Storie originali > Romantico
Segui la storia  |      
Autore: CookieKay    05/10/2013    0 recensioni
James Williams ha ventisei anni, vive nel Lower East Side a New York in un piccolo appartamento al 152 di Ludlow Street. E' un avvocato tirocinante precario in un prestigioso studio legale e per quanto la sua vita scorra monotona, dal suo punto di vista sarebbe perfetta, se non fosse per la sua strana coinquilina Sunny, ventiquattro anni, mezza hippie, amante dei fiori e dello stile bohemien. Vivono insieme da anni, ma essendo così diversi non sanno nulla o quasi l'uno dell'altra. Una sera, però, Sunny viene arrestata...
Dal primo capitolo: Aprii di controvoglia un occhio. Il volume della televisione era al minimo, ma riuscii a intravedere la figura di Spongebob sullo schermo. Mi schiarii la voce e mi stropicciai la faccia con una mano. Sunny era seduta in modo sgraziato su una poltrona, arricciando un pezzo di carta con maestria senza nemmeno guardarlo. Mi tirai su a sedere e fu in quel preciso momento che notai di essere sommerso da piccoli origami a forma di unicorno.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo uno

 

 

Non avevo cuore di svegliarla. Da quando si era seduta di fianco a me, avevo notato subito la sua aria stanca. Le avevo offerto la mia spalla come “cuscino” dopo averla salvata per la seconda volta da uno schianto faccia-pavimento, che probabilmente l'avrebbe uccisa, dopo l'ennesima frenata della metropolitana. Mi aveva sorriso con così tanta gratitudine, strizzando gli occhi e scoprendo la rete intricata delle sue rughe. Si era accoccolata sulla mia spalla, come un cucciolo di koala su un ramo, e si era lasciata andare in un sonno profondo.
Tossicchiai leggermente, come a voler attirare la sua attenzione, senza svegliarla bruscamente, ma lei si era appisolata con un sottofondo di suoni meccanici della metropolitana e del gran vociare nel vagone, figuriamoci se sentisse il mio timido raschiamento di gola. Provai a muovere leggermente la spalla, ma niente. Stavamo per raggiungere la 2 Avenue, la mia fermata. Le strinsi leggermente il braccio e la scrollai con cautela. Nulla. Mi balenò in mente l'idea che fosse morta stecchita su di me. Ma il tepore del suo respiro sulla mia camicia, mi fece sospirare di sollievo. Mi guardai intorno alla ricerca di qualcuno che potesse aiutarmi. Ma nemmeno un cane guardava nella mia direzione. -Signora – dissi, alzando la voce. Non mi ero mai reso conto di quanto la mia voce fosse bassa, fino a quel momento. Era come se il vociare e la metropolitana che sfrecciava sui binari avessero fatto sparire il suono della mia voce. Sospirai più forte e cercai di allontanare la mia spalla da sotto la sua testa. Lei si mosse e proprio come una bambina aprì gli occhi, stropicciandoseli con una mano.
-Mi scusi se l'ho svegliata. Ma siamo quasi arrivati alla mia fermata – mi scusai alzandomi in piedi. Lei mi guardò per un attimo spaesata e poi mi sorrise.
-Oh, che giovanotto gentile! Dovrebbero darti una medaglia al valore! - sghignazzò la vecchietta, sistemandosi meglio sullo scomodo sedile di plastica.
Le sorrisi e mi avvicinai verso la porta, pronto per scendere. La voce robotica proveniente dall'altoparlante del vagone la sentii appena, a causa dello stridere dell'apertura delle porte automatiche del vagone e della mandria di gente pronta a salire al posto mio.
Ero così grato di essere arrivato a casa. Ed ero grato che fosse venerdì. Per quanto fare il tirocinante allo studio legale Bewey&DeLoeuf di New York mi piacesse, ero sempre più convinto che, nonostante fossi il tirocinante più motivato, i “grandi capi” mi facessero sgobbare come uno schiavo solo per divertimento non facendomi nemmeno assistere ad una causa di quelle importanti.
Salii le scale che mi separavano dalla superficie, trascinandomi come un rottame e nel tragitto fino a casa sbadigliai dalle otto alle undici volte. Ero stanco, stanchissimo. Volevo buttarmi sul letto ed entrare in coma fino al lunedì successivo. Era quasi un anno che conducevo quella misera vita di pendolare/schiavo e la stanchezza fisica e mentale iniziavo a sentirla. Alzai svogliatamente lo sguardo e vidi il mio appartamento. Sul volto mi si dipinse un'espressione da povero decerebrato, mentre nella mia testa sentivo cori angelici.
Finalmente ero a casa.
