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Autore: fiammah_grace    30/09/2013    3 recensioni
[Resident Evil: code Veronica X]
"Seppur la non fisicità di Alexia, la sua presenza era rimasta come un alone costante nella vita dell’uomo che abitava oramai da solo quel vuoto castello.
Una costante fittizia, ma così viva e forte che a un certo punto lui stesso l’aveva resa reale continuando a dare un nome, un volto e un ruolo alla sua venerata e lontana sorella, muovendo uno spaventoso gioco di ruolo mentecatto in cui ella esisteva e non lo aveva mai lasciato.
Nulla avrebbe avuto importanza per lui. Avrebbe sacrificato ogni cosa al fine del benessere e del successo della sua Unica Donna, la sua Unica Regina. Persino se stesso.
Qualcuno tuttavia aveva osato disturbare la sua macabra attesa.
Claire Redfield. Il nome della donna dai capelli rossi che aveva invaso il suo cammino nel momento più prezioso. Il nome dell’infima donna che aveva sporcato l’universo perfetto di lui e Alexia, portando scompiglio nel suo territorio.
Quella formica che gli aveva dato del filo da torcere…persino troppo. Più di quanto potesse sopportare."

[Personaggi principali: Alfred Ashford, Claire Redfield]
Genere: Angst, Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Alfred Ashford, Claire Redfield
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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The Only Woman, The Only Queen
La sola donna, La sola regina
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo 1: La bambola camuffata
 
 
 “Siamo tutti costretti, per rendere sopportabile la realtà, a coltivare in noi qualche piccola pazzia.” 
(Marcel Proust)
 
 
 
 
- Lettera accartocciata –
 
In uno specchio è riflesso ciò che è concreto e tangibile. Uno specchio riflette esattamente quel che è davanti ai nostri occhi.
Se questo è vero… allora anche quel che io vedo è reale!
Alexia….ci sei tu dietro questo specchio?
Non vedo più il mio volto. Non vedo più me stesso in questa
immagine specchiata. Di fronte a me vedo i tuoi occhi di Regina, il tuo sorriso
dominatore, il tuo sguardo vittorioso, il tuo genio inaccessibile….
Quell’inconfondibile luce complice che solo l’uno negli occhi dell’altro può vedere.
Oh Alexia, mi manchi disperatamente…
Ma sopporterò.  E’ solo per te che affronto questa incessante agonia.
Son lieto e onorato di donarti la mia vita.
 
-   … in attesa di te, mia amata sorella,
Alfred Ashford   -
 
 
 
 
 
Non è la realtà quella che si proietta nei nostri occhi, ma allo stesso tempo non è una menzogna quello che crediamo sia vero. Allora cos’è davvero reale?
La risposta è Nulla. Nulla, al di là delle emozioni che viviamo.
Son loro che dettano quel che crediamo sia vero. E son esse che ci consentono di dire cosa amare o meno.
Ma non pensiamo di essere liberi di poter scegliere, perché sarebbe rovinosamente erroneo.
Siamo tutti, infatti, vittime di una dura e inconsapevole prigionia mentale che ci imbriglia e ci opprime fino a indurci a dipendere inesorabilmente a essa per non cadere nell’oblio.
Tutto è solo un’ombra. Nulla esiste davvero.
Quindi l’unica cosa che possiamo fare è vivere nella nostra pazzia, l’unica a dare un senso al nostro universo.
 
 
Una giovane donna era adagiata sul suo regale e imponente trono rivestito da un purpureo velluto pregiato. Un bagliore era riflesso nei suoi occhi e le impediva di focalizzare la stanza che aveva di fronte a sé, della quale scorgeva a stento i contorni tramite confuse e impalpabili ombre offuscate. Un tripudio di ansie faceva agitare il suo corpo, senza che potesse capire effettivamente da cosa fosse scaturito tale affanno interiore. Tuttavia in suo potere vi era l’unica facoltà di aprire e socchiudere gli occhi, mentre il resto del suo corpo era come se fosse stato riempito di piombo.
La testa inclinata verso il basso le stava provocano la nausea, eppure rimase immobile in quella posizione per ore, concedendosi soltanto dei lievi dondolii col capo che fecero oscillare i suoi lunghi capelli biondi, i quali cascarono prontamente davanti ai suoi occhi.
In quello stesso istante una pallida mano le accarezzò la guancia, facendo scorrere le sue dita attorno al suo orecchio, liberandola così dal sipario formato da quei sottili fili dorati che pendevano dalla sua fronte.
Ella alzò faticosamente gli occhi, schiudendo la sua bocca rosa intorpidita.
Un uomo vestito di rosso comparve davanti ai suoi occhi. Era piegato verso di lei, e le sorrideva.
La sua pelle bianca ricordava una finissima porcellana dalla bellezza quasi irreale. Poteva esistere un candore simile?
Consapevole di star concependo un pensiero assurdo, li per li si chiese seriamente se accanto a lei ci fosse una bambola.
I sottili capelli dorati, luminosi, delicati, e poi i suoi occhi color cristallo… tutto faceva di quell’uomo l’essere che più si avvicinava alla perfezione di una bellezza botticelliana.
Eppure nel suo sguardo albergava qualcosa di dubbio, qualcosa di nascosto, qualcosa che non rifletteva la realtà. Un qualcosa di complesso e disturbante, che le faceva intuire perfettamente che c’era qualcosa di sbagliato, anche se non sapeva ancora cosa.
Quell’emozione fuorviante le fu d’improvviso familiare. Sentiva di conoscere la verità da qualche parte, di sapere che era vero: c’era qualcosa di oscuro e sbagliato in quell’uomo.
Una parte remota del suo inconscio reagì prima ancora che si appropriasse di quel ricordo al momento annebbiato, ma non fu in grado di fare altro. Abbassò solo ancora di più la testa, sentendo il suo corpo sempre più pesante…
 
“Sorellina, sei ancora stanca? Avevo fatto preparare del tè da prendere insieme in giardino.”
 
