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Autore: vannagio    02/10/2013    11 recensioni
Fossi nato femmina, sarebbe stato mille volte meglio. Ti avrei chiamato Bree come quella santa donna di mia zia e ti avrei fatto sposare un uomo molto ricco.
[Dedicata a fila, che oggi compie gli anni. Tantissimi auguri!]
[Terza classificata al contest "I love you, brother!" indetto da EmmaStarr sul forum di EFP]
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Elivelivolo e dintorni '
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Per la serie…
“Quando vannagio vaneggia!”







Dedicata a Fila, per il suo compleanno.
Tantissimi auguri!




La zia Bree




Maggio, 1986

Scoprii il vero significato della parola sbagliato in un tiepido pomeriggio primaverile.
Stavamo giocando a Luce Rossa/Luce Verde nel giardino di Mike. Dio, quanto odiavo quel gioco! Avevo dieci anni e le gambe troppo corte per tenere testa a uno spilungone come mio fratello Jefferson. La verità è che non sono mai stato un granché come atleta, quello dotato in famiglia era Jeffy. “Sì, moooolto dotato”, direbbe lui ammiccando.
«Luce Verde!», urlò Mike col viso rivolto al tronco di un albero.
Scattai in avanti il più velocemente possibile. Ricordo come se fosse ieri l’aria che entrava a forza nei polmoni, le lacrime che punzecchiavano gli occhi per il dolore ai polpacci e la zazzera rossa di Jefferson sempre davanti a me, sempre troppo lontana.
«Luce Rossa!».
Mike si voltò all’improvviso. Nel tentativo di fermarmi in tempo, persi l’equilibrio e caddi carponi per terra sollevando una nuvola di polvere. Jefferson invece era in piedi, perfettamente immobile, una statua di sale che sorrideva. Aveva sempre il sorriso sulle labbra lui, ma il sorriso si faceva più largo se c’era Mike.
«Truman, torna al punto di partenza», sentenziò Mike.
«Uffa, cambiamo gioco, a questo perdo sempre!».
Jefferson mi afferrò per la collottola della T-shirt, mi rimise in piedi come un soldatino di piombo e mi diede un buffetto sulla testa.
«Non fare il guastafeste, fiorellino».
«Devi smetterla di chiamarmi così!».
Jefferson sapeva fin troppo bene che quel soprannome mi faceva infuriare (una volta lo avevo colpito al ginocchio con la sua pistola giocattolo e aveva zoppicato per due giorni), quindi lo usava di continuo. Ero stato ribattezzato fiorellino, dopo essere tornato a casa con una begonia della zia Bree tra i capelli ed aver esclamato “Sono il principe dei fiori!”. Mio fratello aveva riso fino alle lacrime, mio padre invece non aveva riso per niente, in compenso aveva ordinato alla tata di rasarmi a zero. Jefferson dice che è colpa di quella begonia, se adesso porto i capelli lunghi.
«Smetto di chiamarti così, se torni al punto di partenza».
Sbuffai, ma obbedii.
«Luce verde!».
Non ci provai nemmeno a correre. Jefferson invece era già sfrecciato via, veloce come il vento. Arrivò alle spalle di Mike e dopo aver picchiato il pugno contro il tronco dell’albero, esultò: «Ho vinto!». Fece voltare Mike e lo baciò.
Sulla bocca.
Avevo dieci anni e le gambe corte, ma un bacio tra due amici era la cosa più normale del mondo per me. Si volevano bene, che c’era di male? La mia migliore amica si chiamava Sadie e ogni tanto sentivo il bisogno di darle bacetti sulla guancia. Mike era del mio stesso avviso evidentemente, perché liquidò la faccenda con uno spintone, un «Che fai, scemo!» e una risata.
Il padre di Mike non aveva dieci anni come me, però. E nemmeno tredici, come Jefferson e suo figlio.


«Come ti è saltato in mente di fare una cosa del genere?».
Jefferson fece spallucce.
«Non lo so, papà. Ero felice perché avevo vinto. E la bocca di Mike era talmente graziosa che non ho resistito!».
«Graziosa? GRAZIOSA?».
Avevo dieci anni e le gambe corte. Ero costretto ad arrampicarmi per sedermi sulla poltrona vittoriana della sala Jefferson (da Jeffy soprannominata Sala Delle Ramanzine). Mio padre non era ancora stato consumato dal cancro e per guardarlo in faccia dovevo tenere il naso all’insù.
«Esattamente, papà».
Come al solito, Jefferson sorrideva. Ora che ci penso, non ricordo di averlo mai visto piangere. Serio e concentrato sì, ma triste fino alle lacrime mai. A mio padre dava sui nervi vederlo sempre col sorriso sulle labbra senza un motivo preciso. Probabilmente Jefferson lo sapeva, per questo ogni scusa era buona per sorridere.
«Graziosa un paio di palle! È sbagliato! Un vero McCallan non bacia i maschi, un vero McCallan bacia solo le femmine».
«Ma… papà!». Il tono di Jeffy era quella di un bambino capriccioso che non vuole mangiare gli spinaci. «A me fanno schifo le ragazze!».
Mio padre si alzò in piedi. E il mondo ammutolì.
Deve essere imparentato con un gigante, pensai. Chissà come mai le mie gambe sono così corte, invece.
«Tu. Sei. Mio. Figlio. E devi comportarti come tale, sono stato chiaro? Non vedrai. Mai più. Mike. Anche perché dubito che suo padre te lo permetterebbe».
Pure Jefferson si era alzato in piedi. E non sorrideva più. Fissava mio padre dritto negli occhi, senza dire nulla. Nel vederli l’uno di fronte all’altro, alti, fieri e cocciuti come muli, non potei fare a meno di pensare: Jefferson ce l’ha eccome, il sangue di gigante.
«Sì, volevi dire qualcosa?». Il silenzio che seguì la domanda sprezzante di mio padre spaccava i timpani. «No, come sospettavo, perché non hai le palle. Sono stato di polso fin troppo debole con voi, ecco qual è il problema, ma da adesso in poi le cose cambieranno in questa casa».
Detto fatto.
L’indomani mio padre ci portò in una palestra di boxe. E il giorno dopo in una di karate. E il giorno dopo ancora in una di judo. E di kickboxing. E di qualsiasi altro sport tipicamente maschile esistente sul pianeta. Avevo dieci anni, le gambe corte e un’indole tutt’altro che competitiva. Quelle attività forzate erano per me mille volte più odiose del gioco Luce Rossa/Luce Verde. Quando andai nella Sala Delle Ramanzine promettendo che non avrei mai e poi mai baciato un maschietto, giurando che l’unica che volevo baciare fosse Sadie, mio padre decise che potevo essere esonerato dal programma Trasformare I Miei Figli In Uomini Veri.
Con Jefferson le cose andarono in maniera leggermente diversa, invece.