152 Ludlow Street. Abitavo nel Lower East Side a New York, in un appartamento di mattoni arancioni. Mi ero trasferito dall'Ohio per frequentare legge alla NYU e con l'aiuto di mio padre ero riuscito a sistemarmi al 152. Amavo il mio appartamento al settimo piano e amavo il mio quartiere, che era molto tranquillo e mi faceva sentire a casa, al contrario del centro di New York, troppo chiassoso per i miei gusti di provinciale. Per un ragazzo dell'Ohio, New York è uno shock traumatico. La frenesia, i rumori, i vapori delle metropolitane che escono dai tombini come nei classici dei film dell'orrore, la moltitudine di gente che cammina veloce, i grattacieli, l'odore di hot dog in qualsiasi angolo della strada, gli innumerevoli taxi gialli sempre in coda. La mia prima settimana a New York l'avevo passata a piangere raggomitolato in cucina, pentendomi di essermi trasferito da un giorno all'altro senza valutare i pro e i contro, come invece era mio solito fare. Poi le lezioni erano cominciate, avevo cominciato a fare amicizia e tutto aveva iniziato a procedere per il meglio.
-James!- fui risvegliato dalla pimpante voce della signora Tibs, la mia anziana vicina del quarto piano. Aveva i capelli argentati raccolti in una crocchia alta, il viso accaldato e indossava una tuta blu con disegni rosa di due taglie più grandi. Era una donna massiccia, ma buona come il pane.
-Signora Tibs, è andata a correre?- le chiesi, gentile coma al solito, sorridendole sinceramente interessato.
-Oh, caro. Se mi mettessi a correre, mi romperei in mille pezzi come un puzzle!- disse ridendo, strizzandomi l'occhio complice, e continuò – In realtà ho fatto una passeggiata per schiarirmi le idee e per tentare di smaltire la deliziosa torta che mi ha portato la piccola Sunny- continuò, salendo con me i sette scalini che ci separavano dall'ingresso principale del nostro appartamento. Le aprii la porta, facendola entrare per prima mentre lei continuava il suo monologo -Quella ragazza è un diavolo tentatore! Ho provato a rifiutare, ma per poco non mi ficcava a forza giù per la gola quel ben di dio di torta. A proposito, potresti dirle di passare da me domani pomeriggio?- mi chiese, guardandomi quasi allucinata. Aggrottai leggermente le sopracciglia e annuii semplicemente. C'era qualcosa di strano nella signora Tibs. Premetti il tasto dell'ascensore e dopo aver sentito il famigliare tin, che segnalava che le porte si stavano per aprire, feci segno alla signora Tibs di entrare per prima.
-Non oggi, James! Mi darò alle scale- disse trionfante dirigendosi verso le scale. In quel momento ne ero più che certo: qualcosa di strano stava succedendo alla signora Tibs. Per quanto dolce e gentile fosse, la pigrizia la contraddistingueva. Da che mi ero trasferito al 152 non aveva mai fatto le scale, e da quello che mi aveva raccontato erano forse decenni che non faceva attività fisica. E non era di certo colpa di una torta se quel giorno si era data all'esercizio. Sunny le portava sempre torte, cupcakes, pasticcini e tutte quelle schifezze e la mia vicina non si era mai posta il problema di “smaltirle”.
-Signora Tibs è sicura di stare bene?- le chiesi un po' preoccupato, accompagnandola su per le scale, fino al quarto piano.
-Mai stata meglio, caro!- rispose semplicemente con un sorriso felice stampato sul viso.
Canticchiò Memory cercando di coinvolgermi in una piccola coreografia, ma rifiutai l'offerta sorridendo. Arrivammo al suo appartamento e prima di sparire in casa sua mi disse: - Ringrazia ancora quel diavoletto- mi posò un leggero bacio sulla guancia ed entrò nel suo appartamento.
Girai i tacchi e finii la mia scalata in ascensore, chiedendomi che diavolo potesse essere preso all'arzilla vecchietta, per averla trasformata in un bulldozer da battaglia.
Rispetto a tutti gli altri piani del 152, il settimo, dove vivevo io, aveva l'accesso diretto al tetto. Amavo passare i weekend estivi a rilassarmi sul tetto con una birra e un buon libro sdraiato su un'amaca che mi aveva regalato mio padre, quando aveva notato dell'enorme spazio all'aperto a pochi passi da casa mia. Ma era ottobre e le piogge quasi torrenziali mi impedivano di passare il mio tempo libero a quel modo.
Uscii dall'ascensore pronto per buttarmi come un tuffatore olimpionico sul divano, quando notai che la porta di casa era aperta. Aprii la mia ventiquattrore e sfoderai il mio piccolo ombrello nero, pronto a colpire qualsiasi intruso. Appoggiai la mano alla porta e la aprii silenziosamente. Ero pronto allo scontro fisico. Allungai velocemente il mio ombrello ed entrai a passo felpato in casa. La televisione era accesa e la potente voce di Oprah Winfrey risuonava nel salone vuoto. Appoggiai con cautela la mia ventiquattrore sul mobiletto di vetro vicino alla porta d'ingresso e mi avvicinai alla cucina. Lo sportello del frigo era aperto, così come tutte le ante dei mobili della dispensa.
-Gesù, Jimmy! Sei tu! Mi hai fatto prendere un colpo!- la sua voce bambinesca mi fece voltare di scatto, brandendo minaccioso l'ombrello. Mi guardava ad occhi sgranati e aveva in mano una forchetta da dessert, brandita anch'essa come un'arma.
