietra portante… che stupidaggini.
Non era mai esistita nessuna sottomissione tra di loro, così come nessun sentimento di vera superiorità. Forse era per questo che litigavano così spesso. Erano come la foto e il negativo di una stessa immagine: condividevano le stesse passioni, avevano gli stessi interessi, ma per ognuno di essi avevano opinioni opposte, spesso incompatibili. Forse, era per questo che era così facile aprirsi a vicenda l’anima e lasciarsi accompagnare.
Ivan aveva ragione.
Non è facile capirsi e stare bene con se stessi, Alfred nel profondo lo sapeva perfettamente, perché per tutta la vita aveva cercato di dimenticare l’ignoto e di nascondere le paure dietro uno strato di egocentrismo e sicurezza. Ivan prima di ogni altro, forse ancora prima della stessa consapevolezza di Alfred, lo aveva capito. Gli aveva aperto la strada, gli aveva insegnato a non nascondere nulla a se stesso, a non aver paura di porsi quelle domande fondamentali ma senza una risposta certa, gli aveva insegnato a non sentirsi stranito nel sostenere un’opinione differente da quella dei più. Grazie a Ivan aveva imparato a conoscersi, proprio perché le idee e il modo di essere del russo erano opposti ai suoi. E’ impossibile riuscire a definire qualcosa senza differenziarlo da ciò che gli si oppone, da ciò che è diverso. Così come non esiste mai un solo punto di vista, e confrontandosi, i due ragazzi riuscivano a definire la propria personale visione delle cose. Grazie all’anima di quello straniero Alfred aveva imparato ad amare se stesso ed il diverso.
Ma dopo?
L’ermeneutica si era trasformata in assoluto, il cammino attraverso le anime era diventata una caccia alle debolezze, un percorso da minare o proteggere, c’era stata una chiusura.
E’ lì che avevano sbagliato.
Erano diventati così sicuri di sé che non erano stati più disposti ad accettare correzioni o altre interpretazioni. Allora ogni occasione era diventata buona per cercare di affermarsi sull’altro, ogni frase veniva presa come un attacco personale ed erano litigi, urla, insulti.
Stupidi.
La presa sulle lenzuola divenne così forte da sentire le unghie pizzicargli la carne dei palmi.
Che cos’avevano perduto, per colpa dell’orgoglio?
Si sentì solo. Tristemente solo. Si sentì perso.
L’odore di fumo portava ai suoi polmoni il ricordo di lui e del suo vero odore. Poteva sentirlo al di là della fragranza acre delle sigarette: un profumo flebile, delicato, quasi dolce. Probabilmente il suo odore presto sarebbe svanito e sarebbe rimasto solo quello di fumo.
Cos’avrebbe fatto allora?
Forse avrebbe dovuto telefonargli, sarebbe dovuto uscire per andarlo a cercare, insomma, avrebbe dovuto fare qualcosa. Ma se lui non avesse risposto? E poi dove poteva essere? Oddio e se avesse preso un aereo e fosse tornato in Russia dalla sua famiglia? Avrebbe potuto prendere un aereo lui stesso e raggiungerlo. Sì, non ricordava minimamente dove abitasse prima di trasferirsi a casa sua, ma forse avrebbe potuto chiedere informazioni o qualcosa di simile… Un dubbio. Qualcosa dentro di lui, forse un fluido o una reazione elettro-chimica ritardataria, gli suggerì che probabilmente Mosca non era grande quanto un paesino dell’Arizona con quattro case e una mucca. Senza contare che a volte nemmeno riusciva a capire la lingua che si parla in Inghilterra, cosa poteva capirci di russo? Non sanno nemmeno scrivere i russi, fanno le R al contrario!
No, non poteva aver lasciato il paese, ma poteva essere ovunque. Forse, forse poteva aprire l’elenco telefonico e iniziare a telefonare ad ogni hotel della città per sapere se una camera fosse occupata da un certo Ivan Braginskij.
In realtà, avrebbe soltanto voluto che lui fosse lì, a casa, a coprire l’odore di fumo con il suo profumo.