Il ragazzo dall’aspetto aristocratico rimase in silenzio, attendendo invano la risposta. Sorrise dolcemente, accorgendosi che la sua dama voleva dormire ancora un po’.
Fece scorrere lentamente il suo sguardo su di lei, godendo di ogni angolo che componeva il suo corpo.
Dai suoi piedi rivestiti dalle scarpe col tacco, perfettamente allineati all’estremità della poltrona su cui era adagiata; al suo vestito viola scuro, che lasciava scoperte le spalle, e che si posava leggiadro su ogni sua curva delineando il suo corpo longilineo, accarezzandolo con le sue tenue balze di seta.
Sul suo collo troneggiava un girocollo nero, ove ergeva incastonata una pietra scarlatta, simbolo della sua famiglia. Simbolo del suo destino. La pietra che apparteneva alla sua Regina, di cui lui era il mite e devoto servitore.
Inginocchiato ai suoi piedi, fece cadere la sua mano su quella di lei, sfiorando il gancio di ferro che incastrava i suoi polsi.
Egli le accarezzò il dorso con le dita, massaggiando le nocche della sua mano. La strinse per un attimo, rievocando nella sua mente quanto fosse bello il tempo in cui anche lei gliela stringeva a sua volta.
Affogato nella visione di quel ricordo, improvvisamente sul suo viso si disegnò una smorfia. Egli aprì la sua bocca e dalle sue corde vocali uscì una voce angustiante, una voce inquietante, una voce che non gli apparteneva…la voce di qualcun altro.
La voce di una donna.
 
“Grazie, fratello mio. Vorrei però rimanere qui ancora un po’ se non ti dispiace.”.
 
Lui, quasi senza rendersi conto di star parlando da solo, annuì alla sua stessa affermazione, reimpostando il suo reale timbro di voce maschile.
 
“Ma certo, Alexia. Riposa pure ancora un po’… a più tardi.”
 
Un tacito “ti voglio bene” si disegnò sulle sue labbra.
Egli rimase inginocchiato ancora un po’, osservando silenziosamente gli occhi spenti della donna e le sue labbra che in realtà non avevano proferito alcuna parola.
Dopodiché si alzò, mettendosi in piedi di fronte a lei. La mano della fanciulla dai capelli biondi incatenata al suo trono rosso scivolò via dalle sue dita. L’uomo si allontanò, camminando con una postura perfettamente eretta ed elegante che fece oscillare delicatamente i gradi militari posti sulle sue spalle.
Giunto sulla soglia del corridoio esterno, mise un piede indietro in modo trasversale, e con un giro veloce su se stesso fu di nuovo rivolto verso di lei.
Prese dunque fra le mani, rivestite da vellutati guanti bianchi, le maniglie dorate e chiuse il possente portone di legno rinchiudendo la sua Marionetta Addormentata.
 
 
 
***
 
 
 
Il magistrale portone di legno scuro era stato appena chiuso. Il movimento tenue con cui la porta era stata serrata non impedì al rimbombo di propagarsi nell’ambiente.
La penombra ombrò i colori di quella stanza, come fosse il triste velo grigiastro di un sipario oramai calato, e la ragazza dai capelli biondi, col viso ancora chinato, guardò attorno a sé. Il suo sguardo scivolò sui suoi polsi ancorati a quella poltrona regale rivestita di rosso.
Quelle morse rugginose, inquietantemente in contrasto con la preziosità del trono su cui erano montate, erano chiuse a chiave, e non ricordava assolutamente quando vi era stata imprigionata.  Allo stesso tempo un pensiero invase la sua mente. Un pensiero scaturito dal nome con cui quel ragazzo dai capelli pallidi l’aveva chiamata.
………………………..Alexia………………………… era quindi questo il suo nome?
Strinse gli occhi riavvertendo dentro di sé quell’emozione provata poco prima al cospetto del biondo. Quella sensazione disturbante, di chi si è accorto che qualcosa non quadrava.
Questo perché era sicura di diverse cose, che man mano stavano riemergendo dal suo inconscio:
Era infatti sicura di non chiamarsi Alexia.
Era sicura che quell’uomo non fosse suo fratello.
Ed era sicura di non avere i capelli biondi.
Erano in suo possesso queste sole certezze, di cui l’ultima abbastanza superflua. Eppure sapeva che fosse un dettaglio importante, sebbene la sua mente non le permettesse ancora di focalizzare al meglio le sue attenzioni. Tuttavia ancora qualcosa la confondeva, e di nuovo quella strana sensazione la pervase. Perché aveva il vago ricordo di avere davvero un fratello.
Allora forse si sbagliava? Forse quel ragazzo altolocato era davvero suo fratello e lei la sua bionda sorellina?
Forse era davvero solo stanca?
La donna chiuse gli occhi, sfinita da tali taciti ragionamenti. Sebbene di natura non particolarmente contorta, quei dubbi ebbero su di lei un effetto devastante data la fiacchezza che aveva in corpo. Così si addormentò, abbandonando per qualche ora quella realtà di cui lei al momento era solo un’inconsapevole marionetta.
Mentre si placava, i suoi ricordi si focalizzarono su quel viso candido e delicato. Su quei tratti ben definiti e muliebri. Su quell’uomo la cui finezza rievocava una cerea porcellana.
Su quella occulta ma palpabile agonia nascosta dietro i suoi occhi…
 
 
 
***
 
 
“Oh, Alexia.”
 