-Sunny! Perchè diavolo hai lasciato la porta aperta? Pensavo ci fossero i ladri!- sbraitai verso la mia coinquilina, abbassando l'ombrello. Lei mi guardò un attimo, per poi concentrarsi sul mio ombrello.
-Li avresti terrorizzati a morte con quell'ombrello- disse ridendo, prendendosi gioco di me.
Alzai gli occhi al cielo. - Dico sul serio, devi smetterla di lasciare tutto aperto, frigo compreso!- dissi, prima di apprestarmi a chiudere tutti gli sportelli. -A proposito- continuai – Ho incontrato la signora Tibs e - ma lei mi interruppe – E' viva, allora? Oh grazie al cielo- disse, appoggiandosi una mano sul petto come se si fosse tolta un enorme peso dal cuore.
-Certo che è viva! Insomma mi ha detto- ma mi bloccai. La guardai un attimo: i suoi grandi occhi blu lasciavano trasparire una sola parola: “colpevole”. Lo sapevo! -Cosa hai fatto alla signora Tibs?- le chiesi, con tono severo da avvocato d'accusa.
-Niente- rispose semplicemente attorcigliandosi una ciocca di capelli lilla intorno all'indice.
-Sunny...- la incalzai.
-Oh, d'accordo!-esplose lei. Bastava così poco per farla cedere. - Oggi ho finito tardi giù al negozio e ho chiesto a Tuck di farmi due torte: una per me e una per la signora Tibs. Gli ho ripetuto un milione di volte che doveva segnare la mia, ma si è dimenticato e io non ho controllato prima di arrivare a casa. Erano praticamente uguali, quindi sono andata a caso e le ho dato involontariamente la torta sbagliata- vomitò la sua confessione gesticolando come una matta.
Avevo paura a chiederlo, ma lo feci comunque – E cosa c'era nella tua torta?- chiesi tra l'impaurito e l'esasperato.
-Era una- sospirò, quasi per farsi coraggio e sputò la verità, evitando di guardarmi negli occhi -Era una torta alla marijuana-.
La mia bocca era talmente spalancata che non mi sarei sorpreso se avesse toccato il pavimento.
-Però hai detto che è viva, quindi non ci sono problemi, giusto?- cercò di sdrammatizzare, sorridendomi come una mocciosa.
-Non ci sono problemi? Era appena tornata da una camminata e si è messa a fare quattro piani di scale a piedi!- urlai senza controllo.
Sunny si fece piccola, piccola, più di quanto già fosse nonostante i suoi 24 anni. -Un po' d'esercizio non fa male a nessuno- disse cercando di ammorbidirmi.
-Un po' d'esercizio?! Ha ottantotto anni, razza di tossica!- sbraitai come un animale nella jungla pronto a divorare la mia preda.
-Eppure è strano. La marijuana ha proprietà sedative. Non dovrebbe dare effetti di iperattività- spiegò la mia coinquilina con fare da so-tutto-io. -Certo, magari prende qualche altra medicina che ha annullato l'effetto di rilassamento della marijuana- continuò nel suo monologo delirante – Eppure è strana come reazione. La marijuana viene anche usata come medicinale per alcuni tipi di malattie, anche terminali. Magari le ho allungato la vita!- concluse trionfante.
-Zitta! Stai zitta, per l'amor del cielo!- ululai, quasi in preda alle convulsioni – Hai dato della droga alla nostra anziana vicina! Non cercare scuse!-
-Non sono mica una spacciatrice! La droga stava nella torta!- sentenziò lei, incrociando le esili braccia al petto.
-Oh, scusami tanto per l'errore tecnico! Hai dato una torta farcita di droga alla nostra vicina di ottantotto anni! Potrebbe morire!- cercavo di mantenere la calma, ma mi era impossibile. Mi immaginavo i titoli dei giornali il giorno successivo in cui si annunciava che una dolce vecchina era morta dopo aver assunto della droga tramite una torta portatele dalla mia coinquilina cerebralmente deficiente. Magari avrebbero arrestato anche me come complice dell'omicidio. Tutto il mio lavoro sarebbe svanito per colpa di una torta. I miei sogni, le mie speranze per un futuro migliore. Tutto sarebbe andato a puttane. Da avvocato sarei diventato un cliente. Da persona per bene sarei diventato un criminale. -Ti conviene controllare che stia bene. Inventati una scusa qualsiasi per stare giù con lei, chiaro?- le dissi, riprendendo il controllo, scacciando i miei pensieri deliranti. Lei sbuffò alzando le spalle, indecisa sul da farsi e su quale scusa raccontare alla signora Tibs. Uscì di casa sbattendo i piedi, lasciando nuovamente la porta d'ingresso aperta. Alzai gli occhi al cielo, chiusi la porta e mi buttai sul divano. La voce di Oprah mi accompagnò tra le braccia di Morfeo. Mi addormentai con un braccio fuori dal divano, sdraiato sulla pancia e con la faccia schiacciata su un cuscino. Una posizione più scomoda non avrei potuto trovarla nemmeno se mi fossi impegnato, ma non mi importava. Volevo solo dormire.

