1.
A giant’s at the door in amazement
«Salute,
dama Erin!»
L’irlandese
allontanò le labbra dal flauto e sorrise affabile ai cortigiani che dal basso
la guardavano rispettosi, le mani alzate in segno di saluto.
«Salute a
voi, signori.» rispose loro; «Mi auguro che la mia musica non vi disturbi.»
Gli
asgardiani scossero la testa quasi all’unisono:
«Giammai,
altezza. È un piacere udire le vostre note nell’aria.» garantirono, e per
quanto tutto ciò rientrasse nei rituali di cortesia della gente di corte Erin
capì che erano sinceri. Dopotutto nemmeno gli Æsir avrebbero storto il naso di
fronte all’Entracte della Carmen, e lei eseguiva quel pezzo con
grande gusto, si disse.
Il
gruppetto di dignitari s’inchinò e la giovane donna li osservò andar via dall’alto
della sua postazione, ancora sorridente: essere trattata con tale deferenza era
oltremodo piacevole – bizzarro, specialmente all’inizio, ma piacevole. Le
comunicava una netta sensazione di potere, le rammentava che tutto era reale,
forse addirittura la rassicurava.
Su
Midgard era passato quasi un anno da quando Thanos era stato sconfitto e lei,
la musicista di Galway, era divenuta la prima nuora del Padre degli Dei; in
Irlanda e a Boston era inverno inoltrato, adesso, un febbraio di vento secco e
irrequiete nubi grigie, e l’aria gelida le pungeva le guance ogni volta che la
cascata iridescente del Bifröst la depositava sulla Terra.
Ad
Asgard, invece, soltanto le cime dei monti lontani erano imbiancate. Il Reame
Eterno non conosceva una vera e propria stagione fredda, benché da qualche
tempo le ancelle avessero tirato fuori dai guardaroba sontuose pellicce e
pesanti coperte di lana e broccato e fosse gradevole stare seduti vicino ai
braceri bevendo vino caldo.
Erin
aveva scandito il trascorrere del tempo con le proprie visite sul pianeta che
l’aveva vista nascere, che fosse da sola o col marito, per lavoro o per
diletto.
Fare la
pendolare usando il Ponte Arcobaleno si era rivelato assai meglio del muoversi
in treno o autobus: il segreto era abituarsi a quell’assurdo viaggio tra i
mondi e tenere a bada lo stomaco. Heimdall le riferiva puntualmente le
comunicazioni della sua famiglia e degli amici orchestrali, e lei rideva sempre
nell’immaginarsi sua madre o Sylvia che cercando di non dare nell’occhio gridavano
al cielo i propri messaggi, qualunque essi fossero. C’erano stati altri
concerti, il suo compleanno che cadeva d’agosto, le festività natalizie e
quelle per l’anno appena iniziato, e altrettanti erano stati gli impegni
asgardiani: banchetti, cerimonie, ricevimenti con ambasciatori provenienti da territori
più o meno leali a Odino, allegre scorrerie in compagnia del suo roboante
cognato e dei suoi compari – e tutti i giorni e tutte le notti che viveva al
fianco del suo amato, intrigante sposo.
Eppure
non era accaduto niente di particolare, non ancora. Sembrava voler pazientare,
il principe suo consorte, e studiare e ponderare sopra molte cose prima di
mettere in pratica qualsiasi mossa, prima di elaborare nuovi piani. Non che a
Erin dispiacesse quella pace, ma sapeva che lo avrebbe seguito ovunque e
comunque, quando fosse giunto il momento.
La brezza
fece frusciare gli spartiti sul leggìo di legno che aveva di fronte e
l’irlandese scrollò le spalle, riavvicinando lo strumento alle labbra e
tornando a concentrarsi sulle note.
Loki
guardò la sagoma della moglie appollaiata sul balcone di una delle alte torri
del palazzo, il lucore argenteo del flauto ben distinguibile tra le sue mani, e
rise appena. La donna d’Irlanda era rimasta sfrontata e sicura di sé, come a
lui piaceva, e l’irriverente garbo con cui si rapportava alle genti del regno
gli dimostrava che non era affatto cambiata.
«La tua
giovane signora si è abituata in fretta alla vita di Asgard.» disse una voce
pacata alle spalle del dio: Odino era entrato nella stanza, vestito con abiti
informali, e raggiunse il figlio alla finestra per godersi il sole del
meriggio; «Grande è invero la sua tempra.»