Ottobre, 1998

«Come esecutore testamentario di vostro padre, ho il dovere di rispettare le sue disposizioni, perciò vi chiedo scusa in anticipo per quello che vedrete a breve. Tengo a precisare che non ho mai condiviso le decisioni del Signor McCallan, ma ahimè non faceva parte delle mie mansioni muovere obbiezioni».
Truman si mosse a disagio sull’antica poltrona vittoriana. La ricordava più alta e più larga.
«Non promette nulla di buono».
Ma almeno spiegava molte cose. Come mai, ad esempio, l’avvocato Slave avesse chiesto loro di incontrarlo nella villa coloniale di famiglia, quella in cui non abitava più nessuno da quando suo padre si era ammalato. E come mai li avesse ricevuti proprio nella sala Jefferson, la Sala Delle Ramanzine, quella che nell’epoca d’oro della famiglia McCallan veniva usata dai suoi antenati per le udienze. E come mai alle spalle dell’avvocato ci fosse uno schermo da cento pollici, quello che Truman non avrebbe potuto permettersi nemmeno tirando la cinghia per mille vite. Suo padre non lasciava mai nulla al caso, nemmeno dopo aver tirato le cuoia.
«Non ti preoccupare, pan di zucchero», intervenne Jefferson, ammiccando in direzione dell’avvocato. Al contrario di Truman, con indosso quell’elegantissimo completo scuro d’alta sartoria, suo fratello sembrava esserci nato sull’antica poltrona vittoriana. «Ambasciatore non porta pena, lo sappiamo. Fai partire ‘sto video e togliamoci il pensiero. Tra un’ora devo prendere un aereo».
Il collo dell’avvocato si incendiò, tanto era diventato paonazzo, e le fiamme si propagarono rapidamente sulle guance. Dopo essersi schiarito un paio di volte la voce, aver fatto cadere una cartelletta e sparso fogli ovunque, finalmente rintracciò il telecomando tra le scartoffie e premette il tasto play. Truman spiò di sottecchi Jefferson, che non stava facendo assolutamente nulla per nascondere il sorriso da gatto goloso.
Lo schermo gigante si illuminò. La gigantografia del viso arcigno, polveroso e incartapecorito di suo padre comparve all’improvviso, incombendo su di loro come un rapace dal becco adunco sul suo trespolo.
«Mamma mia, il regista è un cane!», commentò Jefferson.
L’avvocato tossì per nascondere una risatina poco professionale.
«Io, Jefferson Abraham McCallan II, nel pieno possesso delle mie facoltà mentali, vi annuncio che sto per crepare», gracchiò il primo piano di suo padre. «Sto per crepare senza un erede che sia degno di questo nome e non c’è modo peggiore per andarsene. Anche questo mi avete tolto, il conforto di una morte serena. Dovreste vergognarvi! L’unica cosa che mi consola in questo momento è sapere che brucerete all’inferno per quello che mi avete fatto passare. Soprattutto tu!». Una pioggia di goccioline tempestò lo schermo dall’interno, mentre un dito lungo, nodoso e grigio come un ramo secco veniva puntato contro di loro. «Tu, Jefferson Abraham McCallan III, che insudici il mio nome con i tuoi comportamenti immorali e indecenti. Né donna, né uomo. Fossi nato femmina, sarebbe stato mille volte meglio. Ti avrei chiamato Bree come quella santa donna di mia zia e ti avrei fatto sposare un uomo molto ricco. Io ti rifiuto. Mi hai sentito? Non sei più mio figlio! Ti disconosco, ti ripudio!».
Jefferson sbuffò. «Questo film l’ho già visto, mi sto annoiando».
«Non vedrai un centesimo dei miei soldi. Ehi, tu, lì dietro, stai registrando, vero?». Probabilmente ricevette una risposta positiva, perché il suo naso adunco tornò subito a sfiorare lo schermo. «Lascio tutto a quel pusillanime mangia-verdura di tuo fratello. La cosa non mi alletta, Jeffy». Storpiò il nome con una vocetta leziosa e l’espressione di chi si ritrova la lingua incollata al palato da una caramella appiccicosa e stantia. «Ma meglio così, che saperli sperperati per comprare froci da impalare. Truman Franklin McCallan IV, è tutto tuo. Non mi aspetto molto da te, sei una delusione tanto quanto l’altro, ma se il salto generazionale non è una stronzata, forse il frutto dei tuoi lombi sarà un vero McCallan e allora la nostra famiglia potrà ritenersi salva». Suo padre pensava davvero che non avrebbe diviso l’eredità con… «E non credere che non sappia cosa stai pensando, sai? Mi sono occupato anche di questa eventualità, l’avvocato potrà confermare le mie parole». Truman lanciò un’occhiata perplessa a Slave, che si allargò il nodo della cravatta in un gesto inequivocabile di colpevolezza. «C’è una clausola nel testamento: se proverai a cedere metà dell’eredità a… Jeffy, perderai tutto. E il denaro finirà in beneficenza». Un ghigno malefico si aprì su quello che ormai era solo un teschio foderato da pelle raggrinzita. «Ho il cancro, ma non sono ancora rincoglionito, Truman. Bene, ho detto tutto. Adesso puoi tornare a farti fottere, Jeffy. Ehi, tu, lì dietro. Puoi staccare ora. Hai staccato? STACCA, IDIOTA!».
Lo schermo si oscurò.
E Truman boccheggiò.
Jefferson invece si alzò in piedi e batté le mani con l’entusiasmo di un bambino al parco giochi.
«È stata un’esperienza istruttiva!».
«Jefferson, io…».
Lui agitò la mano come per scacciare una mosca fastidiosa.
«Non ti preoccupare, fiorellino. Non mi aspettavo nulla di diverso. Sono contento che abbia lasciato il malloppo a te. Adesso che hai piantato il tuo semino, ne hai bisogno. Io invece… hai sentito la cornacchia, no? Parafrasando, sono uno spirito libero, quei soldi non mi servono».
Truman scosse la testa. «Non è questo il punto, è una questione di…».
«Promettimi solo una cosa, okay?», lo interruppe Jefferson improvvisamente serio. «Usa la mia parte per costruire la serra dei tuoi sogni. Fallo in onore della tua sorellona, intesi?». Truman si lasciò abbracciare, troppo intontito per dire qualcosa di senso compiuto. Quando finalmente si riscosse, Jefferson era tornato la spensieratezza fatta checca e stava già stringendo la mano dell’avvocato. «È stato un piacere, Signor Slave».
Slave annuì, poi aggrottò la fronte nel trovarsi un verdone in mano.
«Ma… e questo?».
Jefferson fece spallucce e ammiccò.
«Oh, niente. Sto solo… com’è che ha detto, la cornacchia? comprando froci da impalare!».
Sotto lo sguardo amaranto dell’avvocato, Truman scoppiò a ridere.


«Non c’è niente che possa dire per convincerti a rimanere? Fatti invitare a pranzo, almeno. Se Iris scopre che ti ho permesso di andare via senza lottare, mi ammazza. Dobbiamo anche trovare un modo per impugnare il testamento, non penserai che mi arrenda così, vero?».
Jefferson roteò gli occhi. «Oh, mamma, falla finita, Truman!».
Raffiche di aria gelida curvavano i cipressi del viale alberato di fronte a loro. La villa coloniale di famiglia era un mausoleo abbandonato e sinistro sotto il cielo grigio. La zazzera rossa di Jefferson era schiacciata tutta su un lato, come la corolla ammaccata di un giglio rosso. Truman si alzò il colletto del cappotto per proteggere il viso dagli schiaffi del vento.
«Scusa, fiorellino, non volevo fare l’isterica». Jefferson gli diede un buffetto sulla testa per fare pace. «Mi piacerebbe tanto rimanere a fare due chiacchiere, ma non posso far tardi. Nel mio settore le prime donne sono mal tollerate, anche se sono belle come una diva del cinema. E poi urge un cambio d’abito. Questo, per quanto mi renda uno schianto irresistibile, non è appropriato».
Il sorriso di Jefferson era abbacinante. E quando sorrideva in quel modo non c’era modo di fargli cambiare idea. Truman sospirò sconfitto.
«Mi abbandoni un’altra volta, insomma».
«Sì, ma questa volta ti lascio con un mucchio di verdoni da usare come fertilizzante per le piante. Mica male, no? E poi… cosa dico sempre prima di partire? Il consiglio da sorellona maggiore, te lo ricordi?».
Truman lo abbracciò di slancio e strinse con tutte le sue forze, come se questo potesse impedirgli di andarsene. Era tornato il ragazzino impaurito di tanti anni fa, il labbro spaccato che pulsava e un mazzo di begonie sparse per terra.
Jefferson rise. «Lo prenderò per un sì».
«Sta’ attento, torna tutto intero», disse Truman, tirando su col naso.
«Va bene, adesso basta, però. Altrimenti mi sporchi il cappotto di moccio. Guarda che ti mando il conto della lavanderia, tanto ora te lo puoi permettere». Jefferson sciolse dolcemente l’abbraccio e guardò Truman dritto negli occhi. «Sarò di ritorno per la nascita di tuo figlio. Non esiste che un nuovo McCallan venga presentato al mondo senza prima aver conosciuto la zia Jeffy. O forse dovrei dire la zia Bree? Suona bene, non trovi?».
«Non dire cazzate, è orribile!».



