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Autore: Tomi Dark angel    05/10/2013    4 recensioni
SPIN-OFF DELLA STORIA: "DAL SOLE E DALLA LUNA NACQUE L'ALBA".
Balthazar è a pezzi. Ha commesso un errore, compiuto una scelta sbagliata e... ha abbandonato Belial. Ha sbagliato, ma c'è sempre un modo per riparare... soprattutto se a metterci lo zampino è un arcangelo biondo e goloso di dolci!
Genere: Generale, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Balthazar, Gabriel, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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-Non so più cosa pensare, Gabriel, e in realtà… ma mi stai ascoltando?!-
-Spaccagli la testa!!! Aprilo in due come una mela, dio del tuono!-
Gabriel sballottò il joystick della play station con foga, facendo oscillare pericolosamente il filo che lo collegava alla console. Sedeva a gambe incrociate per terra, davanti alla televisione al plasma che aveva preteso di piazzare contro la parete di casa Singer, nella quale ormai vivevano praticamente angeli e cacciatori. Quella era una terra di mezzo, una zona neutra dove gli angeli potevano distendere le ali adamantine al sole e guardare da lontano le movenze aggraziate del mondo che poco a poco cresceva, invecchiava, si plasmava tra le mani dell’uomo e di Dio stesso.
Lì le guerre erano proibite, tenute a bada dagli arcangeli, sovrani di quel luogo e dallo stesso Lucifero, che per molti versi ormai sembrava incarnare una pace silenziosa, screziata di dolore tutte le volte che era costretto a incatenarsi al suo regno, lontano dalla sua vera casa, dalla sua famiglia… da Michael. Era uno stallo, una maledetta impasse che lentamente straziava i miseri resti di un’anima già logora di suo.
Nessuno poteva aiutarlo. Nessuno vedeva il suo dolore sofferto nel silenzio di una goccia di cristallo, lacrime sopravvissute che nemmeno il calore infernale aveva saputo vincere.
E quello stesso dolore, quel senso di separazione, di annullamento… Balthazar lo stava provando sulla sua stessa pelle. Si sentiva debole, a pezzi, stanco di una vita che si trascinava sui passi di una codardia antica e senza tempo.
Era scappato per tanto tempo, schiudendo al vento le ali di zaffiro e acquamarina, ascoltando l’aria che sfiorava gentile ogni piuma preziosa, leggera di una seta tessuta dalla pazienza di Dio stesso. Un tempo, si era beato del vento che sapeva trascinarlo via, lontano dal mondo, dalla sua famiglia, da se stesso. Adesso lo odiava. Faceva dannatamente male scappare, eppure lo faceva.
Non aveva più visto Belial, dopo la battaglia contro le repliche. Tre mesi. Tre maledetti mesi di fuga, di isolamento. Era scappato all’istante, allontanandosi da quegli occhi limpidi di cristallo che sembravano rispecchiare una fedeltà infinita e un mondo donato solo a lui, che non avrebbe saputo custodirlo. Belial era la Stella del Mattino, la benedizione di una carità gentile che era riuscita a risorgere dalle ceneri della sua condanna.
Balthazar non voleva credere che qualcosa di così puro avesse scelto lui. Era un soldato, un uccisore dei suoi stessi fratelli. Sapeva brandire una spada, ma non una carezza. Sapeva combattere, ma non abbracciare.
L’amore non gli era stato insegnato, l’amore non si insegna mai.
Così, lui si era allontanato da quel territorio sconosciuto, confuso, che sapeva di una pace serena, dolce, infinita più dell’universo. Non poteva essere capitato a lui. Non lo meritava, aveva sbagliato una volta di troppo in passato e adesso… adesso qualcuno gli concedeva un’oasi immeritata, un caldo abbraccio dove piangere e riposare. Era bello, era pericoloso. Belial meritava di più.
Aveva vagato per mesi, ferito dalle sue stesse scelte ma deciso a non sporcare quella Grazia di cristallo, placida nella sua delicata trasparenza. L’avrebbe osservato da lontano, con occhi innamorati ma fermi di una volontà di ferro che gli imponeva di lasciarlo andare.
Non sapeva perché alla fine si era trascinato lì, al cospetto di Gabriel, che l’aveva accolto con noncuranza nonostante fosse sparito per due mesi. Non portava mai rancore, glielo si leggeva in quegli occhi screziati d’oro e smeraldo, ma Balthazar non smetteva mai di stupirsi. Gabriel accoglieva chiunque col sorriso e una gentile strizzata d’occhio, che si trattasse di Lucifero o di uno dei suoi fratelli. Non vedeva differenze, non le notava mai, e questo lo rendeva speciale, pulito di ogni rancore.
