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Autore: Lisa_Pan    28/09/2013    3 recensioni
Solo un attimo, giusto il tempo di muovere lo sguardo lungo l'asse mano-gomito-spalla-viso, che è più una curva se ci pensi, una specie di parabola che si conclude con un picco vertiginoso che separa simmetricamente gli occhi. Un paio di occhi normali, in un viso normale forse anche un pò stanco.
"3648.."
"Permesso"
"..i secondi che ci hai messo ad arrivare. Gianni B., quarto piano, l'ascensore funziona solo fino al terzo ma questo ormai lo sai."
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Mano


4-72-3648

A chi non ancora si ritrova
a chi non si è perso ma lo farà presto
a chi spara numeri a caso
e a Gino




Era l'inizio dei Novanta, abitavo...beh non è che ci abitassi, diciamo che mi ci trovavo per caso, lì dentro. Lì dentro di preciso era una specie di ultimo piano mal riuscito dove la gente accantonava pezzi di cadavere di una vita che non era più capace di portarsi dietro: ballerine senza un braccio che continuavano a girare attorno ad un perno seguendo note strozzate di una qualche ninna nanna per bambini; buste di gioccatoli, regalo di zii e zie di quei Natali che si fa presto a dimenticare; c'era persino una scatola piena di rullini mai scattati, vergini di luce, vergini di storie ma consumati dal tempo e dalla polvere. E c'ero io, civico 72, attico con ampia vista sul fiume, ben arieggiato e con riscaldamento a pavimento.

Appena trasferita avevo passato una settimana a bussare ai vicini, chiedendo che fine volessero far fare ai loro bei ricordi impacchettati; la maggior parte di loro non ricordava nemmeno di averli, quei ricordi, allora prendevo e gettavo tutto e, se c'era qualcosa d'interessante, decidevo di tenerlo come souvenir di viaggi improbabili. I giorni seguenti erano tutti segnati sull'agenda con un'enorme "A" appuntata di fianco al numero. A di appuntamento. Appuntamento con il buco nel soffitto, appuntamento con strani fili elettrici impiccati alle travi di legno, appuntamento con tutto ciò che si muoveva o respirava all'infuori di me. Otto giorni d'inferno immersa nella muffa e in una cipolla di sporco e polvere incrostata su ogni tipo di superficie.
Era l'inizio dei Novanta ed era anche il mio inizio. Uno di quelli che l'individuo comune si promette ad ogni capodanno o dopo una qualsiasi botta in testa o al cuore che gli lascia quel segno tangibile che riconosci a distanza di chilometri: "il mondo fa schifo perchè io sto male", "ce l' ho presa lì dietro e per questo siete tutti stronzi". Insomma le solite menate con cui ci roviniamo barbaricamente un buon terzo dell' esistenza.
Il mio era del secondo tipo, semplicemente perchè mi riusciva di più essere cinica piuttosto che vittima. E allora ho preso il mio bagaglio semivuoto e mi sono chiusa la porta "amici di merda" e "famiglia sbrandellata" alle spalle e sono sparita in mezzo al buio pesto di una strada senza lampioni, civico 72, quarto piano.