Gennaio, 1990

Non ho mai conosciuto mia madre, è morta quando avevo poco più di tre anni. Dato che mio padre non amava parlare di lei e che io non ero così sprovveduto da fargli domande, quel poco che so lo devo a Jefferson. Col piccolo inconveniente che mio fratello aveva sei anni quando lei venne a mancare, quindi non fu di certo una fonte attendibile per me. Però chi si accontenta gode, si dice.
«Jeffy, com’era la mamma?».
«Si chiamava Julianna. Aveva i capelli rossi, come i miei. E adorava le begonie, come la zia Bree».
La storia dei capelli rossi mi infastidiva un po’. Anch’io volevo qualcosa in comune con la mamma, ma più mi guardavo allo specchio più vedevo il naso di mio padre, gli occhi di nonna Bridgette e il mento di quell’antipatico del prozio Fillmore Zachary. Capii che dovevo arrangiarmi.
Fu così che cominciai a coltivare le begonie.
E prima che me ne rendessi conto, il desiderio di trovare un legame con mia madre si trasformò in una vera e propria passione per i fiori e le piante in generale. Certo, frequentare una costosa e prestigiosa scuola privata il cui piano di studi comprendeva anche un corso di botanica aveva contribuito non poco. Peccato che la mia vita studentesca non fosse tutta rose e fiori.
«Ehi, frocetto, cosa devi farci con quelli? Le coroncine di fiori per te e la tua sorellina?».
La serra nella quale si teneva il corso di botanica si trovava vicino al campo di football. E Jefferson aveva una certa… fama tra i giocatori di football, una fama che ovviamente si estendeva per parentela anche a me. Dio, che periodo di merda quello del liceo! “Invece io mi sono divertito un sacco”, direbbe Jeffy, ovviamente.
«Ragazzi, non voglio problemi, okay? Devo solo portare queste begonie a…».
«...al tuo fidanzatino?».
I due energumeni dell’ultimo anno scoppiarono a ridere come coyote ubriachi. Uno di loro mi diede uno spintone, mandandomi spalle a muro, e subito venni accerchiato.
«Allora, dimmi, tutti i McCallan sono bravi a succhiare?».
«Non saprei, perché non chiedi a mio fratello? L’esperto è lui. Ah, lo so, perché no. Ti pisci addosso al solo pensiero!».
Una raffica di pugni arrivò prima di quanto mi aspettassi: guancia, mento, stomaco, stomaco. Mentre finivo sparpagliato per terra un po’ qua e un po’ là insieme alle mie begonie, fui certo di sentire il din din din che segnava la fine dell’incontro di boxe.
«Adesso non fai più lo spiritoso, vero, frocetto?».
Due paia di scarpe sportive e griffate erano già pronte a colpire, quando uno sparo squarciò l’aria. Uno dei due energumeni cascò per terra come una pera cotta per lo spavento. Un berretto degli Atlanta Falcons si accasciò poco più in là, con un foro bruciacchiato che lo attraversava da parte a parte.
«Quello è mio fratello e mio fratello lo picchio solo io!», disse una voce fin troppo familiare.
Tamponai con la manica della felpa il sangue che colava dal labbro spaccato e mi misi faticosamente a sedere. A qualche metro di distanza da dove mi trovavo, c’era mio fratello. A gambe divaricate, sfoggiava un sorriso abbacinante e teneva sotto tiro il bullo ancora in piedi col fucile del tiro a piattello (sì, il programma Trasformare I Miei Figli In Uomini Veri non si era ancora concluso per Jeffy).
«Perché non ve la prendete con una checca della vostra taglia?». Il sorriso di Jeffy si trasformò in un ghigno. «Forse perché l’ultima volta che ci avete provato vi ho fatto il culo a strisce? Quando è stato? Tre, o quattro anni fa?».
«Vaffanculo, frocio!», sputò il bulletto.
«Ma che modi sono questi, Kevin-caro! L’altro giorno, nel capanno degli attrezzi, quando mi imploravi di farti mio, eri così carino ed educato, cosa è successo?».
«STAI ZITTA, PUTTANA!».
Jeffy smise di sorridere e caricò il fucile.
«Vedi di moderare il linguaggio, coglione. Ho un fucile e so come usarlo. E no, non sto parlando di quello che ho nei pantaloni. Che comunque so maneggiare altrettanto bene, come tu ben sai».
«Kevin, andiamo, non ne vale la pena», disse l’amico, raccogliendo il berretto da terra e mettendosi in piedi.
Kevin esitò ancora per qualche istante, ma il fucile di Jeffy non dava segno di cedimento e alla fine i due preferirono dileguarsi come ombre. Jeffy scosse la testa, con espressione evidentemente delusa, poi si caricò il fucile sulla spalla e mi porse la mano. Feci finta di non vederla e mi alzai da solo.
«Prego, fiorellino. Non c’è di che».
«Non rompere, Jeffy. Non è il momento».
Sollevai un piede e vi trovai sotto una delle mie begonie, piatta come carta velina. Mi morsi la lingua fino a sentire il gusto ferroso del sangue in bocca.
«Se avessi frequentato qualche corso di autodifesa come me…».
«Cosa? Non avrei problemi con i bulli?».
«Esatto, fiorellino. Non capisco poi che cazzo c’entrino i fiori con i froci. Capirei se il tuo hobby fosse coltivare cetrioli, ma i fiori? Lo sanno tutti che simboleggiano la vagina!».
«Chiudi il becco, Jefferson!». Ero furioso. Ricordo il formicolio alle mani e il desiderio di prendere a pugni qualcosa, magari la faccia di mio fratello. Peccato che se ci avessi anche solo provato, sarei finito di nuovo a mangiare la polvere. «Il mio problema non sono i fiori. E nemmeno i corsi di autodifesa che non ho frequentato».
Jefferson inarcò un sopracciglio. «Ah, no?».
«No!», esclamai, andandogli sotto a muso duro. «Il mio problema sei tu, razza di finocchio! Non possono picchiare te, quindi se la prendono con me. Perché non posso avere un fratello normale, eh? Perché mi sei dovuto capitare tu? Che ho fatto di male? TI ODIO!!».
Il sopracciglio di Jefferson era ancora inarcato.
«Tutto qui? La scena madre da Drama Queen è già terminata?».
«Vai a farti fottere!».
«Sì, tra un po’. Devo incontrare un certo Oliver Baston dell’ultimo anno. Spero tanto non sia un caso di pubblicità ingannevole, tu lo conosci?».
Lo mandai al diavolo e scappai via prima di prenderle.


Se c’è una cosa che ho imparato in tutti questi anni è che ogni azione ha una conseguenza. E le conseguenze di quel pomeriggio furono catastrofiche. Kevin non aveva gradito come si era concluso lo scambio di opinioni con mio fratello, così aveva raccontato l’accaduto ai suoi genitori. Romanzando abbondantemente, ovvio.
«Ha detto che ho cercato di… Ti rendi conto? Se penso che per poco non ha ridotto la mia camicia a brandelli in quel capanno… La camicia Armani, capisci? Tu lo sai quanto costa, no? E sarei io quello che aggredisce sessualmente la gente?». Jefferson scosse la testa, moderatamente affranto, come se l’argomento di discussione fosse l’acquazzone che aveva rovinato il suo picnic con Oliver. «Comunque sia, papà non l’ha presa malissimo, pensavo peggio».
Quello che era successo nella Sala Delle Ramanzine aveva dell’incredibile. Nostro padre era rimasto in silenzio per l’ora più lunga della mia vita, alla fine della quale si era alzato dalla scrivania d’ebano e con gli occhi fissi su un Jefferson insolitamente serio aveva pronunciato soltanto due parole. Parole che su di me avevano avuto l’effetto di due pistolettate ai polmoni.
Scuola. Militare.
«Secondo te me li lasciano portare i poster di George Michael ed Elton John?».
«Non puoi andare».
Jefferson alzò lo sguardo dalla valigia.
«Vuoi dirlo tu, a papà, che non posso?».
«Non puoi abbandonarmi qui. Ti prego, magari se ci parli, se gli prometti di… di smettere di…».
«Promettere di smettere di baciare i maschietti, vuoi dire? Come hai fatto tu?».
Il sorriso di Jefferson era abbacinante. Non avevo speranze.
«Mi stai punendo per quello che ho detto l’altro giorno? Ti giuro, non lo pensavo davvero. Non ti odio. A volte ti prenderei a pugni perché sei un rompipalle stratosferico, ma non ti odio. E poi… Come faccio a…». Ingoiai un groppo di saliva. «Sono uno sfigato, Jeffy. Da solo non ce la farò mai».
Lui mi diede un buffetto sulla testa, facendomi sentire un cucciolo di cane che elemosina attenzione.
«Ti prego, risparmiami la scena da Drama Queen, non potrei reggerla un’altra volta. Per quanto riguarda la tua sopravvivenza in questo mondo brutto e cattivo… be’, comincia col fare il contrario di quello che dice nostro padre. Questo è un consiglio da sorellona maggiore: seguilo e sarai già a metà strada».
Misi il broncio. «Bel consiglio di merda da uno che obbedisce senza fiatare!».
«Obbedisco perché mi conviene. Giro tutto a mio vantaggio». Cominciò ad elencare sulle dita della mano. «La scuola militare? Un’intera scuola di ragazzi a mia disposizione, non so se mi spiego. Il tiro al piattello? Non è un mistero che mi piaccia il fucile. Le arti marziali? Hai idea di quanto sia eccitante farsi mettere sotto da un ragazzone biondo, sudato e muscoloso come un dio nordico? E poi la palestra scolpisce il fisico, rendendomi una bomba sexy irresistibile».
Stava sventolando quattro dita davanti alla mia faccia, ma rimaneva ancora il pollice.
«E Mike?», lo incalzai.
Un lampo attraversò i suoi occhi, ma fu troppo breve per riuscire a decifrarlo. «L’eccezione che conferma la regola?», rispose, stringendosi nelle spalle.
Sbuffai, sconfitto. «Mi scriverai, almeno?».
Un altro buffetto sulla testa. Con la coda dell’occhio vidi il suo sorriso allargarsi.
«Certo, parola di sorellona maggiore!».