La guerra, aveva insegnato loro molto più di quanto avrebbero immaginato. Ognuno avrebbe ricordato, sofferto, guardato a quei volti che non sarebbero tornati indietro. Sangue. Sangue e fiamme d’inferno e paradiso mescolati. Così come nella battaglia i loro animi avevano saputo fondersi in un unico fremito di violenza, così sarebbe accaduto di nuovo nella tolleranza, su una Terra che non meritava la macchia di altro sangue innocente.
I potenti avevano deciso così e così l’accordo sarebbe stato rispettato.
Balthazar inspirò con forza dal naso in nome di un autocontrollo che sentiva prossimo al cedimento. -Gabriel, hai ascoltato almeno una parola di quanto ho detto?-
-No, per niente. Vuoi giocare, dolcezza?- chiese dopo un po’, tendendogli il joystick. Dannato Gabriel e il giorno in cui aveva scoperto quel gioco… come si chiamava… Balthazar non lo ricordava, ma si trattava di un picchia duro con tutti i personaggi della Marvel e della DC. E Gabriel non usciva di casa da due giorni grazie a quel dannatissimo gioco.
-Gabriel, dannazione!- urlò esasperato Balthazar. –Sto parlando da un’ora!-
-Eh? Davvero?-
-Sono tentato di lanciare qualcosa contro quel televisore, perciò non sfidare la sorte.-
Gabriel sospirò e si massaggiò gli occhi con due dita. –E va bene, dolcezza, ma lasciatelo dire: non sai divertirti per niente.-
-Gabriel…-
-E hai un aspetto terrificante.-
-Grazie tante!-
-Se sei venuto qui per sentirmi sfornare complimenti, allora cambia casa: ti sto dicendo soltanto la verità, pasticcino.-
Balthazar sospirò. Sapeva che Gabriel aveva ragione, ma sentirsi dire in faccia fino a che punto era malridotto faceva male. Si sentiva vecchio, i capelli si erano allungati leggermente e gli occhi blu oceano si specchiavano in una tristezza incolore, spenta di ogni speranza. Era stanco, Balthazar. Le ali pesavano, facevano male. A breve forse, non avrebbe volato più.
Cosa si provava a cadere, a spezzarsi le ali?
Gabriel lo sapeva bene. Ricordava ancora, piegato in due dal dolore quando qualcuno, specialmente Sam, non guardava. Era un incubo e Gabriel lo riviveva spesso, tremava nella sua morsa di ferreo diamante oscuro. Non si ribellava. Non era giusto provarci, perché quelle sensazioni gli ricordavano un passato che non andava cancellato, ma bensì tollerato nel suo peso immenso di dolore. Lo rendeva umano, fragile e forte allo stesso tempo.
-Qualcosa non va con l’altro pasticcino?- domandò allora Gabriel, fissandolo. Balthazar annuì lentamente con un sospiro esausto.
-Io… sono scappato, Gabriel. Sono fuggito a gambe levate dopo la battaglia e da allora… da allora non lo ved… OUCH!!! Ma sei scemo?!-
Gabriel gli aveva lanciato il joystick in testa con tanta forza che Balthazar si era sbilanciato all’indietro, rischiando di rovesciare il divano. Si massaggiò la fronte, sulla quale spiccava un grosso taglio che partiva dal sopracciglio fino all’attaccatura dei capelli. Ma di che accidenti era fatto quel joystick, di ferro angelico?!
-Ma sei normale?!- sbraitò Gabriel, gesticolando. –Sei scappato? Sei scappato davvero?! La tua stupidità è direttamente proporzionale alla bellezza del tuo culo!-
-Non sono… aspetta, continui a guardarmi il culo?!-
-Sono un arcangelo, non un cieco! E non mi distrarre! Come hai potuto abbandonare Belial in quel modo? Ecco perché non lo sento da un po’! Vi lascio soli un paio di mesi e guarda cosa mi combini, pennuto dalle chiappe sode!-
-LO SO!!!-
Balthazar strinse i denti, chinò il capo. Serrò forte le palpebre fino a farsi male, desideroso di cancellare i suoi sbagli e quel tremendo peso alle ali.
Aveva paura. Era un codardo. Era innamorato.