«Lo so.»
annuì Loki con una certa, compiaciuta ovvietà. «Hai messaggi per me, padre?»
«Solo di
rammentare il banchetto di questa sera. L’inverno sta finendo ed è tempo di
festeggiare.» replicò il re sorridendo, e toccandogli una spalla si congedò.
Il Dio
degli Inganni distolse lo sguardo dalla figura lontana di Erin e fissò lo
scintillìo d’acqua e oro che si apriva sotto di lui. Era placido, indolente, e
così lui si sentiva – ed era insolito, eppure da circa tre stagioni sentiva che
era giusto non avere fretta, e osservare, e comportarsi come tutti si
aspettavano da colui che, risorto dalla propria rovina, li aveva salvati.
Sapeva
che la sua sposa aveva iniziato a scalpitare, chiedendosi quando l’avrebbe
finalmente messa a parte di rinnovate, esaltanti idee di conquista, ma sapeva
anche che quando si ha l’eternità dalla propria non si ha motivo di correre:
aveva compiuto abbastanza azioni avventate, in passato, e raramente gli avevano
giovato. Era pur vero che l’eternità non riguardava l’irlandese, rammentò, e
nonostante questo riteneva che essere nell’universo da ventisette primavere
terrestri fosse un tempo sufficientemente breve da permetterle di restare con
lui per molti altri anni ancora.
La
morbida melodia suonata da Erin gli giunse tremolante alle orecchie attraverso
l’etere limpido, e al contempo un sentore completamente diverso gli punse la nuca:
era gelido, strisciante e appena accennato, e sembrava provenire dal buio di
quei sentieri tra i mondi noti a lui soltanto. Dopo le infauste vicissitudini
causate dal Folle Titano aveva ritenuto saggio bloccare la maggior parte dei
segreti ingressi alla Dimora degli Dei, tranne quelli che avrebbero potuto
servirgli; erano pochi, giusto un paio, e strategici, e in quei mesi non ne
aveva mai fatto uso né vi aveva colto segnali che potessero preoccuparlo. In
quei mesi, fino a quel preciso momento. Molto probabilmente non si trattava di
alcunché di allarmante o minaccioso, e tantomeno di allettante, vantaggioso per
lui, ma doveva controllare.
Così si
allontanò di malavoglia dalla grande finestra affacciata sul cielo, gettando
un’ultima occhiata al punto distante e luminoso dove la donna d’Irlanda si
trovava, e senza fretta si avviò lungo i corridoi ombreggiati della reggia. Il
velluto verde del giustacuore che indossava gli frusciò sulle gambe nello
scendere le innumerevoli scale che conducevano ai piani inferiori: era diretto
alle sale riservate ai suoi studi, dove conservava tomi e cimeli preziosi al
pari di quelli compresi tra i tesori di Odino e da dove avrebbe potuto
intercettare qualunque essere o cosa si stesse avvicinando, poiché era da lì che
le sue vie nascoste si dipartivano.
Nessuno tra
dame e cortigiani gli domandò dove stesse andando, impegnati com’erano coi
preparativi del convito serale; s’inchinarono e basta, nell’incrociarlo, e il
principe scivolò oltre con altera concentrazione.
La stanza,
ampia e lunga, era immersa nel silenzio, e perfettamente immota.
Loki
lasciò accostata un’anta della grande porta ricca d’intarsi che ne delimitava
la soglia, certo che nessuna guardia si sarebbe arrischiata ad avvicinarsi
senza essere chiamata, e avanzò fino all’unica parete cieca del salone. Il
chiarore del giorno prossimo a calare filtrava dai trafori di marmo e ottone
che chiudevano le alte monofore, e lui ne calpestò il disegno sul pavimento
lucido quasi senza fare rumore. Superò tavoli e scaffali carichi di libri e
oggetti dalle molteplici forme che si confondevano nella poca luce, e quando
raggiunse il fondo del locale pose una mano sul muro fresco e liscio,
tastandolo; quindi socchiuse le palpebre e prese a mormorare parole che da
tempo non pronunciava, dall’ultima volta in cui aveva concesso ai Giganti di
Ghiaccio di penetrare ad Asgard.
Il
pensiero degli jotun lo colpì, scioccamente: il sentore gelido che gli aveva
solleticato la nuca una manciata di minuti prima era sempre lì, e si faceva più
intenso.