Febbraio, 1990

Caro fiorellino,
non devi preoccuparti, le cose vanno a gonfie vele. Mi piace un sacco questo posto. Oddio, in realtà la prima settimana è stata un po’ turbolenta. Non capisco da dove derivi la convinzione di certa gente che un tipo elegante e raffinato come me non sia in grado di difendersi. Stai tranquillo, però: con le buone maniere si risolve sempre tutto. D’accordo, sono stato punito severamente per la piccola rissa dell’altro giorno (sono proprio fissati con la disciplina, qui!), ma ne è valsa la pena e comunque adesso ho tanti “amici”, uno più figo dell’altro.
Tu che mi racconti? Stai seguendo il consiglio della sorellona maggiore?
Baci, Jeffy.


Cara sorellina,
non è facile mettere in pratica il tuo consiglio. Conosci papà. E conosci me. Però ho appena deciso di farmi crescere i capelli: il taglio militare piace a lui, non a me. Lo so che adesso stai ridendo, so anche che non è un granché come ribellione, ma l’importante è cominciare, non credi?
Usa le precauzioni, mi raccomando.
A presto, Truman.



Luglio, 1990

Caro fiorellino,
tornerò a casa per le vacanze tra due settimane esatte. Non è necessario mandare Fritz a prendermi alla aeroporto, prenderò un taxi. Sono indeciso su quale regalo portarti. Preferisci un paio di occhiali da sole griffati con lustrini sulla montatura o una confezione di preservativi? Penso che tu sia più il tipo da preservativi, ma magari… chissà!
Ci vediamo prestissimo.
Bacioni.


Lustrini sulla montatura? Non fare lo scemo, Jeffy! E… preservativi? Mi serviranno solo il giorno in cui avrò la ragazza (RAGAZZA, capito? Con la A!) e di questo passo credo che quel giorno non arriverà mai. Sadie esce con Kevin. Kevin!! A me non piace la violenza, lo sai, però giuro che se li vedo sbaciucchiarsi ancora una volta al cinema non risponderò delle mie azioni.
E non ridere!



Dicembre, 1990

Jeffy, sei ancora in tempo per cambiare idea. Non puoi passare il Natale da solo in quel posto. Okay, diciamo che IO non posso passare il Natale da solo con papà. Quindi alza il culo e compra un biglietto per il primo volo disponibile. Sono stato chiaro?
Sadie ha mollato Kevin. Ha scoperto che la tradiva al college. Con un ragazzo di nome Thomas.
Ah, quasi dimenticavo! L’altro giorno ho partecipato a una protesta organizzata da un gruppo di ambientalisti. Il sindaco aveva dato il nullaosta per abbattere la quercia centenaria, quella accanto alla chiesa, e ci siamo fatti incatenare al tronco per impedirlo. Papà era furioso!
A presto.
P.S.: COMPRA QUEL FOTTUTO BIGLIETTO!



Febbraio, 1991

Lo so, non mi faccio sentire da due mesi e non ho comprato il fottuto biglietto (da quando sei così scurrile?), potrai mai perdonarmi? Non mi andava di passare il Natale con la cornacchia. Soprattutto dopo il piccolo scandalo col professore di scienze che potrei aver destato accidentalmente… Cerca di capire, lui era un figo da paura, e la carne è debole, ed io non sono fatto di pietra. Mi spiace che sia stato cacciato, ma ti assicuro che quando veniva con me nell’aula di scienze, non aveva una pistola puntata alla testa (mi sono reso conto del doppio senso involontario solo dopo aver riletto, sto peggiorando). Mi spiace di non averti rivisto, ma a te papà non crea problemi, mentre con me… be’, lo sai.
Kevin con un ragazzo? MA VA!? Non me lo sarei mai aspettato, guarda.
Ti prego, non dirmi che mio fratello si sta trasformando in uno di quei fricchettoni con i capelli lunghi e i jeans strappati, pseudo-pacifisti-ambientalisti. Non credo che potrei sopportarlo.
Bacioni da Jeffy.
P.S.: spero che tu non sia troppo arrabbiato per rispondere a questa lettera. Ti voglio bene (e fattelo bastare, okay?).


Vai a farti fottere, Jeffy. Ti perdono, però vai a farti fottere!
Ti preoccupi di quello che sto diventando? E cosa dovrei dire io? Mio fratello è un violento che per risolvere le questioni picchia la gente e che adora i fucili (non è un doppio senso). Se fosse per me, in questo paese le armi sarebbero diventate illegali da un pezzo, altroché!
Sadie ed io stiamo insieme. Ancora non mi sembra vero! Adesso quel pacco di preservativi della scorsa estate mi farebbe comodo. Un regalo di Natale in ritardo?
Tu come stai? Sei triste per il tuo professore? O c’è già un’altra persona speciale nella tua vita?
P.S.: ti voglio bene anche io, sorellina.


Caro fiorellino,
persona speciale? Ma come parli? Mi fai venire il diabete! E comunque nella mia vita ci sono TANTE persone speciali, non temere.
Oddio, quel consiglio di fare il contrario di quello che dice la cornacchia lo stai eseguendo troppo alla lettera, mi sa. Se avessi saputo che saresti diventato una specie di Gandhi dei ricchi, avrei tenuto la bocca chiusa. Non farti arrestare, okay? Che la fedina penale sporca non è uno scherzo.
Salutami Sadie, dille da parte mia che sta dimostrando di avere buon gusto… finalmente.
P.S.: Non posso credere di aver scritto quella cosa sulla fedina. Forse ho la febbre!



Ottobre, 1998

Truman stava innaffiando le begonie che aveva sistemato sul pianerottolo della scala antincendio, quando il telefono cominciò a squillare.
«Iris, puoi rispondere tu?».
Le foglie delle begonie erano un po’ pallide, non ricevevano abbastanza luce. Vederle in quello stato e non poter fare nulla per rimediare provocava a Truman un dolore quasi fisico. Nel bilocale che aveva preso in affitto con sua moglie non c’era spazio per le aiuole. Avevano dovuto scegliere: appartamento con terrazza soleggiata per le piante o permettersi le spese mediche per la nascita del bambino. Per fortuna con l’eredità di suo padre le cose sarebbero cambiate. Prima, però, doveva trovare un modo per aggirare il testamento. Fino ad allora non avrebbe prelevato un centesimo.
Il telefono non squillava più.
«Iris, chi era?».
«Truman, vieni qui, per favore».
La nota tremula nella voce di sua moglie lo fece scattare in piedi e scavalcare la finestra in un battibaleno. Quando entrò in camera da letto, Iris aveva ancora la cornetta all’orecchio e l’aspetto di una pianta appassita.
«Cosa è successo?».
«Io… è per Jefferson. Non… potrebbe non… sostengono che…».
Truman non seppe mai cosa Dio-solo-sapeva-chi sosteneva, perché la stanza aveva improvvisamente cominciato a girare e lui era troppo concentrato sulla difficilissima impresa di rimanere in posizione eretta per ascoltare. Era su una giostra e non aveva allacciato le cinture di sicurezza. Gli venne da vomitare, forse vomitò davvero, sentiva un gusto amaro in bocca. Ma l’urlo di Iris ebbe l’effetto di un fermo-immagine su di lui, riducendo il mondo a un unico fotogramma: la cornetta che penzolava lungo la parete, Iris piegata in due, il suo volto sfigurato da una smorfia di dolore e sotto il pancione una macchia scura che si allargava rapidamente sul lino della gonna.