Non mi piace raccontare dei perché, mi fermerei piuttosto su quei particolari inutili che in realtà poi hanno fatto la differenza. Come la cenere sul davanzale alle quattro del mattino, quando rientravo dal lavoro (barista in un locale che porta il nome del tizio che mi ha assunta, all'angolo tra il 77 e il 79) e l'unica cosa che volessi fare era bruciare lentamente ogni singolo istante di questa o quell'altra giornata, non faceva differenza, erano tutte uguali, come tirate fuori dal forno del panificio sotto casa. Sfornava di quei dolcetti che ti facevano venir l'acquolina agli occhi, solo dopo alla bocca, li vedevo uscir fuori dal forno tondi tondi, circondati dagli stampi in alluminio, sterili, incolore. Tiravo avida dal filtro intere boccate di fumo e lentamente lasciavo che mi entrassero dentro, mi bruciassero gola e polmoni e graffiassero bianche cicatrici lungo ogni parete di me. Erano di quei momenti in cui ti ritrovi da solo a pensare e senza la minima capacità di arrivare ad una qualche conclusione utile. Il cervello stanco stava dietro ad ogni mio scarto di argomento e i tentativi inutili di riportarmi indietro finivano nell'esatto istante in cui svoltavo l'angolo con lo sguardo ed inspiravo un'altra lunga boccata.
Gli inizi sono così, non sai mai quando...beh quando inizino. Per un pò sembra che ti aspettino al quarto piano di un palazzo dalla facciata pulita, subito fuori dall'ascensore pronti a tenderti la mano e accompagnarti davanti all'ingresso e a quella serratura di cui non hai ancora le chiavi, poi...non sai come finisci a rincorrerlo, a cercarlo in ogni scatolone scartato, in ogni angolo di polvere pulito, nelle sere stanche e nella condensa che si forma attorno alla prima bottiglia di birra che ti sei pagato con il tuo primo vero stipendio. Pensi che ci sia qualcosa che non va, io l'ho pensato, ogni sera dal mio ufficiale trasferimento.
Ho cominciato a guardarmi intorno e a non riconoscere più nulla.
La crepa nello specchio comprato dalla nonnina del primo piano, la puzza del cesto dell'immondizia, la voce elettronica al telefono, i libri, i vinili, il vociare ai piani di sotto. Tutta roba nuova con la quale ad ogni occhiata cercavo di fare l'abitudine, come un cane che annusa spazi e muri prima di capire che quella è casa sua. Ed è un pò quello che facevo io, annusavo in giro per casa cercando tracce di qualcosa che mi facesse capire che avessi realmente cominciato a muovere dei passi in avanti, cercavo le mie impronte ovunque andassi e mi rendevo conto di non lasciarne molte.
Ero stazionaria, ferma come Gino, il pesce che avevo comprato per farmi compagnia. Se ne stava sempre lì, sul davanzale, fermo ad aspettare e ad osservare, con quei suoi enormi occhi bianchi, i cocci del palazzo di fronte. Ogni tanto si ricordava di aver fame e boccheggiava nella mia direzione picchiando la testa contro la boccia quando facevo finta di non accorgermi della macchia blu a pochi centimetri da me. Era un gran pesce Gino, quando schioccavo le dita saltava fuori dall'acqua e ricadeva in una capriola di ossiggeno e schizzi d'acqua, ma la sua principale caratteristica è che ci vedeva. Ci vedeva per davvero quel pesce, dal primo giorno di convivenza con me, mi aveva girato le spalle e si era messo a guardare.
Gino e la cenere sono stati il primo segno di un reale cambiamento.
Erano i primi del Novanta e me ne stavo appollaiata sul davanzale con un dito a sfiorare l'acqua nella boccia e con lo sguardo rivolto al pensiero del momento. Ricordo la cenere che cade e io che seguo il suo movimento lento in quel limbo di metri che la separava da me e il nulla e l'ho vista. Una mano affacciata alla finestra di fronte alla mia, civico 73, quarto piano, tende caffè e una finestra semiaperta. La mano fumava, alle quattro del mattino, enormi nuvole bianche impregnavano le tende e macchiavano i vetri di condensa. Avevo un compagno insonne.
Ora, la verità è che sono sempre stata un pò squilibrata, di quello squilibrio che ti porta a fare stronzate impensabili che il più delle volte si concludono con vestiti sporchi,  nottate in bianco e giornate digiune e una lunga fila di portafogli vuoti. E' che mi piace viaggiare anche se in un modo non molto convenzionale; un modo statico. Facevo come Gino, nuotavo dentro la mia boccia di vetro e mi guardavo intorno, divoravo centimetri di sguardi e piccoli attimi di vita, disegnavo o scrivevo o a volte parlavo da sola dentro casa, raccontavo a qualcuno di loro, di come se avessi voluto sarei potuta entrare nella loro storia e uscirne senza essere notata. Erano viaggi a costo zero e ne facevo tanti e in continuazione, ci avevo preso gusto e mi aiutavano a non pensare.
E quella mano.
Quella mano era diventata l'alternativa a tutto il delirio esistenziale che mi girava in testa; tornavo a casa mi mettevo sul davanzale e, con i piedi nudi nel vuoto, divoravo ogni centimetro di quelle dita, delle vene sporgenti, delle nocche rosse di freddo e dell'osso del polso circondato da un'onda ricurva in nero che s'insinuava nel palmo. Quando accadono queste cose, queste cose che non ti spieghi, come renderti conto di una cosa solo dopo settimane che ti succede di fronte, nasce in te la convinzione che si sia creato una sorta di legame invisibile. E' dannatamente infantile ma c'è chi vive di queste cose, c'è chi l'illusione è la principale causa che fa uscire dal coma sentimentale nel quale ci si sente costretti. Le quattro del mattino, il quarto piano, i civici in sequenza e la cenere sul balcone, per me era un boccone fumante di bistecca al sangue che mi dondolava davanti agli occhi. C'era una serie infinita di bisogni che sentivo esplodere dentro, il bisogno di sapere chi fosse, di dare un volto alla mano e dei polmoni a quei respiri oltre il vetro, avevo bisogno di consumarmi le dita contro la porta di quell'appartamento e di guardarlo negli occhi ma mi sarei accontentata anche di un gomito.
Quindi, erano i primi del novanta, Gino guardava impassibile la parete rossa del 73, le quattro del mattino ed io che i piedi avevo deciso di infilarli in un paio di scarpe e posarli sui sanpietrini di Via dei Ramni.