L’uomo dall’apparenza regale sgattaiolò nel corridoio, imboccando velocemente le scale. Si voltò di scatto verso una parete vuota ed estrasse dalla tasca della sua elegante divisa militare rosso cremisi uno strano emblema d’ottone. Lo fece roteare fra le sue mani disponendolo nel modo corretto, poi lo incastrò in una zona non ben definita del muro, impossibile quasi da scorgere per chi non sapesse dove guardare esattamente. Tale azione fece tremare per un istante l’ambiente che lo circondava, ma lui non si smosse essendo padrone di quel castello e conoscitore di tutti suoi segreti.
In quello stesso istante, la parete sparì scorrendo verso il basso, rivelando così un passaggio nascosto, oltre il quale era preservata una stanza buia, dissimile dalle altre.
Dentro erano ubicati dei monitor accesi sparsi un po’ ovunque, che mostravano tutti la stessa stanza che lui aveva appena lasciato.
Si trovava in una piccola zona di monitoraggio.
Egli si aggrappò quasi con disperazione al tavolo posto sotto uno degli schermi, puntando non solo lo sguardo, ma tutto se stesso sull’immagine della donna tenuta prigioniera.
La luce cerulea dello schermo si rifletté su di lui, rendendo la sua figura ancora più pallida. I suoi occhi illuminati da quel bagliore non sbatterono mai le palpebre, estasiati di poter vedere finalmente in carne e ossa la Donna. La sua Donna.
D’un tratto però i suoi occhi si strinsero, e con essi anche i pugni si serrarono. Il biondo digrignò i denti deformando la sua espressione, e con afflizione batté la testa sul tavolo, prostrandosi verso la sua mentale interlocutrice.
 
“Perdonami…” sussurrò devastato. “Lo sai che non potrei mai tradirti, Alexia.”
 
Disse credendo davvero di parlare al cospetto della sua Regina.
 
“Solo a te devo la mia devozione, nessuno potrà mai separarci. Ci sarò sempre al tuo fianco, non lascerò che alcuno t’intralci. Sarò al tuo fianco sempre, sempre, sempre….”
 
Sbatté un pugno, addolorato e oramai sul punto di crollare.
Egli aveva dimostrato la sua fedeltà incondizionata per tutti quei lunghissimi anni. Aveva sofferto la solitudine più buia, illuminato dal solo e semplice ricordo di colei che era la più importante per lui.
Questo da quando Lei aveva deciso di ibernarsi per fare di se stessa la cavia del suo più grande esperimento in vece del suo inutile padre, che non era stato capace di riportare alla gloria la nobile famiglia dalla quale discendeva. Nemmeno nel momento della morte egli aveva saputo rendersi utile, condannando così Alfred Ashford in un’insopportabile attesa devastante.
Questo perché Alexia fu costretta a sacrificarsi al suo posto.
La rabbia cominciò a crescergli in corpo, torcendo le sue viscere in quel tormento che sembrava non avere più fine. Quel baratro che l’aveva condannato e aveva gettato nella dannazione la sua realtà.
Alfred aveva cercato di opprimere in tutti i modi la frustrazione di quella solitudine non ancora cessata. La solitudine di quell’attesa devastante. La solitudine che lui avrebbe colmato proteggendo la sua bella Principessa Addormentata.
Ma era una solitudine folle, una solitudine al limite dell’inumano. Una solitudine che covava in corpo oramai da quasi quindici anni. Quindici anni…
Seppur la non fisicità della sua adorata e perfetta Alexia, la sua presenza era infatti rimasta come un alone costante nella vita dell’uomo che abitava oramai da solo quel vuoto castello.
Una costante fittizia, ma così viva e forte…così tanto che a un certo punto lui stesso l’aveva resa reale continuando a dare un nome, un volto e un ruolo alla sua venerata e lontana sorella, muovendo uno spaventoso gioco di ruolo mentecatto in cui ella esisteva e non lo aveva mai lasciato.
Alfred nascose infatti la sua assenza, ingannando persino il suo stesso io che l’agognava follemente, incapace di vivere senza di lei. Eresse una formidabile commedia ove alcuno avrebbe mai potuto sospettare che ella non si trovasse davvero lì, attualmente, a solcare le mura del loro castello.
A tal scopo, il biondo aveva curato il loro luogo sacro, ucciso i loro oppositori, fatto tacere chi osava guardare troppo, insegnato cosa significava varcare le soglie del loro castello, nutrendo le sue insignificanti formiche col sangue di chi aveva avuto l’onore di partecipare al loro gioco perverso.
Tutto questo recitando sempre l’illusoria presenza di Alexia Ashford, il fantasma che regnava quel mondo assieme a lui.
Alfred aveva fatto sì che ella rimanesse sempre al suo fianco, gettando il dubbio sulla sua presenza, confondendo ruoli e personaggi fino a creare un suo personale universo in cui lei era accanto a lui.
Ma nonostante ciò, qualcosa ancora lo turbava.
Il solo alone della sua Regina non era bastato.
Ancora non si era reso conto, infatti, del reale potere della solitudine più ombrosa di cui era vittima in realtà.
Il giovane uomo dai sottili capelli dorati aveva provato di tutto pur di trovare la sua Adorata in qualche parte remota al di la di quel vetro dietro il quale ella era ibernata. Ma nulla era valso davvero. Nulla aveva potuto alleviare le pene di quell’attesa interminabile.
Né il sorvegliare il suo viso addormentato, né la vita militare, né il centro d’addestramento, né il sangue versato sui suoi prigionieri, né la morte dei suoi nemici, né i successi dei suoi esperimenti...
Neppure se stesso, che possedeva l’unico viso al mondo che potesse ricordargli la sua amata gemella. Un volto che, mascherato, gli rammentava il calore di avere qualcuno accanto.
Ma non bastava…non bastava mai nulla…
Nulla colmava davvero la lontananza di Alexia.
Alzò quindi il viso verso lo schermo, ancora fisso sull’immagine della ragazza bionda ancorata sul suo trono. La sola donna da lui tanto agognata.
La sola donna che poteva amare.
La sola donna che esisteva ai suoi occhi.
La sola donna che lo comprendeva.
La sola donna che lo amava.
Si alzò quindi in piedi e in posa solenne giurò ancora una volta sulla fedeltà che avrebbe avuto verso la sua sovrana, che mai avrebbe tradito, alla quale aveva donato la sua intera esistenza.
 