L’avevano chiamata Julianna, come la madre di Truman. Dormiva il sonno dei giusti accoccolata contro il seno di Iris, i pugnetti chiusi e due petali di papavero al posto delle guance. Iris la teneva stretta tra le braccia e sorrideva. Non era mai stata così radiosa, nemmeno il giorno del loro matrimonio. Era esausta, ma raggiante come un girasole.
«Guarda com’è tranquilla, adesso. L’infermiera Simpson dice di non aver mai visto un neonato con tanto fiato nei polmoni. Diventerà una chiacchierona, ne sono sicura».
Truman stiracchiò le labbra. «Se ha preso dallo zio, lo diventerà di sicuro».
Iris sollevò lo sguardo da Julianna e lo indirizzò su di lui. A Truman bastò guardarla in quei profondi occhi fiordaliso per capire cosa stava pensando. Si coprì il volto con entrambe le mani. Voleva solo svegliarsi da quell’incubo, scoprire che Jefferson era in quella stanza d’ospedale con loro e che aveva comprato una ventina di regali molto stupidi e molto inutili per sua nipote.
«Al telefono mi hanno detto che il suo commando è stato sorpreso da un’imboscata nel bel mezzo della missione. Non è sopravvissuto nessuno». Truman dovette inghiottire il grumo acido di saliva che rischiava di sciogliergli le corde vocali, prima di continuare. Iris accorse in suo aiuto, afferrandolo per l’avambraccio. Aveva affrontato il parto appena ventiquattro ore prima, doveva essere stremata, eppure Truman sentiva la forza avvinghiante di un rampicante in quelle dita lunghe e sottili. «Mancano due corpi all’appello, il suo e quello di un altro. Al momento sono dati per dispersi, ma…».
«…c’è una possibilità che sia ancora vivo».
Non era una domanda, ma un’affermazione.
«Non possiamo illuderci, Iris».
«Non mi sto illudendo, sto sperando. Cosa farebbe Jefferson se fosse al tuo posto? Cosa direbbe se fosse qui?».
Comincia col fare il contrario di quello che dice nostro padre.
Truman baciò Iris sulla bocca e Julianna tra i sottilissimi viticci che si arricciavano sulla sua testolina. Poi si avviò a passo svelto verso la porta.
«Aspetta, dove stai andando?».
«Non starò via molto, te lo premetto. Devo solo chiamare l’avvocato Slave».
Era appena uscito dalla stanza d’ospedale, quando si imbatté nell’ultima persona che si sarebbe aspettato di incontrare in quel posto e in quel momento.
«Mike!».
«Truman!».
Si abbracciarono istintivamente, senza pensarci due volte.
«Caspita, è… un’eternità che non ci vediamo! Che ci fai qui?».
Il viso di Mike si illuminò e Truman fece due più due. «Mia moglie è incinta, siamo qui per una visita».
«Congratulazioni! So come ti senti, mia figlia è nata appena ventiquattro ore fa».
«Accidenti, il piccolo Truman ha messo su famiglia. Chi l’avrebbe mai detto?». Mike gli diede una pacca amichevole sulla spalla, poi si fece improvvisamente serio. «Ho saputo di tuo padre. Mi dispiace molto, condoglianze».
Lui annuì. «Grazie».
Mike allungò il collo, per sbirciare alle spalle di Truman. «E Jeffy? È qui anche lui?».
«Oh, no…». Truman si schiarì la voce e fissò lo sguardo sulla punta delle scarpe, per non essere costretto a guardarlo negli occhi. «Jeffy fa un lavoro che lo tiene molto impegnato, è sempre in giro per il mondo».
«Ah, quindi ha accettato quell’offerta, alla fine? È meraviglioso!».
Truman sbarrò gli occhi. «E tu come diavolo fai a saperlo?».
«Ehm». Mike abbozzò un sorriso e si accarezzò la nuca, evidentemente a disagio. «Jeffy non ti ha detto nulla?».



Agosto, 1992

Le valigie di Jefferson non erano ancora state disfatte, che già le urla di mio padre riecheggiavano per tutta la villa. Per fortuna ero stato esonerato dall’udienza, così mi ero seduto per terra, fuori dalla Sala Delle Ramanzine, e mentre fissavo con sguardo vacuo le valigie abbandonate ai piedi della scala, aspettavo di scoprire quale destino sarebbe toccato a mio fratello, questa volta.
«Col cazzo che ci andrai! Non ho la minima intenzione di sborsare un centesimo per una cosa del genere. Sei il mio primogenito, il tuo posto è qui, al mio fianco. E quando sarà il momento, prenderei in mano le redini dell’azienda. Ti ho mandato in quella scuola affinché ti trasformassero in un uomo, non in carne da macello».
Già, il programma Trasformiamo I Miei Figli In Uomini Veri aveva avuto degli effetti collaterali su mio fratello. Dalla scuola militare che aveva frequentato per due anni e mezzo, Jefferson era tornato più gay e soldato che mai.
«Papà, a te la scelta: l’accademia militare o l’accademia di danza».
Vedere Jefferson in divisa faceva effetto, un bel effetto. “Non sono uno schianto, fiorellino?”, mi aveva chiesto prima della cerimonia di consegna del diploma. Sì, lo era. Non solo per l’indiscussa avvenenza e il sorriso abbacinante. Jefferson era nato per indossare i panni del soldato, era evidente da come si muoveva dentro quella divisa: un predatore nel suo territorio. E sono convinto che perfino mio padre doveva essersene accorto, perché mentre Jefferson riceveva l’attestato di diploma dalle mani del preside della scuola, avevo visto nei suoi occhi un breve ma intenso lampo di primordiale orgoglio. Come se, in quell’istante infinitesimale, mio padre avesse inconsciamente intuito che Jefferson non era più soltanto suo figlio, il primogenito con doveri ben precisi da assolvere, ma una persona, una persona vera di cui andare fieri. Purtroppo gli istanti infinitesimali sono brevi per definizione.
«D’accordo, Jefferson».
Sbarrai gli occhi. «Cosa?».
«COSA?», urlò quasi contemporaneamente mio fratello dentro la sala.
«Hai capito bene», disse mio padre. «Puoi andare all’accademia militare, se è questo che vuoi. Ma ad una condizione».
«Spara, papino. Sono tutto orecchi».
«Finita l’accademia, non ti arruolerai. Tornerai qui e ti comporterai come si conviene a un McCallan. Rimarrai al mio fianco, fin quando non mi succederai a capo dell’azienda di famiglia. E prima che tu possa lagnarti come una ragazzina mestruata sull’ingiustizia della mia proposta, ti ricordo che l’esercito non accetterà mai un ragazzo nelle tue… condizioni. Hai capito cosa intendo, vero, Jeffy?».
«Ho capito benissimo, papino».
Ricordo di essere scoppiato a ridere, nonostante il mal di stomaco causato dalle parole di mio padre, ricordo di aver pensato “Papà, ci hai provato” e ricordo di aver immaginato il sorriso abbacinante di Jefferson, quello che mio padre trovava disperatamente irritante, mentre diceva “Te lo puoi scordare”. Perché non era possibile che Jefferson accettasse una simile condizione. Aveva sempre obbedito ai capricci di mio padre, certo, ma a tutto c’era un limite.
«Ci sto. Affare fatto».
Tutte le mie certezze implosero dall’interno, come una pianta grassa marcia.



Novembre, 1992

Caro fiorellino,
non importa se continui a ignorare le mie lettere e a non rispondere al telefono, io continuerò a scrivere fin quando non ti stuferai e non mi risponderai con un bel “Vai a farti fottere!” a caratteri cubitali. A quel punto saprò che mi hai perdonato.
Come ti ho già scritto in altre lettere e detto prima di partire, non mi aspetto che tu capisca le mie motivazioni, anche perché non ho intenzione di spiegartele. A te dovrebbe bastare sapere che sono felice così, no? Insomma, quando hai scoperto che preferivo il cono gelato alla coppetta non mi hai chiesto perché, non hai fatto tutta ‘sta tragedia. Cosa c’è di diverso, adesso?
L’accademia è una figata, non solo per i corsi. Questo posto brulica di gay repressi che non aspettano altro di ricevere un piccolo input per fare coming out. E sottolineo la parola INPUT.
Dai, su. Fai un sorriso alla tua sorellona!
Baci, Jeffy.


Cara sorellina,
VAI A FARTI FOTTERE!
Con affetto, Truman.



Aprile, 1993

Fiorellino, secondo te è normale che debba sapere dall’autista di famiglia, e non da te, che Sadie ti ha mollato e che ti sei trincerato dentro la serra? Secondo te è normale che sia costretto a scriverti una lettera per dirti queste cose, quando potresti semplicemente rispondere alle mie chiamate? Ricordi cosa penso delle scenate da Drama Queen, vero? È solo una ragazza, cazzo! Mai sentito il detto “Morto un papa se ne fa un altro” o “Chiusa una porta, si apre un portone”? Sì, puoi vederci tutti i doppi sensi che vuoi.
Rispondi al telefono o giuro che vengo lì e ti prendo a calci nel culo, va bene?
Jefferson



Marzo, 1996

Caro Jefferson,
la vita è bella e il mondo mi sorride. Ho conosciuto una ragazza che… Non sono sicuro di riuscire a trovare le parole giuste per descriverla. La prima cosa che ho notato di lei è stato lo sguardo. E non ridere, va bene? Dico sul serio! I suoi occhi sono… Oh, dovresti vederli! Sono profondi e blu, ma non un blu qualsiasi. La parola “blu” non è abbastanza. “Fiordaliso” forse rende l’idea, forse. E poi quando sorride, non si illumina solo il suo viso, ma tutto il mondo. Credimi, quando sorride, tutto intorno a lei diventa sgargiante e variopinto, come un immenso prato fiorito. Irradia luce, profuma di pane caldo e si chiama Iris. Ti rendi conto? IRIS. La ragazza dei miei sogni ha il nome di un fiore. È lei, Jeffy. Me lo sento, è quella giusta. E vuoi sapere qual è la cosa più sorprendente di tutte? Le ho chiesto di uscire e lei ha accettato.
P.S.: tu come stai?