La voce
gli crebbe nell’enunciare le sillabe finali della formula e con le dita
premette appena sulla pietra, allontanandosi di un passo – e sulla parete si
delineò una fenditura dai contorni danzanti, una sorta di stretto uscio aperto
su stelle e oscurità che vacillavano e svanivano a tratti. Qualcuno allora si
fece avanti attraverso quel nulla, titubante e forse sorpreso, e il Dio degli
Inganni distinse una robusta creatura dalla pelle cerulea coperta da una
leggera armatura di cuoio scuro. Un manto di pelliccia gli pendeva dalle spalle
e una corta daga dal fianco sinistro, e le sue iridi sanguigne lo fissavano
prive di astio.
«Credevi
di passare inosservato, Gigante?» lo apostrofò Loki, aspro. Se non fosse stato
per lo strano sguardo dell’altro non si sarebbe fermato a parlare, si disse. Il
disprezzo che provava nei confronti delle genti di Jotunheim gli arroventava
già le viscere, eppure qualcosa nello jotun che aveva di fronte lo incuriosiva
in maniera quasi malsana.
«Credevo
che avrei faticato a trovarti, principe.» fu la risposta.
«Io non
ho faticato a trovare te. Non sai che
la strada che hai percorso è sotto il mio controllo? Quale stolto motivo ti
spinge a cercarmi qui, nella casa degli Æsir, con tanta sfrontatezza?»
Il
Gigante si avvicinò, abbandonando la zona d’ombra, e l’asgardiano notò che i
tratti del suo volto, per quanto spigolosi, erano nobili e armonici, adatti
all’età non avanzata che dimostrava di avere. Gli rammentava qualcuno, ma d’altronde
quegli esseri erano tutti simili tra loro.
«Per
vederti, conoscerti. Per convenire con te.» replicò l’intruso, e quella che
sembrava una totale assenza di propositi ostili nei suoi modi e nel suo tono
indusse il dio a rimanere fermo dov’era, arrovellandosi sull’enigma vivente che
stava fronteggiando.
«Chi sei,
Gigante?» sibilò.
«Býleistr
è il mio nome, principe.» l’altro dichiarò, e un lieve sorriso gli si dipinse
sulle labbra sottili: «Býleistr, figlio di Laufey.»
Note
Salve salve salve. Avevo promesso che il Duo degli Inganni sarebbe presto
tornato, ed eccoveli qui!
In realtà il mio piano originario prevedeva che iniziassi la pubblicazione
di questa seconda storia soltanto dopo averla finita di scrivere, ma ho dovuto
cambiare idea: il fatto è che più ne sappiamo (o non ne sappiamo) su The Dark
World e più noto certe inquietanti coincidenze tra le mie trovate e quelle
che sono o potrebbero essere quelle della Marvel. Ergo, per quanto tele(s)pa(s)tici
possiamo essere io, Taylor, Feige e compagnia bella, ho ritenuto opportuno dare
alle stampe la mia opera prima che il film esca, anche se con il film non ha
davvero niente a che spartire.
E visto che s’inizia col botto… beh, Býleistr è un personaggio esistente
nella mitologia norrena. Altro non dirò ;)
Precisazione importante numero Uno: per ragioni di
continuità, e visto che comunque entrambe le mie storie si inseriscono sulla
scia della linea narrativa degli Avengers,
ho inserito anche questa nella sezione a loro dedicata, sebbene sia di stampo
ben diverso dalla prima e molto, molto più asgardiana. Se trovate che ciò violi
le regole del sito la sposterò.
Precisazione importante numero Due: se siete giunti
qui senza leggere la Majestic Tale
bisogna che rimediate, o vi sarete persi tutta la vicenda primigenia che ha
portato Erin e Loki a conoscersi e tutto il resto. Anche se questo significherà
leggere la suddetta Majestic con un
notevole spoiler sulle spalle. Pardon!
Il titolo Kill the Irishwoman! è
una citazione del titolo del film Kill
the Irishman di Jonathan Hensleigh, e se vi sembra che non prometta niente
di buono non vi resta che proseguire la lettura.
Il titolo del capitolo è invece un verso di Soul wars degli Awolnation. E come ‘ouverture’ musicale consiglio Shock to the system di Billy Idol, che
sarà anche uno dei brani portanti di tutta l’avventura.
Bene, a questo punto non mi resta che incrociare l’incrociabile, sperare
che vi piaccia/intrighi/incuriosisca e darvi appuntamento al prossimo capitolo,
presumo tra una settimana. Attendo responsi :)
Ossequi asgardiani, signore e signori!