Quando si prendono certe decisioni ci si prepara come se si dovesse scalare una montagna: hai preso la frutta secca? E il pentolino? Ricordati i calzettoni pesanti metti che becchiamo una bufera; chiama tua madre dille che non si deve preoccupare se vede che non torniamo; saluta Gino e dì ad Andrea che gli vada a portare da mangiare, e così via. Quando si comincia da un'illusione non ci si aspetta nulla, avere aspettative sarebbe troppo realistico, ci si risponde passo dopo passo: primo gradino fatto, se il lampione è spento io non riesco a leggere sul citofono, ma se è in affitto sul citofono non c'è il suo nome, ma se il portone è chiuso io a chi suono? L'unico forse è Adriano che stacca alle tre e mezza, male che va lo aspetto lì e mi faccio aprire.
E in questa giungla di difficoltà alla fine arrivi. Io ero riuscita ad arrivare e ricordo di aver fissato a lungo il BabboNatale appeso alla porta, augurava un buon Natale e un felice anno nuovo il 21 di aprile. Lui mi ha trovata in quello stato, aveva aperto la porta e mi aveva guardata per un attimo. Solo un attimo, giusto il tempo di muovere lo sguardo lungo l'asse mano-gomito-spalla-viso, che è più una curva se ci pensi, una specie di parabola che si conclude con un picco vertiginoso che separa simmetricamente gli occhi. Un paio di occhi normali, in un viso normale forse anche un pò stanco.
"3648.."
"Permesso"
"..i secondi che ci hai messo ad arrivare. Gianni B., quarto piano, l'ascensore funziona solo fino al terzo ma questo ormai lo sai."