“Alexia, tu sei l’unica che può esistere per me. Tu…sei la mia unica Regina. Alexia… mia amata Alexia.”
 
Si abbandonò in seguito a una fragorosa risata, che lo costrinse a coprire la sua fronte con una mano.
Un’insana sensazione pervase la sua ragione. Una conosciuta e ignota consapevolezza allo stesso tempo. Una verità che possedeva, ma non voleva ammettere.
Una realtà da cui egli stava consapevolmente scappando: la realtà di star prendendo in giro oramai persino se stesso.
 
Perché quella donna al di là dello schermo… non era la sua Alexia.
 
 
 
***
 
 
 
Villa Ashford (luogo sconosciuto) – prime ore del pomeriggio
Giardino
 
 
 
La ragazza dai capelli biondi sollevò molto lentamente la delicata tazzina da tè che aveva fra le sue mani. Essa era bianco avorio decorata con delle sottilissime rifiniture dal tema floreale, contornata dai bordi dorati.
Il sole batteva forte a quell’ora del pomeriggio, ma l’ombra dei portici sotto i quali era seduta per fortuna la allietava con il suo fresco.
Ella era seduta su un tavolino circolare bianco, dalla forma bucherellata. Su di esso vi erano poggiati un cestino ricco di deliziosi biscotti in stile british, e la preziosa teiera appartenente allo stesso servizio da tè della tazza che aveva in mano.
Il prato che la circondava era perfettamente tagliato, poteva sentirne ancora il tenue e dolce profumo albergare nell’aria. Attorno al vialetto di pietra che accompagnava i passeggeri da un angolo all’altro del giardino, vi era un piccolo condotto d’acqua artificiale che richiamava l’immagine di un ruscello. I raggi solari si riflettevano sul quel cristallo, creando dei luccichii simili a delle pietre preziose.
Era un’atmosfera splendidamente piacevole, rilassata, silenziosa. Una pace intensa, che stava perdurando ai limiti dell’inquietudine.
Alzò delicatamente gli occhi oltre il fluido ramato contenuto nella sua tazza e il suo sguardo cadde inevitabilmente su quella costante e unica seconda presenza che negli ultimi giorni accompagnava i suoi spenti risvegli. Il ragazzo aristocratico vestito di rosso era infatti di nuovo lì, di fronte a lei.
Egli aveva finito di sorseggiare il suo tè da un bel po’, così se ne stava semplicemente seduto a guardarla, con una mano adagiata sul tavolo, e l’altra che sorreggeva la testa sulle sue nocche.
Seppure la bionda non lo guardasse in faccia, ma tenesse appositamente lo sguardo vago verso la sua tazzina, avvertiva la costante sensazione che lui la contemplasse. Sempre, con insistenza, con ossessione.
Nonostante la pacatezza che la circondava e che sentiva nel suo corpo, era sempre più inquieta. Le sensazioni d’inadeguatezza provate il giorno prima erano ancora correnti e insistenti nel suo animo. Sperava che quella spiacevole percezione sparisse quanto prima illuminandola con una risposta.
In quell’istante la sua mano tremò inconsapevolmente, probabilmente perché ancora infiacchita, nonché distratta da quei pensieri. Il liquido contenuto nella porcellana oscillò appena oltre i margini, ma ancora una volta, prontamente, quell’uomo le sorresse la mano. La ragazza a quel punto alzò il viso verso di lui.
L’uomo fu costretto così a specchiarsi nei suoi profondi occhi blu oltremare. Un contatto visivo che durò pochi secondi, un istante forse, e nel quale la ragazza ebbe il tempo di vedere addirittura sgomento, se non paura.
Egli, infatti, discostò lo sguardo per qualche motivo, preferendo avvicinarsi verso di lei alzandosi dalla sedia, interrompendo quel contatto visivo. Sembrava non sciolto nei suoi movimenti.
 