 


C'era odore di caffè. Aprii di controvoglia un occhio. Il volume della televisione era al minimo, ma riuscii a intravedere la figura di Spongebob sullo schermo. Mi schiarii la voce e mi stropicciai la faccia con una mano. Sunny era seduta in modo sgraziato su una poltrona, arricciando un pezzo di carta con maestria senza nemmeno guardarlo. Mi tirai su a sedere e fu in quel preciso momento che notai di essere sommerso da piccoli origami a forma di unicorno.
-Ma che diavolo...?- borbottai con la voce ancora impastata dal sonno.
Attirai subito l'attenzione della mia coinquilina fabbricatrice di origami, che si alzò di scatto, come una molla, dalla poltrona. -Attento, non sedertici sopra!- mi rimproverò sorridendo, aiutandomi a spostarli sul tavolino.
-Volevi seppellirmi sotto la carta?- le chiesi appoggiandomi allo schienale del divano, massaggiandomi il costato.
-Hai occupato il divano e non sapevo dove metterli- disse semplicemente. Mi passò una tazza fumante e riprese a manipolare la carta con le sue piccole mani.
Sunny non beveva caffè, quindi l'aveva preparato appositamente per me. Non eravamo molto amici, nonostante vivessimo nella stessa casa da quasi cinque anni. Eravamo molto diversi. Lei era una pazza, mezza hippie, fissata con i fiori e gli unicorni. Io ero un classico e normale ragazzo americano. Io cercavo di non starle in mezzo ai piedi, lei si impegnava per darmi fastidio in qualsiasi momento. Era insopportabile, infantile e a dirla tutta non ero molto felice che in casa mia circolasse tutta quella droga. Mi illuminai all'improvviso.
-Come sta la signora Tibs?!- chiesi allarmato, temendo già il peggio.
Lei non distolse gli occhi da Spongebob. -Bene- rispose semplicemente.
-Che significa bene?- la tampinai insistente.
-Bene significa bene. Se fosse morta mi staresti aiutando a sbarazzarci del corpo- disse ridendo.
-Non c'è niente da ridere. Stai attenta la prossima volta che le dai una torta- dissi prima di nascondere il viso nella tazza di caffè.
Lei alzò semplicemente le spalle. Forse la discussione che avevamo avuto il giorno prima era stata la conversazione più lunga che avevamo avuto da quando ci conoscevamo. Non che mi importasse. Ai miei occhi Sunny era più una scocciatura che un dono del cielo.
Finii il mio caffè e mi alzai dal divano, stiracchiandomi rumorosamente. Andai in cucina per lavare la tazza e come al solito vidi che tutti gli sportelli delle credenze erano aperti. Li chiusi con forza, particolarmente scocciato dal fatto che la mia coinquilina non ascoltasse minimamente le mie piccole richieste. Lavai velocemente la tazza e chiamai il mio amico Aaron. Non rispose immediatamente, quindi le cose erano due: o stava ancora dormendo o era in dolce compagnia.
-Pronto?- la sua voce era bassa e roca. Ciò significava che con lui c'era una ragazza.
-Ehy, Aaron, sono James. Disturbo?- chiesi, sghignazzando sotto i baffi. In sottofondo sentii una voce sensuale dire al mio amico -Vado a preparare la colazione-.
-No, amico. Dimmi tutto- mi rispose Aaron, tossicchiando.
-Oggi pomeriggio hai da fare? Pensavo di andare da Starbuck's e poi fare un salto in palestra. Ci stai?- gli chiesi entrando in camera mia. Ci accordammo sul luogo e l'ora e chiusi la chiamata. Presi dall'armadio una t-shirt e un paio di pantaloni della tuta e mi chiusi in bagno a fare una doccia.
Mi asciugai alla meglio i capelli con un asciugamano e dopo essermi vestito velocemente, uscii dal bagno. Sunny non c'era. Probabilmente era al Cake Shop, il locale davanti casa dove lavorava da quasi due anni. Era un posto particolarmente strano. Durante la settimana era un comune negozio che vendeva torte. Invece nel weekend diventava un locale, con musica dal vivo o karaoke. Sunny faceva la cameriera part-time. Anche se “part-time” non era l'aggettivo giusto. Più di una volta, il sabato sera era costretta a fermarsi a lavorare fino alla mattina seguente, nonostante avesse lavorato tutto il giorno. Ma non l'avevo mai sentita lamentarsi con la sua amica Audrey. A quanto pare a lei stava bene così. Forse era l'unica cosa che avevamo in comune: eravamo schiavizzati senza pietà dai nostri capi. Al Cake Shop c'ero stato solo un paio di volte con Aaron. Sunny lavorava già lì. Ricordo di averla vista stremata su uno sgabello, appoggiata al bancone dei cupcakes. Poi si era avvicinata ad un tavolo e un ragazzo poco più grande di lei aveva iniziato a infastidirla seriamente, con battutacce di cattivo gusto e palpeggiamenti vari. Lei se l'era cavata bene con quell'idiota. E io non ero intervenuto. Lei sapeva che avevo visto tutta la scena. Non mi ero mai vergognato tanto in vita mia. Forse era stato per quello che non avevo più messo piede al Cake Shop. Anche se la mia coinquilina non aveva mai parlato dell'accaduto. Insieme a Sunny lavoravano Tuck, il ragazzo addetto alle torte, Kate e Mandy, altre due cameriere, e Byron, il barman del weekend. Tutti studenti sottopagati che avevano bisogno di lavorare per pagarsi gli studi. Tutti tranne Tuck, che era il figlio del proprietario, e Sunny, che aveva abbandonato il college pochi mesi dopo essersi trasferita in casa mia. Non le avevo mai chiesto cosa studiasse, né lei me l'aveva mai detto. Cosa volesse fare Sunny della sua vita era un mistero per me. Sembrava vivesse sempre alla giornata, per quel poco che la conoscevo. Al contrario di me, che prevedevo qualsiasi cosa, anche la più misera. Dovevo avere tutto sotto controllo. E con Sunny come coinquilina, la cosa mi risultava sempre più complicata.