Si chiamava Lorenzo, viveva in un posacenere e dormiva su un'amaca, motivo per cui continuava a massaggiarsi il collo con la sigaretta stretta tra indice e medio. Era un movimento quasi sofferto, parlava velocemente sfiorando argomenti, senza mai sceglierne uno, e alternava queste frasi sconnesse e stanche alla contrazione del braccio. La testa era sempre bassa come a voler bucare il pavimento e poi c'era questa cosa che mi incasinava il cervello e che si sintetizzava in nemmeno due centimetri di pelle. Quando chiudeva gli occhi capivi che stava per cambiare argomento, capivi che se volevi una risposta dovevi domandare senza perdere tempo altrimenti non avresti più avuto occasione di tornarci su, così facevo domande assurde. Parlava di musica e io pensavo chiedigli se suona e dicevo "Re!"; parlava di arte e io pensavo che artista e dicevo "rasoio". Il mio cervello faceva associazioni rapide e che tentassero di dire un pò tutto in massimo tre sillabe, il risultato era che in quella stanza sembrava si stesse giocando ad uno di quei giochi da tavola in cui devi indovinare al volo una parola.
Però ci capivamo, nei silenzi sapevamo trovarci. Era come se ci urlassimo da una parte all'altra di una montagna, tra gli echi e le frasi affrettate non ci arrivava nulla di chiaro, ci sovrastavamo e spesso ci si fraintendeva e ci giravamo le spalle senza mai smettere di parlarci addosso; però poi il casino finiva e ce ne stavamo lì a fissarci, come due eremiti, come Gino e i cocci rossi, in silenzio e riconoscevamo l'uno nello sguardo dell'altro gli stessi pensieri confusi, lo stesso straziante bisogno di trovare risposte.
Poi è successo che...è successo che ad un certo punto ha poggiato la mano sul davanzale e ogni mio pensiero, ogni mia curiosità si è fermata su quei venti centimetri di articolazione. Ho visto la luce accesa nella mia stanza, ho visto la boccia del pesce, le mie tende gialle e il posacenere in bilico sul marmo freddo. E il suo sguardo, oltre le tende color caffè guardavano la mia testa poggiata sul legno della finestra, i miei piedi nudi oltre il cornicione e le mie labbra storte in una smorfia di lecito disappunto. E ho capito.
Amo raccontare delle persone che mi capita d'incontrare, la gente mi scambia per un'esaltata egocentrica e spesso lascio che lo credano, l'importante è che sappiano che c'è in giro un numero incredibile di anime grige che hanno solo bisogno di esplodere. Se ne stanno lì con una mano fuori dalla finestra, nascoste al resto del mondo, nascoste a loro stessi. Si ha sempre questa agghiacciante convinzione che per provare qualcosa d'indimenticabile, qualcosa che valga la pena di essere raccontato, fotografato e appuntato sul frigo con annessa calamitasouvenir, ci si debba completamente estraniare da quella che è la quotidianità. Ci si mette sù un paio di pinne, un boccaglio, una maschera e ci s'immerge in una pozza d'acqua che di quel tipo la si potrebbe trovare anche dentro casa, nella vasca con la paperella che galleggia in mezzo alla schiuma, probabilmente riuscirebbe ad essere anche più interessante. Lui non lo potevi trovare in nessuna agenzia di viaggi, non c'era posto che portasse il suo nome, non c'erano suoni che reggessero il confronto con i suoi silenzi, non c'era organizzazione che non riuscisse a sfigurare davanti al caos dei suoi pensieri e non c'era tranquillità che non avreste barattato per il suo comunissimo star male con se stessi. Era così leggibile, stavo lì seduta sul letto che divoravo capitoli di lui come fossero patatine, volevo sfogliare le pagine nere e poi strapparle ed ingoiarle o bruciarle o lasciarle al vento. Volevo che arrivasse a scrivere qualcosa di nuovo, qualcosa che lo portasse a guardare me e non la comoda immagine di quella ragazza sconosciuta in bilico sulla finestra, volevo che si scuotesse da quella specie di stato catatonico in cui era finito e che si rendesse conto di dove il treno dei suoi pensieri l'avesse fatto finire. Eppure mi piaceva, tutto quel casino dico, mi piaceva.