“Forse sei ancora un po’ stanca, Alexia. Vuoi dormire ancora un po’?”
 
Chiese con una gentilezza che oramai aveva palesemente dell’anomalo.
Quel morboso interesse, quella patologica attenzione che lui aveva verso di lei, quasi come fosse la sua piccola bambola preziosa…in contrasto tuttavia col terrore di guardarla.
Era strano.
Egli le asciugò lo spigolo della bocca con la punta di un fazzoletto di stoffa, curando la sua meravigliosa Alexia, la sua potente sorella impeccabile.
In seguito le porse la mano, aiutandola ad alzarsi. La ragazza, sconcertata, non poté far altro che allungare anch’ella la sua mano verso di lui. Il vestito viola scuro ondeggiò mentre si scostava dalla sedia. I suoi lunghi guanti bianchi che la coprivano lungo tutte le braccia si posarono su quelli anch’essi bianchi di lui.
Il ragazzo così mise sotto braccio la fanciulla, ed insieme si incamminarono per il piccolo viale di pietra, dirigendosi verso il portone principale, pronto a mettere al sicuro la sua preziosa bambola nella sua teca di cristallo.
Ignara, la bionda guardò dritto dinanzi a se, mentre sempre più dubbi si affollavano nella sua mente.
Sbirciando ancora una volta verso di lui, poté scorgere la sua espressione silenziosa ed assorta.
Che anche lui fosse vittima di qualche ambiguo complotto come lei, si chiese.
Lo vide camminare lentamente, rispettoso del suo passo incerto dovuto all’intorpidimento che non voleva abbandonarla. Egli si prendeva seriamente cura di lei.
Allora perché era così ambiguo il suo comportamento? Perché aveva paura di guardarla? Cosa stava nascondendo in realtà?
Mentre salirono i pochi gradini che erano ai piedi del portone di legno massiccio, gli occhi del ragazzo scivolarono per un istante verso di lei.
Una parte di lui era altamente desiderosa di vederla in viso, ma qualcosa glielo impediva. Qualcosa chiamata razionalità, coscienza, che sapeva che non avrebbe mai visto ciò che lui sperava di vedere.
Ma oltrepassò ugualmente quella soglia, incuriosito dalla preziosa donna legata al suo braccio.
Spiò quindi verso di lei, la quale era in quel momento voltata in altra direzione. Tuttavia il cieco fato era sempre pronto a mostrare con crudeltà l’inganno che lui voleva raggirare.
Facendo per aprire il portone, infatti, le sue attenzioni non andarono sul volto di lei. Quel che si focalizzò nei suoi occhi fu altro. Qualcosa cui una persona comune non avrebbe mai dato grossa importanza.
Perché quel che egli scorse di sfuggita, fu un semplice e quasi invisibile filamento rosso che pendeva sulla spalla di lei. Un particolare marginale, ma che inesorabilmente catturò tutte le sue attenzioni, depennando tutto ciò che lo circondava in quel momento.
A quella visione, infatti, lo sguardo dell’uomo altolocato mutò drasticamente, come se quell’insignificante dettaglio avesse rovinato uno splendido quadro.
Nonostante fosse costantemente intontita, persino la “così chiamata Alexia” sbirciò anch’ella in quella direzione, ma lui la precedette, prendendo quel filo fra le sue mani, staccandolo dal tessuto del vestito sul quale era impigliato.
Quel filo che mascherava la realtà.
Quel filo che simboleggiava l’inganno costruito.
Quel filo che raggirava una solitudine repressa che l’aveva fatto soccombere alla pazzia.
 
Quel filo… che in realtà era un capello. Un semplice capello rosso.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
Qual è esattamente il momento nel quale sprofondiamo nella follia?
Spesso non siamo in grado di focalizzare quell’istante, perché esso si traccia attraverso un lento percorso… …così lento che spesso dimentichiamo quando tutto è cominciato esattamente.  O forse, semplicemente, siamo sempre stati folli. Sempre ciecamente e inconsapevolmente folli.
Ma nel nostro mondo anche la follia ha un senso. Nel mondo che solo noi abitiamo e nel quale soltanto noi sappiamo trovare le strade da percorrere.
Se solo non fossimo lasciati da soli a cercare quelle strade….
 