Raggiunsi Starbuck's a un paio di isolati dal mio appartamento. Aaron era già lì. Lo vidi scompigliarsi la chioma castana riccioluta sotto le lunga dita affusolate della sua mano. Portava un paio di occhiali da sole, anche se di sole non ce n'era molto. Probabilmente li aveva indossati per nascondere le profonde occhiaie che marcavano il suo viso, causate dalla folle notte di sesso selvaggio che aveva trascorso con la sua amica della colazione.
-Ehy, Jimmy! Pensavo ti fossi perso!- mi salutò con un leggero pugno sulla spalla. Ci scambiavano spesso per fratelli ed entrambi non capivamo perché. Forse le nostre mascelle squadrate erano simili, o forse era per il taglio degli occhi. O magari eravamo così uniti e dispettosi l'uno nei confronti dell'altro che l'unica spiegazione per chi ci vedesse era che eravamo fratelli.
-Idiota, stai attento- lo ammonii, massaggiandomi la spalla e aprendo la porta di Starbuck's.
-Hai mai visto tante fighe in un posto solo?- bisbigliò con la voce da maniaco seriale il mio amico, che aveva un'unica cosa in testa. Sbuffai scrollando le spalle e mi avvicinai al bancone per ordinare un caffè. Non che non avessi notato la moretta che scriveva qualcosa sul suo pc, o la biondina seduta vicino a me che mordeva così sensualmente quel biscotto alle mandorle. Ma le ragazze erano l'ultima cosa a cui pensavo. Se fossi diventato un avvocato a tutti gli effetti presso lo studio in cui lavoravo, avrei potuto darmi allo svago. Ma essendo un precario schiavizzato, non potevo concedermi il lusso di una storia d'amore. Aaron mi ripeteva che per storie da “una botta e via”, come le definiva lui, non c'era bisogno di chissà quale sforzo mentale. Ma non ero tipo da storie di una sola notte, come invece lo era il mio amico, che deteneva il record americano per “botte e via”.
-Ti prenderai qualche malattia- lo sfottevo ogni volta. Ma lui sembrava non badarci più di tanto. E quando si sarebbe preso la clamidia, la sifilide o entrambe gliel'avrei sputato in faccia il mio “Te l'avevo detto”. Aaron era bello e sapeva di esserlo. E non c'è cosa peggiore di un uomo che sa quanto sia bello. Forse solo una donna. Alcune volte diventava egocentrico e arrogante, ma come glielo facevo notare, tornava il mio amico di sempre. Non era colpa sua se madre natura aveva fatto un buon lavoro con lui. Si ostinava nel dire che se avessi voluto gli avrei fatto una certa concorrenza. Ma io personalmente, mi ritenevo un ragazzo comune. Un anonimo in mezzo alla massa. E nonostante i complimenti che Aaron si lasciava sfuggire qualche volta, rimanevo fermo nella mia posizione.
La piccola cameriera dai tratti orientali mi passò il caffè, sorridendomi gentilmente. Aveva un piccolo neo sulla sinistra del labbro superiore, esattamente come Marilyn Monroe. Le sorrisi, ringraziandola con lo sguardo e mi voltai alla ricerca di Aaron. Ovviamente aveva attaccato bottone con una donna.
-Kendra!- esclamai, ma mi corressi subito – Voglio dire, Miss Donovan!- e le porsi la mano libera dal bicchierone di caffè. Aaron mi fissò come se gli avessi aperto le porte del paradiso e io lo ignorai volontariamente.
-James, anche tu qui?- mi chiese dopo avermi stretto la mano con dolcezza. Kendra Donovan, giovane associato dello studio Bewey&DeLoeuf era seduta davanti a me. Le gambe accavallate in maniera composta, la piega dei suoi corti capelli neri impeccabile, così come il suo trucco. Era una donna magnifica. Una specie di creatura angelica scesa sulla Terra per far innamorare chiunque. Ed era uno degli avvocati più competenti di tutta New York.