Mi è capitato spesso, dopo quell'episodio, di guardarmi intorno e paragonare un paio di occhi, un naso, un sorriso, un mugolio al suo, non ritrovando mai qualcosa di così provato. Giuro che se avessi potuto, quella mattina lì sul letto lo avrei preso a schiaffi, semplicemente perchè pareva così saccente a volte, così convinto che ciò che per lui fosse vero doveva esserlo a prescindere anche per gli altri. Mi guardava aspettandosi chissà cosa, non mi sentivo capace di soddisfare le sue aspettative, non mi sentivo capace di tradurre la sua indifferenza in disagio. Ero una spettatrice e da spettatrice mi godevo quella visuale ravvicinata  di mano e sigaretta.
Con il tempo, ripensando a quella notte, mi è capitato di sorridere della mia totale incapacità di invadere l'intimità delle persone e non è che non fossi invadente. Sapevo chiedere e lo facevo anche insistentemente, la mia curiosità infantile non si limitava al cibo o al colore preferito, se vedevo un callo lo ricollegavo ad una chitarra, se vedevo un anulare segnato pensavo ad una storia finita, se vedevo un libro pensavo ad un viaggio; ma non andavo mai oltre, sapevo di tirare fuori già tanto di sconvolgente, sapevo di aver avuto già una piccola parte non mi sentivo di chiedere anche il centro del palcoscenico. Con lui avrei voluto spingermi più in là, sentivo che potevo e che forse dovevo ma non sapevo come convincerlo di potersi fidare ed era una cosa che mi divorava lo stomaco.
Tutto di lui raccontava qualcosa e non sapevo se avessi fatto centro o meno e non lo chiedevo. Era tormentato, ricordo che quella parola mi girava continuamente in testa, tormentato. Avevo visto sul tavolino un libro di architettura moderna e sul tavolo c'era un modellino in scala di un teatro in centro, il telefono squillava spesso e quando rispondeva la sua voce diventava snaturata come se si sforzasse di apparire entusiasta. Appesi al muro c'erano un televisore e un paio di console e nella libreria si alternavano vinili, libri e dischi. Avrei detto che non gli mancava nulla, che non potesse lamentarsi di una vita che gli dava lavoro, compagnia e svago, ma poi lo guardavo e mi chiedevo cosa lo portasse a stare in quel modo.
C'è chi lo avrebbe chiamato ingrato ingiustamente, perchè nonostante tutto lui non si lamentava, se ne stava zitto e lasciava che gli altri pensassero quello che volessero, aveva già un milione di voci che gli giravano per la testa, aggiungere anche quella di chi tentava di curare le sue ipotetiche lacune non lo avrebbe aiutato. Invidiavo il suo mondo, la sua capacità di star solo con se stesso, di muovere passi certi in terra sconosciuta, invidiavo anche la sua timidezza, nonostante gli impedisse di essere completamente sincero con gli altri. Gli mancava sempre quel poco che avrebbe fatto innamorare chiunque del suo sorriso. Era così anonimo che non potevi non notarlo, comunemente imperfetto, normalmente complessato, lo cercavi nella stanza per tenerlo sotto controllo, ti passava accanto per confermare che ci fosse ma non ti parlava, non ti salutava, al massimo faceva un cenno e capivi che ti aveva vista e considerata.
Mi aveva offerto biscotti al cioccolato e latte caldo, avevo accettato e lentamente il sonno arrivava per entrambi; cominciavamo a rallentare, i toni si calmavano e il sorriso ebete dell'incoscienza ci si allargava in faccia. Stavamo bene nonostante fossimo così diversi in tutto e andava bene così, almeno per quella notte o per quelle successive, ci bastava farci compagnia per sentirci meno soli, meno insoddisfatti. Avere qualcuno con cui condividere la parte più sporca di te ti fa sentire quasi giustificato a sentirti comodo in quell'artefatto di vita che ti sei costruito e che non sei capace di accettare pienamente. Avere cenere sul davanzale ti fa sentire che qualche traccia l'hai lasciata, anche se piccola, anche se al primo alito di vento vola insieme a foglie, peli di gatto e puzzo di asfalto.

Millenovantacinque mattine, tre anni, poco sonno e troppi biscotti al cioccolato, non ho mai cambiato idea su di lui, perchè non credo di averla mai avuta una particolare idea di lui; troppo incostante, troppo imprevedibile, troppo interessante per ingabbiarlo in quattro parole messe in fila. Lui è la storia che non ho mai raccontato ed è forse l'unica che vorrei che il mondo conoscesse.

La  storia di un pesce che fissa una mano che fuma da dietro le tende caffè di un quarto piano qualsiasi al 73 di Via dei Ramni.
Ed erano i primi dei Novanta.

   
 
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