Caro fiorellino innamorato,
sono felice per te. Non vedo l’ora di conoscere questa meraviglia della natura. Scusa se sono così telegrafico questa volta. I corsi stanno per finire e ho un sacco di faccende da sbrigare prima di tornare a casa.
Jefferson



Luglio, 1996

Caro Jefferson,
sei sicuro che vada tutto bene? Non abbiamo più parlato della condizione imposta da papà. Magari è questo il problema, vorresti svincolarti ma non sai come fare? A me puoi dire tutto, lo sai. Possiamo trovare una soluzione insieme.
Anch’io sono nei guai.
Ho chiesto a Iris di sposarmi e lei ha risposto di sì. Adesso sono… euforico e terrorizzato. Non fraintendermi, sono l’uomo più felice sulla faccia della terra, ma papà ha deciso che Iris non è la donna giusta per me. Risultato? Se la sposo, mi toglie il fondo fiduciario e mi sbatte fuori da casa. Così, ho mollato il college (tanto di economia non capirò mai un cazzo!) e adesso sto cercando un lavoro, forse ho trovato qualcosa di interessante presso un vivaio ad Atlanta. Sembra azzardato stravolgere la mia vita per una ragazza conosciuta appena cinque mesi fa, lo capisco, ma… che ci vuoi fare? La amo!
Mi spiace affliggerti con i miei problemi. Però è così che si fa tra fratelli, no? Ci si aiuta a vicenda. Dovresti tenerlo a mente anche tu, io sono qui per te.
Con affetto, Truman.
P.S.: vuoi farmi da testimone? È una domanda retorica, ovviamente.


Fiorellino, non mi affliggi affatto e non devi preoccuparti, io sto bene. Il fatto è che papà ha ragione. Non mi permetteranno mai di entrare nell’esercito, sono troppo appariscente per i loro standard. Nessuno me lo dirà mai in faccia, perché sono il migliore del mio corso, ma è questa la cruda verità.
Un mese fa ho ricevuto una proposta di assunzione da un’organizzazione internazionale che sembra uscita da un film di James Bond. Ti racconterò i dettagli quando tornerò a casa. In ogni caso, non penso che accetterò, tu sai perché: non posso venire meno all’accordo con papà, sono una checca di parola.
Riguardo a Iris… se la ami tanto come dici e se anche lei ti ama tanto come dici, non lasciartela scappare. Non dimenticare mai il consiglio da sorellona maggiore, perché credo sia il miglior consiglio che io abbia mai dato a qualcuno. Il che è tutto dire, visto che i miei consigli sono sempre ottimi.
Perciò… CONGRATULAZIONI! So già cosa regalarvi!
P.S.: certo che ti farò da testimone, in smoking sono uno schianto! E poi è risaputo che il testimone del-


«Pronto? Chi parla?».
«Jeffy? Sono Truman».
«Ehi, fiorellino! Che combinazione, ti stavo giusto scrivendo una lettera. È successo qualcosa?».
«In realtà, sì. Papà ci ha convocato. Dopodomani, a mezzogiorno. Sala Delle Ramanzine».
«Che hai fatto?».
«A parte chiedere la mano della figlia di un panettiere? Niente. Che hai fatto tu, piuttosto!».
«Mi proclamo innocente, Vostro Onore!».



Luglio, 1996

«Sto per crepare».
Mi voltai a guardare Jefferson, che era serio come la morte, poi tornai a fissare mio padre sicuro di aver capito male.
«Come hai detto?».
Mio padre fece spallucce, nello stesso identico modo in cui faceva spallucce Jeffy. Era la prima volta che lo vedevo stringersi nelle spalle. Quel gesto voleva dire non avere risposte, invece mio padre aveva sempre le risposte, forse non quelle che mi aspettavo o che desideravo sentire, ma le aveva sempre.
«I medici mi hanno diagnosticato il cancro. Dicono che se mi sottopongo subito alla chemio ci sono buone possibilità di uscirne vivo. Io, però, me lo sento. Forse riuscirò a rubargli ancora qualche anno, a quello stronzo del destino, ma sto per crepare».
Il cervello umano è bizzarro.
L’unica cosa a cui riuscivo a pensare in quel momento era l’action figure di Capitan America che avevo ricevuto per il mio settimo compleanno. Non mi piaceva, lo odiavo, tutto platinato, con quella ridicola tutina azzurra addosso. Lo abbandonai quasi subito, ancora intonso, dopo averci giocato appena mezza volta. Qualche mese più tardi per puro caso guardai nella cesta dei giochi e mi accorsi che Capitan America non c’era più: la tata lo aveva regalato ai bambini poveri, insieme agli abiti smessi. Mi infuriai, piansi per giorni. Capitan America era mio, come si era permessa, quella stupida di una tata? Lo rivolevo indietro. Me ne comprarono un altro, ma non era la stessa cosa: io volevo il mio Capitan America, quello di prima.
Come dicevo, il cervello umano è bizzarro. Guardavo mio padre, immaginavo il cancro che lentamente lo avrebbe divorato dall’interno e pensavo all’action figure di Capitan America che non avevo mai apprezzato veramente fin quando non mi era stato tolto per sempre.
«Quindi, adesso mi farò da parte».
Aggrottai le sopracciglia. «Non capisco».
«Non è ovvio, fiorellino?», disse Jeffy, tetro in volto.
Mio padre annuì.
«È arrivato il momento di comportarsi da McCallan. Jefferson è il primogenito, quindi prenderà il mio posto. Tu, Truman, continuerai il college. La tua laurea in economia sarà molto utile per l’azienda».
«Papà, ma… io mi devo sposare. E poi non voglio più andare al college».
In tutta risposta lui sbatté il pugno sulla scrivania d’ebano.
«Non me ne frega un cazzo di quello che vuoi o non vuoi fare! Sei un McCallan, hai dei doveri verso questa famiglia. Verso di me, soprattutto!».
«No, aspetta un secondo», intervenne Jefferson, con un’espressione indecifrabile sul volto. «Perché tiri in ballo Truman? Non erano questi i patti».
C’era qualcosa di strano in lui, quel giorno. Non era spensierato e indifferente come nelle millemila udienze precedenti. Non se ne stava spaparanzato sulla poltrona vittoriana, con l’aria di chi sta guardando un film noioso. Teneva la schiena dritta, era rigido come la volpe impagliata nel salone delle feste. Ricordo però di non aver riflettuto molto sul suo nuovo atteggiamento: nostro padre ci aveva appena informato di essere malato di cancro, era normale che Jeffy fosse sconvolto, giusto?
«Non mi pare di averti dato il permesso di parlare, Jeffy».
«Be’, ho ventitré anni, secondo la legge americana sono abbastanza adulto per sbronzarmi e votare, perciò credo proprio di essere in grado di decidere da solo quando parlare e quando no, papino».
Non credevo alle mie orecchie. Jefferson stava davvero, per la prima volta in vita sua, contraddicendo nostro padre?
«Per tutti questi anni ho sempre fatto quello che mi chiedevi, ho sempre obbedito. Non mi costava fatica, mi piacevano i corsi di arti marziali, il tiro al piattello, mi piaceva perfino la scuola militare. Sentivo che ci tenevi e volevo darti un motivo per essere orgoglioso di tuo figlio. Senza contare che fin quando fossi stato concentrato su di me, avresti lasciato in pace Truman. E questo alla fine dove mi ha portato? Non posso scegliere il lavoro che preferisco. Non posso stare con le persone che mi attraggono. Non posso nemmeno trovare consolazione nella felicità di mio fratello. Tutto perché tu hai deciso che ti dobbiamo qualcosa? Tu ci hai donato la vita, papà, ma questo non significa che la nostra vita ti appartenga. Ti staremo vicini, ti assisteremo durante la terapia, perché nonostante tutto ti vogliamo bene. Ma non ti permetterò. Mai più. Di decidere per noi».
Il silenzio che seguì mi fece fischiare le orecchie.
Mio padre si alzò in piedi e ci osservò da dietro la scrivania d’ebano come un gigante che si accorge improvvisamente di aver calpestato un’insignificante formica. Però… non so se era colpa della malattia o del monologo di Jeffy, ma adesso non sembrava più tanto alto, aveva perso quell’aura spaventosa da titano che mi aveva sempre fatto sentire minuscolo. Ai miei occhi era ormai soltanto… un uomo.
«Io me ne sbatto, Jeffy», disse finalmente con voce monocorde. La sua faccia era un mascherone inespressivo. «Non voglio due infermiere. O due badanti. Quando avrò bisogno di assistenza, mi procurerò due donne vere, con gambe chilometriche e tette grosse come meloni. Me le comprerò, se sarà necessario, con i miei soldi. Perché nel caso non ve ne foste accorti, smidollati senza spina dorsale che non siete altro, tutto quello che vedete, tutto quello che mangiate, che indossate, perfino l’aria che respirate, tutto qui è mio. E se adesso voi decidete di voltarmi le spalle, se adesso voi decidete di disobbedirmi, quel tutto non diventerà mai vostro. MAI! Sono stato chiaro?».
«Cristallino!».
Il sorriso abbacinante era tornato alla ribalta. Jefferson aveva già la mano sulla maniglia della porta, quando si voltò nella mia direzione. «E tu, fiorellino? Cosa hai intenzione di fare?».
Gli sorrisi, con la vista offuscata dalle lacrime, mentre le urla di mio padre diventavano nient’altro che un tenue brusio di sottofondo.
«Seguire il consiglio da sorellona maggiore, ovviamente».