-Sì, il sabato di solito vengo qui e poi vado in palestra- la informai, come se la cosa potesse interessarle. Mi diedi dello stupido mentalmente: uno dei “grandi capi” era seduto davanti a me e io parlavo di caffè e palestra. Ma certo! -Vuole un caffè?- le chiesi cercando di apparire meno idiota ai suoi occhi.
Lei rise. Una risata così melodiosa che mi fece perdere il contatto con il resto del mondo per cinque secondi. -No, ti ringrazio. Se bevessi un altro caffè, non dormirei più- rispose gentilmente.
Lanciai un'occhiataccia ad Aaron, sapendo già che stava per dire una battuta di cattivo gusto e di dubbia moralità, che lo fece tacere e abbassare lo sguardo.
-Comunque...hai detto palestra?- bisbigliò Kendra, accarezzandomi un braccio lentamente – Mi sembrava fossi più in forma- finì, accennando un leggero sorriso. Aaron stava per scoppiare, lo sapevo. Se lei avesse continuato, non lo avrei più potuto trattenere. Uscire con Aaron era come uscire con un tredicenne con gli ormoni in subbuglio. Nonostante lui di anni ne avesse ventisei, esattamente come me.
-Oh, ehm, grazie- mormorai imbarazzato. Non era mai stata particolarmente interessata a noi poveri tirocinanti. E sinceramente non pensavo sapesse addirittura il mio nome.
-Sai, Yan e Roger stavano giusto parlando di te e dello splendido lavoro che hai fatto negli ultimi mesi allo studio e si chiedevano se fosse il caso di assegnarti qualche causa civile per iniziare- mi disse con fare complice. Guardai Aaron, per avere conferma che anche lui avesse sentito ciò che lei aveva detto e che non fosse tutta una mia invenzione mentale. Il suo sorriso a trentadue denti me lo confermò.
-Davvero?! Cioè, ne sarei molto onorato!- sputai troppo eccitato per contenermi. Finalmente avrei iniziato a fare ciò per cui mi ero spaccato la schiena da quando mi ero trasferito a New York.
Lei rise ancora, particolarmente divertita dalla mia reazione, forse troppo bambinesca e inadatta ad un quasi avvocato. -Ma certo. Ti chiameranno lunedì per prendere accordi. Ma tu non dire che te l'ho detto, d'accordo?- disse sorridente, facendomi l'occhiolino da sotto le sue lunghe ciglia nere. Annuii entusiasta -Grazie mille, davvero. Non ve ne pentirete- le dissi in tono solenne, come se fosse un affare di vita o di morte.
Lei sorrise ancora e si alzò dalla sedia. -Ora scusatemi ragazzi, ma mi aspetta un noioso brunch con vecchi altrettanto noiosi- disse, senza staccare la mano dal mio braccio. -A proposito, in quale palestra andate? Magari passo di lì più tardi- ci chiese.
-E' quella in fondo alla strada- si affrettò a rispondere Aaron, col suo sguardo da lupo famelico.
-Ah, sì, la conosco. Bhè, ci vediamo più tardi- concluse prima di congedarsi. Camminava come una gatta sinuosa, stretta nell'aderente tubino nero che arrivava appena al di sotto del ginocchio. Dio solo sapeva come facesse a camminare sui quei trampoli, ma tutto ciò che riguardava Kendra era così dannatamente sexy che tutte le domande passavano in secondo piano.
Aaron mi tirò una manata sul braccio -Si può sapere chi diavolo era?- mi chiese, incredulo del fatto che conoscessi una simile creatura.
-Il mio capo- risposi semplicemente, cercando di far affluire il sangue al cervello e non da altre parti.
-Tu hai un capo come lei e non me ne hai mai parlato?- disse, fintamente offeso. -Ci stava provando, la gatta!- sentenziò.
Alzai gli occhi al cielo. Secondo Aaron tutte le ragazze con cui parlavo, ci provavano con me. Tranne Sunny, che secondo il mio amico era asessuata perché non era caduta ai suoi piedi quando l'aveva conosciuto. Aaron aveva una piccola cotta per Sunny. Ed era strano, perché Sunny non era come tutte le ragazze che Aaron si portava a letto. Non si avvicinava nemmeno agli standard del mio amico. Era bassa, mingherlina, dimostrava si e no diciotto anni, non aveva nulla di sexy o vagamente sensuale, era pazza e credeva negli alieni. Non che le ragazze di Aaron fossero minimamente intelligenti, ma di sicuro non erano strane come la mia coinquilina. Ma probabilmente era interessato a lei, solo perché Sunny non era minimamente interessata a lui. E la cosa gli dava fastidio.
Uscimmo da Starbuck's ancora intontiti dal ricordo di Kendra e camminammo, stranamente in silenzio, verso la palestra dove ormai ci allenavamo da anni. Pete, il gestore, ci accolse come sempre, con un paio di pugni che noi schivammo velocemente. -I miei ragazzi preferiti! Attrezzi o pista oggi?- ci chiese, come un qualsiasi altro giorno.
-Attrezzi, qualcuno deve farsi bello oggi- blaterò ridendo Aaron, passandomi un braccio intorno al collo e stringendomi la gola con il suo tricipite.