 
 
Il sottofondo di un triste motivetto di un antico carillon risuonava per le mura di una buia camera da letto, echeggiando senza fine, ripetendosi senza sosta, martellando quelle pareti.
L’oscurità nascondeva i perimetri di quella stanza, divorando nelle tenebre tutto ciò che la componeva.
La costruzione di un mondo buio e perfetto, di una piatta tavola nera in cui non esiste null’altro che il ricordo dei tempi che furono. Tutto può essere nascosto dal Nulla. Meglio il Buio, che la triste realtà della Luce.
Quel che in fondo non si vuole mostrare, o ricordare, può essere facilmente avvolto col manto nero dell’ombra, ma nulla può essere occultato del tutto. Perché i contorni si delineano sempre una volta abituati ad esso.
Così l’oscurità poteva nascondere chi era rifugiato in quella stanza, e chiunque avesse cercato di entrarvi avrebbe certamente arrancato a muoversi nel nero più assoluto. Ma quel che componeva quella stanza non avrebbe mai potuto sparire.
Tuttavia questo non era attualmente importante per lui. Non era suo intento sparire. Quel che gli interessava era essere proprio lì, da solo, nelle tenebre più intense, coccolato dal ricordo di quando non era solo, di quando era felice.
La porta d’ingresso era stata chiusa a chiave dall’interno, sperando di bloccare con essa anche tutto ciò che era fuori, che era estraneo a quel ricordo. Essa era stata sigillata con rabbia, con disperazione, come per nascondere il suo padrone dal resto del mondo. Un mondo crudele, sbagliato. Un mondo che lo aveva solo sfruttato. Un mondo che senza la sua Alexia non aveva alcun senso.
Solo nella sua stanza, il biondo strinse quel capello rosso che era ancora fra le sue mani. Lo strinse fortemente in un pugno di collera che scavò quasi nella sua carne.
Il luogo che lo circondava venne lentamente a delinearsi nell’oscurità.
Egli era seduto sul suo letto a baldacchino, rivestito dalle lenzuola dall’apparenza molto pregiata. Il soffitto era decorato con un affresco angelico che si distingueva a stento per i suoi colori vivaci. Posto di fronte a lui vi era un armadio di legno scuro, a fianco del quale era posta una specchiera magistralmente rifinita dalle splendide onde barocche intagliate nel legno.
Un angolo dello specchio era riuscito a inquadrare parte del viso del giovane, mostrandone le labbra marmoree, le quali stavano serrando i denti in un ghigno enigmatico per chi lo osservava.
 
“Claire Redfield….”
 
Ringhiò a denti stretti, maledicendo nella sua mente quel nome.
Il nome della donna dai capelli rossi che aveva osato invadere il suo cammino nel momento più prezioso.
Il nome dell’Infima donna che aveva sporcato l’universo Perfetto di lui e Alexia, portando scompiglio nel loro territorio.
Nel contorcimento di quei mentecatti pensieri scaturiti da chi aveva vissuto tutta la sua vita al servizio di un’unica e adorata persona, quel capello rosso rappresentava invece tutto ciò che era estraneo al suo mondo. Era un piccolo simbolo di altre verità, ai suoi occhi spregevoli e indegne delle sue attenzioni.
Tuttavia esso era gelosamente stretto fra le sue mani, in una morsa d’odio e di disprezzo, ma che trapelava un nascosto disturbo interiore.
Generava in lui un indefinibile corpo estraneo, che vagava disturbando i suoi sensi, costringendo il suo animo a serrarsi… a serrarsi sempre di più, obbligandolo ad aggrappandosi a quell’unica certezza che dava ancora un senso alla sua vita: Alexia.
Perché più il suo cuore refrigerava in quel confuso adulterio, scaturito dalla volgare e spregevole curiosità verso colei che era l’Altra Donna, più egli si aggrappava a Lei…. la sua crudele e perfetta Regina.
Perché le sue attenzioni potevano appartenere a una e una sola.
L’altra donna doveva morire.
Nonostante ciò, il disdegnato cimelio era tuttavia ancora ancorato nelle sue mani, stretto come se volesse distruggerlo. Stretto come se volesse possederlo.
Non ebbe il coraggio di disfarsene per la deviata ragione che voleva reprimere.
Ma l’oscurità poteva nascondere ogni cosa, persino i suoi reali pensieri. Lì nessuno l’avrebbe visto, o lo avrebbe rimproverato.
Quasi come se fuggisse dalla sua coscienza grazie alla discrezione del buio, custodì quel capello, segregandolo in modalità in realtà velatamente simili alla stessa donna che egli venerava.
Perché anche la stessa Alexia era stata segregata nel suo cuore, rinnegando ogni realtà a lei dissimile in suo onore e per sua fedeltà, questo fino a logorate e distruggere se stesso, costruendo una realtà in cui lei fosse davvero accanto a lui.
Lo stesso, in qualche modo, era per quel rifiutato capello rosso, di cui egli smentiva la sua identità, ma di cui allo steso tempo desiderava la sua ignobile conoscenza. Lo conservò ugualmente, come fosse uno sporco cimelio prezioso… nascondendolo egoisticamente in quella stanza conoscitrice della sua maturata follia e incolmabile solitudine.
 
 
 
***
 
 
 