Stavamo percorrendo in auto il viale alberato. I cipressi che scorrevano su entrambi i lati sembravano soldati sull’attenti che ci omaggiavano col saluto militare. Alle nostre spalle, la villa coloniale di famiglia diventava ad ogni metro più piccola e lontana.
«Hai un posto dove andare, fiorellino?».
«Starò da Iris per un po’. I suoi genitori mi adorano. Poi, se mi assumeranno al vivaio di Atlanta, cercherò con lei un appartamento in città. Tu?».
Jefferson fece spallucce, col sorriso sulle labbra.
«C’è quel lavoro di cui ti stavo accennando nella lettera… spero di non arrivare troppo tardi anche questa volta».
Inarcai un sopracciglio. «Anche questa volta?».
Ma lui non mi rispose.



Ottobre, 1998

Due settimane dopo la sua nascita, non vi era più alcun dubbio che Julianna avesse ereditato il carattere casinista dello zio Jefferson. Truman non aveva ancora raggiunto il pianerottolo, ma già la sentiva strillare. Prese un respiro profondo, come quando da ragazzino si preparava a un salto dal trampolino della piscina, poi entrò in casa.
«Sia ringraziato il cielo!». Iris gli era corsa incontro e gli aveva mollato in braccio la bambina come una patata bollente. «Per favore, prova a calmarla tu, non so più che fare! Le ho dato da mangiare, l’ho cambiata, ho provato a cantarle la ninna nanna e a cullarla. Ho chiamato pure la dottoressa Swan, perché temevo che stesse male, ma l’ha visitata da cima a fondo e mi ha assicurato che è sana come un pesce. Ti prego, Truman. Ho bisogno di riposare».
Julianna continuava a strillare senza posa, agitava i pugnetti preannunciando un’indole contestatrice, scalciava l’aria come una provetta karate-kid, la sua faccia era un pomodoro rosso e gonfio per lo sforzo. Non c’era un pulsante per spegnerla? Iris invece fissava Truman con sguardo implorante: il blu fiordaliso si era sciolto ed era colato fuori dagli occhi, formando due profonde occhiaie violacee.
«Vai a riposarti, penso io a Julianna».
«Oh, ti amo!». Iris lo baciò di slancio sulla bocca. «Mi farò perdonare, te lo prometto».
«Vai, prima che cambi idea».
Proprio in quel momento, il campanello di casa suonò. L’espressione di Iris era molto eloquente, perciò sospirando profondamente, con Julianna che ancora strillava contro la sua spalla, Truman andò ad aprire la porta.
«Cazzo, state sgozzando un maiale o cosa? Cos’è questo lamento infernale?».
Ci mancò poco che Truman non lasciasse cadere Julianna, per la sorpresa.


«Incredibile, non sembra nemmeno la stessa bambina!», disse Iris, scuotendo la testa.
«Era solo molto triste perché non aveva ancora conosciuto la sua zietta preferita, non è vero, carotina? Se non sapessi che è biologicamente impossibile, direi che è mia figlia. Senza offesa, Iris, ma non sei il mio tipo. I fiori li lascio a mio fratello, io preferisco i cetrioli».
La risata squillante di Iris venne subito accompagnata da quella profonda di Jefferson.
Truman invece non riusciva a dire nulla, se ne stava in piedi, impalato come un idiota, a distanza di sicurezza, a fissare quell’adorabile nonché inverosimile scenetta familiare: Iris seduta sul divano, accanto a un Jefferson miracolosamente illeso, che cullava una Julianna in pace col mondo. C’era qualcosa di profondamente sbagliato in quello che stava vedendo, solo che non riusciva a capire cosa. Era esattamente questa, la scenetta alla quale aveva disperatamente desiderato di assistere in ospedale qualche settimana prima, no?
«Fiorellino, si può sapere che hai? Non sei felice di vedermi?». Jefferson rivolse il suo sorriso abbacinante a Julianna. «E tu, carotina? Ti piacciono i regalini che ti ha portato la zia?».
C’erano perfino i regali stupidi e inutili, proprio come nel suo sogno. Un ciuccio rosa decorato in Swarovski, un corredino rigorosamente rosa firmato Dolce&Gabbana e una carrozzina in stile Luigi XV. Anche quella rosa confetto, ovviamente. Oh, ecco cos’era che non tornava!
«Come facevi a sapere che era una femmina?».
Jefferson sollevò lo sguardo da Julianna, evidentemente perplesso.
«Se te lo dicessi, poi dovrei ucciderti. Scusa, roba da 007».
«Sì, ma… quando hai avuto il tempo di comprare tutti questi regali?».
Jefferson fece spallucce, come sempre davanti a quel tipo di domande.
«Un giorno per ordinarli e altri tre per farmeli recapitare. Non è poi tanto, se ci pensi».
«In tutto sono quattro giorni».
«Esatto. Adesso sappiamo che sai contare, fiorellino».
«Significa che sei sano e salvo da quattro giorni!».
Jefferson si grattò il mento, mentre ci pensava su.
«Sette, in realtà. Se conti il tempo trascorso in infermeria e la visitina a Grande Jack che si è prolungata più del previsto».
Truman prese l’ennesimo respiro profondo. Quanti tuffi in piscina lo aspettavano ancora, quel giorno?
«Tesoro, puoi prendere in braccio Julianna, per favore? E… sorellina, potresti farmi la cortesia di alzarti?».
Iris guardò Truman e Jefferson alternativamente un paio di volte, poi annuì con aria preoccupata. Mentre le porgeva Julianna, Jefferson sorrideva come un bambino impaziente di provare un nuovo gioco. Quando finalmente i due si trovarono l’uno di fronte all’altro, anche Truman allargò le labbra in un sorriso.
E colpì Jefferson in pieno viso.


«Meno male che non sei un tipo violento, eh?».
Jefferson era sdraiato sul divano con un impacco freddo sul naso. Iris era uscita con Julianna, ufficialmente per provare la nuova fashion-issima carrozzina, ufficiosamente per lasciare Truman solo con suo fratello.
«Te lo sei meritato!», esclamò Truman, lanciandogli un’occhiataccia. «Hai la vaga idea di cosa ho provato, quando mi hanno detto che eri disperso? Credevo che non ti avrei rivisto più! E tu, invece? Dopo essere tornato alla base non hai avvertito tuo fratello, no! Un pompino! Sul serio? Il tuo primo pensiero dopo cinque giorni di torture in Sud America è stato un pompino?».
«Un Signor Pompino, però».
«Vai a farti fottere, Jeffy».
«Sì, tra qualche giorno. Ti voglio bene anch’io, fiorellino. Ma gradirei che mi chiamassi Bree, d’ora in poi».
«E comunque quel pugno te lo dovevo da…». Truman si bloccò e aggrottò la fronte. «Che?».
Jefferson lanciò l’impacco del ghiaccio a Truman, che lo prese al volo per un soffio. Con un colpo di reni si mise a sedere, accavallò le gambe e incrociò le braccia dietro la testa. Infine sfoderò il solito sorriso abbacinante, quello che faceva automaticamente comparire sulla sua fronte la scritta “Ho la faccia da culo, è inutile discutere con me”, glitter e luce lampeggiante compresi.
«Era l’ultimo desiderio di papà, ricordi? Avrebbe preferito che fossi nato femmina, così avrebbe potuto chiamarmi Bree. Non si può disobbedire all’ultima volontà di un defunto».
Truman alzò gli occhi al cielo. «È il tuo modo per dirmi che hai intenzione di cambiare sesso?».
«NO!», urlò Jefferson, coprendo il cavallo dei pantaloni con le mani a scopo protettivo. «Sto solo dicendo che Bree è un nome carino, e che zia Bree suona meglio di zia Jeffy. Tutto qua! Cambiare sesso, ma come ti salta in mente? Hai dimenticato che sono vagina-fobico?».
«Il sole del Sud America ti ha cotto il cervello».
Jefferson scosse la testa, più sorridente che mai.
«Naah, è solo che non posso fare a meno di accontentare la cornacchia».
Truman gli sedette accanto. «Non sempre in realtà».
«Ti riferisci alla scena madre da Drama Queen del ’96?».
«Sì, ma anche a Mike».
L’espressione perplessa che Jefferson indossò sulla faccia era più finta di una banconota da tre dollari.
«Mike, chi?».
Truman ghignò.
«Non fare il finto tonto, ci siamo visti per caso in ospedale due settimane fa e mi ha raccontato una certa cosetta».
Jefferson alzò le braccia al cielo, melodrammatico come non mai.
«Vai a fidarti di quella pettegola!».