-Ma smettila di fare l'idiota!- lo punii con una gomitata ben assestata nello stomaco.
-Ehy, ehy! Ci sono delle signore!- ci ammonì strizzandoci l'occhio Pete, indicando alcune ragazze che ci stavano osservando curiose.
Ovviamente Aaron diede sfoggio di sé, togliendosi la maglietta e mostrando, come un pavone fa con la sua coda, i suoi addominali perfetti, ammiccando nella direzione delle ragazze.
-Che c'è?- mi chiese ridendo della mia espressione sconsolata.
-Sei senza speranze, Aaron- disse, come leggendomi nel pensiero, Pete.


 

Stavo facendo pesi quando Aaron mi diede una manata sulla spalla. -Ma sei scemo? Che ti prende?- chiesi scocciato, appoggiando i manubri dei pesi. Indicò con un cenno del viso davanti a lui. Il viso gli si era illuminato e per un attimo temetti che Sunny fosse in palestra. Mi girai di scatto e, invece, vidi Kendra. Indossava una canottiera bianca che lasciava intravedere uno scorcio di pancia piatta e dei pantaloni aderenti che le accarezzavano il ginocchio. Lei non ci aveva notato quindi iniziò a scaldarsi facendo un po' di stretching. Quando si chinò in avanti per distendere i muscoli delle gambe, quasi caddi per terra.
-Dio benedica quel culo- mormorammo in coro io e Aaron, dandoci un pugnetto come in segno di approvazione. Mai visto un sedere tanto perfetto. Forse solo un chirurgo avrebbe potuto creare un simile spettacolo.
-Quello è tutta roba sua- disse Aaron, come se avesse sentito i miei pensieri.
Eravamo lì, fermi impalati, ad ammirare ciò che la natura aveva plasmato nelle chiappe del mio capo, quando Pete ci diede un buffetto in testa a ciascuno. -Non siamo alla Casa del Porno. Un po' di contegno!- ci sgridò, ma non poté fare a meno di dare un'occhiata a quel ben di Dio. Come avrebbe potuto non cedere in tentazione? Era un uomo e quel sedere era da togliere il fiato.
Kendra si tirò su e si voltò un attimo come in cerca di qualcuno. Appena ci vide, sorrise accecandoci col biancore dei suoi denti. -Ehy, ragazzi! Non pensavo foste ancora qui- disse, seriamente sorpresa.
-Siamo dei guerrieri e questa è la nostra arena- dopo averlo detto, perfino Aaron si rese conto di quanto fosse stupida quella battuta. Ma Kendra rise comunque, probabilmente per pietà.
-Fai pesi?- mi chiese il mio capo, studiandomi attentamente. Non riuscivo a togliermi dalla testa l'immagine delle sue natiche perfette. Infatti ci impiegai un po' per rispondere un semplice -Sì- a quella domanda semplicissima.
-Posso allenarmi con te?- mi chiese avvicinandosi in modo provocante. Ancora una volta risposi -Sì- Era chiaro a quel punto che fossi totalmente rincretinito. Lei sorrise e si morse languidamente il labbro inferiore. Con la coda dell'occhio vidi Aaron guardarmi come se fossi un completo idiota, cosa che probabilmente ero, dato che non accennavo a muovermi.
Era tutto così imbarazzante, così strano. Il mio capo che fino al giorno prima non sapeva quasi della mia esistenza, tutto ad un tratto si stava allenando nella mia palestra assumendo le pose più porche che io avessi mai visto. Cosa mi trattenne dal saltarle addosso, fu solo il fatto che il pensiero che fosse il mio capo mi martellava il cervello. Quando sarei arrivato a casa mi sarei fatto una doccia fredda, anzi mi sarei immerso nel ghiaccio. Probabilmente ogni volta che avrei rivisto Kendra al lavoro, l'avrei immaginata sotto di me, sudata e ansimante. Ma sarei riuscito a sopravvivere anche senza portarmela a letto. Era il mio capo, e per quanto il mio spirito cavernicolo e selvaggio mi dicesse di cavalcarla senza pietà, non potevo farlo per dovere morale. Oltre al mio spirito interiore ci si metteva anche Aaron che ad ogni occasione mi mimava scene sessuali scabrose e non mi aiutava di certo a calmare i miei bollenti spiriti.
-Stasera cosa fate tu e il tuo amico?- mi chiese Kendra, a fine allenamento. Aveva la fronte leggermente imperlata di sudore e il viso leggermente arrossato.
-Non abbiamo ancora deciso- risposi, asciugandomi il viso con un asciugamano.
-Io e alcuni amici andiamo al Tuxedo, se volete passare, ne sarei felice- disse piantando i suoi occhi da cerbiatta nei miei. Il Tuxedo era un locale alla moda in centro. Entrare lì significava spendere vagonate di soldi in drink annacquati. Ma non potevo rifiutare: infondo era il mio capo che me l'aveva chiesto.
-Certo, per che ora?- le chiesi sentendomi in un qualche modo importante ai suoi occhi.