Sala della Musica - mattina
Brano: Studio Op. 10 n. 3 – Fryderyk Chopin *
 
Il componimento echeggiava per il salotto, chiamato Stanza della Musica perché luogo utilizzato dagli Ashford per dilettarsi ascoltando composizioni classiche, meditando sulle loro misteriose e armoniche note fino ad abbandonarsi completamente ad esse.
Esso aveva un aspetto ricco e barocco. I colori del legno e del rosso la facevano da padrona donando a quella stanza un aspetto vivace e ingombro.
Due paia di divani dall’aspetto rigonfio erano posti gli uni di fronte gli altri, rivestiti di un tessuto a righe bordò e bianco papiro. Fra essi vi era un tavolinetto di vetro, ove erano poggiate un paio di statuine di porcellana. L’ampia e vaporosa tenda rendeva fioca la luce, e riempiva l’ambiente di una calorosa accoglienza con la sua imponente e voluminosa presenza. I tappeti rivestivano quasi interamente la pavimentazione, rendendo quella camera un piccolo gioiello prezioso, ove ovunque ci si voltasse, ci si poteva perdere nei suoi secenteschi dettagli.
Ancora una volta, accomodati insieme nella stessa stanza, vi erano le medesime figure dai capelli platinati.
Alfred Ashford e la “così chiamata Alexia”.
Tuttavia qualcosa si era spezzato.
Nonostante la soavità delle note di Chopin che risuonavano armoniosamente dal grammofono alle sue spalle, il biondo non riusciva quasi più a reggere la bambola fittizia che celava l’Altra Donna sotto il suo trucco.
Riaffiorata appena il giorno prima, la sua presenza era oramai nell’aria. Per quanto l’avrebbe ignorata, per quanto l’avrebbe camuffata e nascosta…. l’inganno non avrebbe potuto perdurare.

Perché Lei non era Alexia Ashford, la sua amata sorella.

L’unica manifestazione esterna del rifiuto categorico verso l’accettazione di quella realtà, era rappresentata dall’incessante battere del suo piede sul pavimento, che movimentava tutta la sua gamba sinistra. Le sue labbra invece erano premute fortemente contro il dorso della sua mano.
Dall’altra parte, di fronte a lui sul divano, la ragazza chiamata Alexia era assorta, immersa e alienata nell’ascoltare quella musica. I suoi muscoli erano intorpiditi, esattamente come negli altri giorni.
Si chiedeva perché tale fiacchezza non avesse mai fine. Era esausta sempre, sempre, sempre…
Oramai le veniva il voltastomaco per tutta quell’inerzia. Una straziante e sfiancante passività che la stava facendo sprofondare in un turbine di rassegnazione e dimenticanza.
Osservò il giovane di fronte a lei e sorrise mentalmente, costatando che oramai il suo esperimento andava puntualmente  a segno.
Ella infatti giocava mogiamente a cercare il suo sguardo, che prontamente rifuggiva. Un atteggiamento insolito e piuttosto contraddittorio, perché stranamente alla riverenza che lui dimostrava nei suoi riguardi, egli non osava guardarle il viso. Oppure lo faceva molto di rado, in modo spesso riservato e occultato.
‘Perché tale disagio?’, si chiedeva ogni volta, ma senza trovare la volontà di rispondersi.
Era davvero stanca… tanto stanca….
Doveva trovare una soluzione, nonostante non avesse più alcuna forza in corpo.
Nell’insofferenza e nell’intorpidimento dei suoi sensi, aveva capito da tempo che egli le stesse somministrando qualcosa per tenerla a bada. Era tutto troppo confuso e annebbiato, e l’unica cosa che poteva fare, ora come ora, era muovere a stento le braccia e le mani, o dondolare la sua testa. Ma dentro se stessa, vibrava forte la consapevolezza che doveva liberarsi, che quello era il male, che c’era qualcosa di assolutamente sbagliato, che lui non era chi diceva di essere.
Che lei non era la fantomatica Alexia.

Senza che se ne accorgesse, Alfred intanto era tornato a guardarla di nascosto, mentre la sua mente cercava sempre più di scappare da quella morbosa paura verso quella giovane donna che non era chi bramava in realtà.
La paura di ammettere quella realtà, di tornare ad essere solo….
Egli avrebbe fatto qualsiasi cosa per soppiantare tutto ciò, così cercava disperatamente le sue risposte nella figura di quella ragazza, che osava essere dannatamente bella come la sua Alexia…
Fece scorrere il suo sguardo dalla sua fronte, fino al mento, passando per i suoi occhi rotondi, per il suo naso a virgola, per la sua bocca carnosa…
I suoi occhi si abbuiarono, contorcendosi nelle sue paranoie e ossessioni incolmabili.
Perché nella sua mente era logico adorare solo e soltanto Alexia. E se la donna di fronte a sé era la sua adorata sorella, allora poteva felicemente soccombere al peccato di quell’attrazione, senza essere ferito dall’ignobile e vergognosa colpa del peccato.
Avrebbe così colmato finalmente la sua insostenibile solitudine dopo quindici anni di sofferta attesa.
Era una folle e inconcepibile soluzione che però salvava la sua mente, in realtà già in balia della pazzia.
Era forse un peccato quello di costruirsi la realtà che si preferiva credere?
Alfred Ashford non se ne sarebbe mai reso conto, cullato com’era nella consolazione di avere finalmente Alexia di fronte a se. Consolato dalla vicinanza di quel meraviglioso volto che aveva cercato in tutti i modi di rimpiazzare.
Si alzò dunque dal divano, e con passo lento si affiancò alla sua amata. La guardò estasiato, con la tenerezza negli occhi, felice di essere al suo cospetto. I suoi occhi quasi si commossero, non potendo credere di averla davvero accanto.
Desideroso del conforto che solo le sue braccia potevano dargli, egli distese la testa sulle sue ginocchia, portando le mani di lei sulla sua nuca, facendosi accarezzare dal suo lento e delicato tocco.
Sentì le sue dita muoversi fra i suoi capelli ingellati, le quali riuscirono a rasserenare le sue angosce.
Chiuse le palpebre beandosi di quel momento, appagato finalmente dopo tanta e disperata emarginazione.
Se solo Alexia non lo avesse mai lasciato solo…
Ma lui non l’avrebbe mai incolpata di nulla.
Per lei avrebbe fatto volentieri qualsiasi cosa, perfino sopportare quella tremenda ed estenuante attesa.
Adesso però che era lì, accanto a lui, poteva tornare a essere felice.
La donna dai capelli biondi intanto muoveva la sua mano sul suo capo, condizionata nell’assecondare i desideri del suo strano fratello. Incerta e confusa, stette ancora una volta in silenzio.
Fu imbarazzante e difficile per lei interpretare quel gesto, quelle pretese carezze con cui l’aveva pregata di cullarlo. Provava una strana morsa al cuore.
Chi era realmente Alexia per lui? Perché la temeva e la desiderava tanto?
Dire che fosse la sorella non era esaustivo… più di qualcosa le era ancora ignoto.
Sentiva intanto il capo di lui premere sulle sue cosce, abbandonandosi sempre di più alle sue ricercate e amorevoli cure. Sporgendosi, poteva scorgerne parte del profilo al di la degli zigomi, e il suo viso sembrava veramente disteso…come fosse in pace, avrebbe potuto osare dire.
Come se non fosse desideroso di null’altro che di quel piacevole inganno.
Questo mentre La Tristezza di Chopin continuava a produrre la sua armoniosa melodia, che si diffondeva sempre più nella stanza, irradiandosi nel silenzio tormentato delle loro menti, concentrati su quella menzogna che entrambi internamente sapevano di vivere.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
NOTE:
 