Avrebbe voluto dirgli che lo amava. Che avevano sbagliato, ma che avrebbero potuto correggere tutto, che da quel momento in avanti si sarebbero rivolti l’uno all’altro con onestà, che chi avrebbe preso parola avrebbe parlato non più con la violenza di chi vuole convincere, ma con la sincerità di chi vuole esprimere un parere che gli sta a cuore, mentre chi avrebbe ascoltato, lo avrebbe fatto non con il pregiudizio di ricevere un attacco, ma con la disponibilità di raccogliere tutto come un dono e di cambiare idea se le parole dell’altro avessero lasciato un segno profondo.
Solo gli idioti non cambiano mai idea. E loro sarebbero stati oltremodo idioti a lasciare andare tutto così.
Iniziò a muovere il suo corpo al ritmo del flusso dei suoi pensieri. La mano che stringeva le lenzuola si mosse in avanti, poi indietro, facendo strusciare il polso sulla stoffa, ma senza mai mollare la presa, l’altra mano si artigliò sul cuscino. Sentiva il naso tappato, gli veniva difficile riuscire a respirare, allora mollò la presa dei denti. Ormai la federa era bagnata di saliva. Le sue labbra l’accarezzarono quando iniziò a prendere sorsi d’aria con la bocca. Le sue gambe strusciarono contro il copriletto, i piedi si impuntarono in esso arricciandolo. Nervosismo, frustrazione, dolore. Le lacrime iniziavano a mordergli i bordi delle palpebre. Aveva paura di cercarlo per ricevere un suo rifiuto. Inarcò la schiena. Aveva paura che non tornasse mai più. Strinse i pugni.
Qualcosa che ci appartiene, a cui si è abituati, è facile da trattare. A volte la si tratta pure male, perché è vincolata a noi, e questa certezza ci rende più spavaldi, più egoisti, più meschini.
Ma qualcosa che non è nostro, qualcosa che appartiene solo a se stesso, qualcosa di inesplorato, è da trattare con maggior cura.
Chi non sa amare ciò che non gli appartiene, non saprà amare ciò che è suo.
Il suo corpo si bloccò. Il silenzio della stanza venne sommerso dal battito del suo cuore. Pesante, così pesante.
Cosa sarebbe stata la sua vita da lì in avanti, se lui non fosse tornato? Se fosse rimasto solo l’odore di fumo?
Si sarebbe sentito inutile.
Inutile perché non avrebbe più potuto accompagnare qualcuno attraverso la sua anima per aiutarlo a scoprire se stesso e a farlo stare meglio.
Si sarebbe sentito impaurito e solo, perché ciò che è facile da percorrere in due, è difficile da affrontare senza un compagno. Avrebbe provato di nuovo paura nei confronti della sua stessa anima.
E lui? Ivan si sarebbe sentito a sua volta così, sicuramente, ma era lui che aveva lasciato, lui aveva più motivazione per cambiare. Si sarebbe presto trovato un altro compagno. Un altro… immaginarlo con un altro gli diede un senso di nausea. Non voleva che accadesse.
Non voglio…
Sussurrò.
Non voglio… Ivan, per favore…
Ci fu un sobbalzo del cuore e smise di colpo di respirare.
Aveva sentito qualcosa. Passi. Aveva sentito dei passi. Il suono era ovattato, lontano, debole, ma erano senza dubbio passi. Passi leggeri.
Ivan era un uomo alto, slanciato, robusto: aveva spalle larghe, braccia forti, mani grandi. Non dava di certo l’idea di una piuma –e di certo non lo era-, eppure, forse per il fatto che da ragazzino per molti anni aveva fatto danza classica, aveva una camminata elegante, leggera, quasi felina. A volte cambiava stanza senza che Alfred se ne accorgesse, passava senza fare alcun suono e riusciva sempre a coglierlo di sorpresa quando compariva alle sue spalle. Solo quando era inquieto o arrabbiato il suo passo si appesantiva.
Ma quei passi non erano pesanti, quindi non era arrabbiato. Non covava rancore. E stava tornando.
Sì, era lui, stava ritornando, grazie al cielo!