-Noi saremo lì per le undici. Ci vediamo lì!- e mi posò un bacio sulla guancia, prima di scomparire nello spogliatoio delle donne.
Rimasi immobile alcuni secondi, come se stessi rimuginando su quello che era appena successo. Il mio capo mi aveva appena baciato sulla guancia. Come se fossimo amici. Inoltre mi aveva chiesto di raggiungerla al Tuxedo. Quel giorno mi sentii come un dio in terra. Niente poteva e doveva andare storto.
Raggiunsi Aaron e lo informai per i piani di quella sera. Sembrava molto orgoglioso e contento per me. Mi accompagnò a casa e stranamente vidi la porta aperta.
-Sunny?- la chiamai dall'ingresso. Vidi la sua chioma lilla alzarsi dal divano e stropicciarsi gli occhi. Gli occhi di Aaron si illuminarono come quelli di un bambino a natale.
-Il negozio è chiuso- disse, con la voce impastata dal sonno, come a volersi giustificare del fatto che era in casa. Alzai le spalle, senza dire niente.
-Ciao Sunny- la salutò il mio amico con troppo entusiasmo. Lei alzò un sopracciglio, visibilmente addormentata e lo salutò con un -Ciao Alex- prima di alzarsi dal divano e svignarsela in camera sua.
-E' Aaron- la corressi pignolo. Lei si fermò a guardarmi come mai non aveva fatto. Come se fossi stato una mosca fastidiosa da schiacciare senza pietà su un muro.
-Come vuoi- mi congelò prima di chiudersi la porta della sua stanza alle sue spalle.
Alzai gli occhi al cielo, notando quanto Aaron ci fosse rimasto male dalla freddezza della mia coinquilina. Non che di solito gli desse il benvenuto con grandi dimostrazioni d'affetto. Ma per lo meno azzeccava il suo nome. Ci sedemmo sul divano e notai con disgusto che sul tavolino c'era un enorme piatto pieno di briciole di torta. Come facesse quella ragazza a mangiare quantità industriali di torta senza ingrassare come un elefante, era un mistero. Accesi la televisione e guardammo una partita di baseball. Non eravamo grandi patiti di baseball, ma qualche volta ci concedevamo il lusso di sbraitare contro i giocatori.
Andai in cucina e presi due birre dal frigo, nello stesso momento in cui Sunny uscì dalla sua camera. Indossava un paio di pantaloncini sfilacciati, troppo corti per la temperatura fuori di casa, e una felpa leggera che l'avvolgeva come una piccola coperta, con al centro cucito un coloratissimo unicorno. Si era legata i capelli lilla in maniera confusa e veloce e sul suo viso, come al solito, non c'era la minima traccia di trucco. Portava una borsa a tracolla decisamente grande e pesante su una spalla e ad ogni passo il contenuto nella borsa faceva un casino infernale. Non disse niente. Non salutò nessuno. Uscì di casa e basta. A quanto pareva non era una delle sue migliori giornate. Sospirai senza speranze e tornai da Aaron, che era ancora imbambolato a guardare la porta di casa, stranamente chiusa dalla mia coinquilina.

 


Essendo molto simili fisicamente, prestai ad Aaron una camicia e un paio di jeans e quando fummo pronti uscimmo alla volta del Tuxedo. Dopo un quarto d'ora di metro e dieci minuti di cammino, raggiungemmo il locale. Kendra era già lì. Con lei c'era un'altra donna, sua coetanea. Ma non era minimamente stupenda quanto il mio capo. Aaron mi strizzò l'occhio, come a darmi coraggio. Kendra e la sua amica ci raggiunsero. Lei mi baciò sulla guancia e le mie narici vennero penetrate dal suo profumo di ottima marca. -Ops- disse portandosi una mano alla bocca -Ti ho marchiato- continuò ridendo. Mi posò la mano sulla guancia, dove poco prima mi aveva baciato, e la strofinò lentamente. -Il mio rossetto- disse per giustificare il fatto che mi stava accarezzando come se fossi un cucciolo. Entrammo, passando davanti a tutte le persone in fila e ci sedemmo a un tavolo vicino a un acquario. La musica non era così alta e si riusciva a chiacchierare tranquillamente senza doversi urlare nelle orecchie, come nella maggior parte dei locali di New York. Stavamo per ordinare quando il mio cellulare iniziò a squillare insistentemente.
-Pronto?- chiesi scocciato. Kendra mi fissava, curiosa.
-Aaron, sono Audrey. L'amica di Sunny- la voce gentile di Audrey, mi parve molto fastidiosa in quel momento.
-Dimmi- risposi secco. Doveva centrare Sunny, per forza. Audrey non mi avrebbe chiamato così a caso se la mia coinquilina non avesse combinato qualcosa.
-Ecco, non sapevo chi chiamare e mi sei venuto in mente solo tu. Sunny è stata arrestata- disse tutto d'un fiato.
Lo sapevo. Solo lei poteva rovinare la mia giornata perfetta. Se di solito non sopportavo la mia strana coinquilina, in quel momento la odiai profondamente.

  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: CookieKay