«L’ho rincontrato poco prima di partire per l’accademia militare. Tu lo sai, mi piace volare libero e saltellare dal un albero all’altro, ma per Mike avrei volentieri chiuso l’aquilotto in gabbia. Avevo fatto una promessa alla cornacchia, però». Jefferson mandò giù un sorso di vodka. L’aveva portata insieme ai regali per Julianna, dicendo che era il regalo di bentornato di una sua collega. «Dopo parecchio tira e molla, quando finalmente mi decido a fare sul serio, scopro che Mike sta per sposarsi».
Truman strinse il pugno. «Che stronzo!».
«No». Jefferson gli rivolse un sorriso languido, incorniciato da due guance rosse da sbronzo, e gli diede il solito buffetto sulla testa. «Lo stronzo sono io. Ho perso tempo, sono arrivato tardi. Dalla mia storia con Mike ho però imparato due cose: mai innamorarsi di un bisessuale e mai permettere agli altri di decidere per te».
«Per questo ti sei ribellato a papà, alla fine».
«Per questo». Jefferson versò altra vodka nel suo bicchierino. «E perché non volevo che anche tu cadessi nel mio errore».
Truman non sapeva cosa dire. Avrebbe voluto ringraziarlo, abbracciarlo, dirgli che era il miglior fratello del mondo, che ritrovarselo sano e salvo sul divano era la cosa più bella che gli fosse mai capitata, pari soltanto all’aver preso in braccio Julianna per la prima volta. Ma la lingua si era incollata al palato, le braccia improvvisamente pesavano come piombo e gli girava un po’ la testa per il batticuore. Forse era colpa di tutta quella vodka che aveva tracannato. Oppure era sbronzo di felicità. Come sempre, fu Jefferson a sciogliere la tensione, che dopo essersi guardato intorno, si esibì in una smorfia disgustata.
«Si può sapere perché vivi ancora in questo buco, se sei ricco sfondato?».


«Tu. Hai fatto. COSA??».
Jefferson aveva gli occhi fuori dalle orbite. Truman scoppiò a ridere.
«Non fare la Drama Queen, adesso. Ho solo seguito il consiglio da sorellona maggiore! Sei stato tu a dire che era il tuo miglior consiglio, mi pare».
«Sei appena diventato padre, razza di idiota! Cosa dirai a Julianna quando ti chiederà come mai vivete sotto un ponte? Che hai dato in beneficenza i soldi del nonno perché sei un coglione?».
«Le dirò che nella vita ogni tanto si è costretti a fare delle scelte. E che io ho scelto di essere un fratello leale».
«Questa frase ad effetto dovrebbe commuovermi?». Jefferson sbuffò. «Be’, ci sei riuscito, ma rimani pur sempre un coglione. A me non servivano i soldi, non ho una famiglia da mantenere e il mio stipendio è più che soddisfacente. Ma tu? Come pensi di tirare avanti con un misero lavoro da dipendente in un vivaio?».
Questa volta fu Truman ad assestare un buffetto sulla testa di Jefferson.
«In effetti, volevo chiederti di diventare mio socio in affari».
«Se questo significa che dovrò mettermi a zappare e a concimare, scordatelo!».



Ottobre, 2013

«Julianna, non urlare così!».
Dopo quindici anni, era ormai chiaro a tutti che Julianna aveva ereditato il carattere casinista dello zio Jefferson.
«Ma mamma, come faccio a non urlare, scusa?! Tu hai idea di cosa sia questo?». Saltò in braccio a Jefferson e strillò talmente forte che le vetrate della serra presero a tremare. «Grazie, zia Bree! Non vedo l’ora che venga stasera, per indossarlo alla mia festa di compleanno nella serra».
Truman storse il naso. Lasciare la sua adorata serra, costata tanti soldi e fatica a lui e suo fratello, in balia di un gruppo di ragazzine scalmanate non lo tranquillizzava affatto. Julianna, però, sosteneva che festeggiare in mezzo agli ibridi di begonie che portavano il suo nome sarebbe stata La Cosa Più Fica Del Mondo. E Truman non sapeva dire di no a sua figlia.
La risata di Jefferson sgorgava dal cuore, mentre stringeva Julianna tra le braccia.
«Sapevo che ti sarebbe piaciuto».
«È il regalo che ogni quindicenne che si rispetti desidera!».
«Certo, quale quindicenne sana di mente non sognerebbe il costume da Carnevale di Loki?».
Julianna fulminò suo padre con lo sguardo.
«Questo non è un costume da Carnevale, ignorante. Questo è un costume da cosplay!».
«Hai ragione, scusa. Come avrò fatto a confondermi, poi?».
Julianna lo ignorò e rivolse un sorriso sinistro a Jefferson.
«Sai cos’altro desidera una quindicenne che si rispetti per il giorno del suo compleanno, zietta?».
«Tom Hiddleston nudo che salta fuori dalla torta di compleanno?».
«No… cioè, sì. Certo che sì. Ma anche assistere a un bacio mozzafiato tra il suo adorato zietto gay e il suo fidanzato strafico».
Greg, che fino a quel momento si era dedicato al barbecue rimanendo il più in disparte possibile, per poco non si strozzò con la birra. Iris accorse in suo aiuto, assestandogli della pacche sulla schiena.
«Carotina, quante volte devo spiegartelo? Greg ed io siamo soltanto amici. Solo perché due persone preferiscono lo stesso gusto di gelato non vuol dire che devono per forza finire insieme. E poi non potrei mai amare qualcuno che veste in quel modo».
Julianna squadrò Greg dalla testa ai piedi, con sguardo critico.
«Okay, non è molto ferrato nel campo della moda, ma lo puoi educare. Sono convinta che fareste proprio una bella coppia, insieme». Il sorriso di Julianna si fece furbo. «Sai come lo so?».
Truman si coprì la faccia con la mano. Aveva già ascoltato quella teoria e non ci teneva a sentirla un’altra volta. Jefferson invece abboccò, o semplicemente fece finta di abboccare per far felice sua nipote.
«No, carotina, come lo sai?».
Julianna assunse l’aria da cospiratrice e avvicinò la bocca all’orecchio dello zio per confidargli il suo inconfessabile segreto.
«Credo di essere un ragazzo gay nel corpo di una ragazza».
Detto questo, sfoggiò lo stesso sorriso abbacinante di Jefferson e corse via, a tampinare Greg. Truman la seguì con lo sguardo, rassegnato.
«Tu sei sicuro di non aver attraversato una breve fase etero e di non essere andato a letto con mia moglie, vero?».
«Sai che mi sta venendo il dubbio? Forse la sera in cui mi sono sbronzato con… Naaah, ero in Giappone, troppo lontano. Però sai a cosa sto pensando in questo momento?».
«A tutti i vasi di Begonie Julianna che finiranno in frantumi stasera?».
«No, alla cornacchia. E alle speranze che riponeva nel frutto dei tuoi lombi».
Truman e Jefferson rimasero in silenzio per un po’ a contemplare Julianna, che faceva domande imbarazzanti a Greg sulle abitudini alimentari dei gay, che gli infilava una Begonia Julianna dietro l’orecchio e che cercava di convincerlo che Jefferson era l’uomo della sua vita. Il tutto mentre Iris era piegata in due dalle risate.
«Al frutto dei tuoi lombi, fiorellino!», disse Jefferson.
Truman fece tintinnare la bottiglia di birra contro quella di suo fratello.
«Al frutto dei miei lombi, Bree. E alle speranze della cornacchia!».
Scoppiarono a ridere quasi simultaneamente. E in un attimo tornarono bambini.







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Note autore:
Questa storia è dedicata a Fila, che oggi compie gli anni. Ancora tantissimi auguri, spero che il regalo ti piaccia!
Uno dei protagonisti di questa storia nasce come OC nel fandom di The Avengers. Chi legge le mie storie in quella sezione sa benissimo di chi sto parlando. Sono molto emozionata nel pubblicare questa storia, perché non è soltanto la mia prima vera storia originale, ma è anche la prima volta che un mio OC si emancipa a tal punto da diventare il protagonista di una storia tutta sua.
Questa one-shot partecipa al contest I love you, brother!, indetto da EmmaStarr sul forum di EFP.
Come sempre, ringrazio le mie beta-sexy-assistenti, che questa volta sono Dragana e Jo Lupo.
Grazie a chi passerà da qui e a tutte le persone che continuano a leggere le mie storie.
A presto, vannagio
   
 
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