*
Lo Studio Op. 10 n. 3 - o Étude Op. 10 n. 3 , conosciuto anche con il titolo apocrifo di Tristesse o Tristezza , è una composizione musicale per pianoforte scritta da Fryderyk Chopin nel 1832.
(Font. : Wikipedia)
 
 
 
 
 
 
NdA:
Salve!^^
Grazie per aver scelto di leggere il primo capitolo di questa fan fiction, che vedrà come protagonisti Claire Redfield e Alfred Ashford. Il contesto in cui ho deciso di ambientare la storia è quello di Re: Code Veronica X, leggermente modificato in modo da creare un lasso temporale in cui svolgere la narrazione.
Ci tengo a precisare che farò riferimento solo e soltanto a re:cvx! Non terrò minimamente presente Darkside Chronicle. Faccio tale precisazione perchè tengo al fatto che il lettore abbia ben presente il contesto a cui faccio riferimento in quanto reputo che questi due giochi siano assolutamente diversi pur trattando della stessa storia. Vi annoierò ora con solo qualche piccola riga introduttiva^^:
Il mio intento, con questa storia, è quello di rendere omaggio a un personaggio molto conosciuto della saga, ma probabilmente poco approfondito come dovrebbe essere, e che mi ha profondamente affascinata ultimamente. Parlo di Alfred Ashford.
Un ragazzo enigmatico, visibilmente disturbato, succube di un mondo che l’ha reso folle. Vittima di una depressione che l’ha morbosamente attaccato alla figura della geniale sorella Alexia.
Ho scelto questo titolo, infatti, poiché riassume in pillole il rapporto di Alfred e Alexia, ove per lui la bionda è la sola donna al mondo, l’unica donna della sua vita, l’unica donna che lo comprende, la donna perfetta, la donna alla quale sacrifica la sua vita, la donna che deve proteggere, la donna che può cambiare il destino… la sua Regina. In contrasto con questo suo malato micro universo che ruota attorno ad Alexia, ecco però che farò subentrare un altro personaggio: Claire Redfield.
Claire che invece è solo una donna. Una donna che non somiglia per nulla alla sua Regina. Eppure osa essere dannatamente bella ed attraente, forte e coraggiosa….ma non può però esistere un’altra donna per Alfred all’infuori di Alexia.
Sebbene il pairing insolito, spero di riuscire a coinvolgervi e a comunicarvi il fascino di Alfred Ashford, assieme alla meravigliosa Claire Redfield. Preciso che non costituirò una AfredxClaire nel vero senso della parola, ma voglio sicuramente provare a stuzzicare e a perseguitare un po’ la mente del biondo.
Se durante tutta la vicenda riuscirete a sentire la follia e il tormento che alberga nelle mura del Castello Ashford, allora sarò riuscita nel mio intento! ^^
 
Al momento è tutto! Spero che la lettura sia stata piacevole! ^^
Rendetemi partecipe dei vostri pensieri, mi raccomando. Le recensioni sono il carburante dello scrittore, e conoscere i vostri pareri mi sosterrà e mi aiuterà moltissimo alla costruzione di questa storia! ^o^
 
Un ringraziamento speciale va a mia sorella, la mia sempre prima sostenitrice, che mi ha spinta a cimentarmi in questa scrittura; e alla mia amica Astarte90, che mi ha caricato e dato tanta, tanta motivazione!! *O*
Grazie ragazze!!!!! Questa fic è dedicata a voi!
 
A presto,
Fiammah_Grace
 
 
Ps: A proposito! Se voleste votare Alfred e Alexia nell’elenco dei personaggi che devono essere aggiunti alla categoria di Resident Evil, ve ne sarei davvero grata. ^^
 
  
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