Sbarrò gli occhi e il cuore tornò a battere all’impazzata, l’ombra di un sorriso si dipinse sul suo volto: i passi si stavano avvicinando alla porta del suo, del loro appartamento, lungo il corridoio del piccolo condominio.
Sì, tra poco si sarebbe fermato davanti alla porta, magari avrebbe titubato un po’, ma poi avrebbe suonato il campanello. Alfred lo sapeva benissimo, ma forse quel suono l’avrebbe fatto sobbalzare nel letto, un sobbalzo di stupore e gioia. Avrebbe allora assaporato quel momento, si sarebbe riempito le orecchie di quel suono, un suono che probabilmente sarebbe diventato tra i più belli mai sentiti in tutta la sua vita e si sarebbe precipitato giù dal letto, fuori dalla stanza, senza nemmeno perdere tempo a cercare le ciabatte, si sarebbe sistemato un poco i capelli mentre percorreva il salotto, poi si sarebbe fatto un po’ desiderare e quietando l’agitazione avrebbe aperto la porta, ritrovandoselo di nuovo davanti, di nuovo con lui.
“Sapevo che saresti tornato.” Gli avrebbe detto con un sorriso. O forse no, forse era fuori luogo, no, non gli avrebbe detto niente, l’avrebbe soltanto fatto entrare. Non gli avrebbe chiesto nulla, nessuna domanda nemmeno sul dove fosse andato o su cos’avesse fatto, avrebbe solo preparato una cioccolata calda da condividere in due e dopo l’avrebbe accompagnato a letto, dove l’avrebbero fatto. Strusciò il bacino contro il materasso ed espirò sonoramente attraverso le labbra, dischiuse in un sorriso. Avrebbero fatto il sesso che facevano di solito per fare pace, in preda a una voglia di carnalità ancora arrabbiata, in cui non si risparmiano morsi e unghie piantate nella pelle, insulti che ormai non offendono più, qualche gemito lasciato andare troppo sonoramente e quelle movenze rudi, quasi selvagge, ma così piacevolmente liberatorie. L’idea di toccarlo e di essere toccato di nuovo lo esaltava così tanto che pensò di andargli ad aprire direttamente in mutande, o nudo; lì allora sì che la frase “Sapevo che saresti tornato” ci sarebbe stata d’incanto. Ma poi rifletté meglio e giunse alla considerazione che forse come mossa era un po’ ardita…
Oh, ma sarebbe stato amore, sì, avrebbero fatto tutto con amore e con un senso di libertà, la libertà di chi volta pagina e senza paura è pronto a riscrivere tutto ciò che vuole per rendere il libro della propria vita migliore. Il rumore dei passi si fece più vicino, Alfred benedisse l’eco di quel condominio, in grado di fargli udire quella camminata, di fargli sentire passo per passo il ritorno della persona che amava. –Ogni singolo passo. Ti amo, ti amo, ti amo-. Basta, da quella sera per loro iniziava una vita diversa, un rapporto diverso, e sarebbero stati felici, a partire dal suono di quel campanello sarebbe cambiato tutto.
Magari gli avrebbe consigliato di smettere di fumare.

 

Ecco, il suono è a pochi metri dalla porta dell’appartamento, può sentire tutto, tutto, quei passi leggeri sono diventati un frastuono nella notte, il rumore della vita, il grido di gioia dell’amore, e se ne riempie le orecchie, rimbombano, quei passi, così tanto nella testa che il fragore del campanello gli farà venire un infarto, ne è sicuro. Pochi centimetri, presto li sentirà interrompersi, tra pochi, pochissimi secondi che paiono secoli, anzi, un’eternità. Incredibile come si riesca a raccogliere l’infinito nell’unità di tempo più piccola. Ci sono, è arrivato ormai, il rumore non è mai stato più vicino e…
Passano.
(Una lacrima. Solo la prima…)
Il suono continua, regolare. I passi proseguono lungo il corridoio del condominio, finché di loro non rimane neanche il vuoto di un’eco.

 

End...?

 
  
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