-Conosco i miei errori.- mormorò con voce roca. –E, oh Padre mio… se potessi cambiare le cose, lo farei. Ma non posso. L’ho ferito, Gabriel, sono andato via senza guardarlo in faccia semplicemente perché troppo spaventato dal male che avrei potuto fargli. Belial è così delicato e incarna una dolcezza che questa Terra neanche merita di accogliere… il suo sorriso bastava a farmi respirare aria pulita, perché era la sua serenità che potevo inalare. Stavo bene con lui, io… ero felice. Mi appoggiavo alla sua purezza, alla carezza delle sue ali e in quei momenti di pace credevo di toccare il cielo senza aver staccato i piedi dal suolo. Il mio cielo era lui, il mio paradiso l’ho sempre visto nei suoi occhi… e io gli ho voltato le spalle. Una volta gli dissi che per affrontare qualsiasi problema, io ci sarei stato sempre, anche solo per offrirgli una spalla su cui piangere. Ma cosa posso fare se il motivo del suo dolore sono io?-
Le lacrime sanno essere così leggere, a volte: sfiorano il viso in una carezza gentile, che sa di mera consolazione e silenziosa promessa a un dolore che poco a poco sfoga, fuoriesce e alleggerisce il suo peso.
Balthazar singhiozzò e si premette una mano sulla bocca per soffocare quello stupido sfogo. Non era da lui crollare così, sentirsi debole, fragile come cristallo in equilibrio sul bordo di una mensola.
-Io… scusami, Gabriel.- mormorò, respirando profondamente, ma Gabriel sorrise e gli strinse una spalla, facendogli sollevare il viso. Chinò il capo, gli baciò con dolcezza la fronte in uno sfiorarsi di labbra calde di parole sussurrate e pelle fresca. Era un gesto nobile, da arcangelo: era una benedizione.
-Sai cosa fare, fratello mio.- mormorò sulla sua pelle, appoggiando l’altra mano sul collo di Balthazar. –Sai cosa è giusto fare. E allora vai. Se deve essere il tuo ultimo volo, il tuo ultimo sussulto di libertà… allora fa che sia per lui. Glielo devi, dolcezza.-
Indietreggiò di un passo e fece l’occhiolino a un Balthazar che sorrideva tra le lacrime, forte di un ultimo obbiettivo, di un’ultima scelta che per una volta, doveva essere giusta.
Forse Belial lo avrebbe respinto o forse ancora non avrebbe voluto vederlo affatto, ma meritava gli ultimi sforzi di Balthazar. Glielo doveva per ripagarlo dei mille sorrisi regalati, delle carezze mai assenti nei momenti del bisogno. Glielo doveva perché Balthazar lo amava con tutto se stesso.
Stava per correre fuori quando uno scoppiettio distrasse la sua attenzione. Lui e Gabriel si voltarono verso la cucina, dalla quale schizzò fuori una volpe enorme, il Behemah Aqedà di Gabriel, Sindragosa.
-Che cazz… I POP CORN!!! HO DIMENTICATO DI METTERE IL COPERCHIO ALLA PADELLA!!!!!-
Gabriel corse in cucina, inseguito dalle risate di Balthazar che si voltava e varcava la porta del salotto, uscendo all’aria aperta.
Il solo pensiero di Belial gli fece spiegare le ali all’istante. Immense, così ampie che parevano voler abbracciare il mondo intero coi loro riflessi di zaffiro che lentamente sfumava in un tenue acquamarina. Ali di piume leggere, sovrapposte da mani esperte che avevano saputo costruire uno spettacolo di luminescente Grazia donata agli uomini, alla Terra, alla protezione di un bene superiore.
Si dice che gli angeli siano puri concentrati di carità e potenza divina. C’è chi ancora può vederli, chi ne sfiora l’essenza semplicemente soccorrendo un barbone per strada. Basta crederci, basta aguzzare lo sguardo quando uno scintillio di luce purissima si spiega come un manto di diamante alle spalle di un estraneo.
Balthazar si sentiva forte, rinato. Era bastato pensare a Belial, al suo viso, al suo tocco per respirare di nuovo. E improvvisamente, le sue ali si risanavano, erano più leggere, fatte d’aria e aurora variopinta.
Balzò, sbatté le ali. Comparve dinanzi a una porta, in un giardino curato in Svezia, poco fuori dalla città di Kiruna. La casa rustica, semplice, si trovava al confine con una fitta boscaglia di alberi ricoperti di neve candida che faceva assomigliare il paesaggio a un’immensa distesa di candida seta drappeggiata. Piccoli cristalli di neve piovevano danzando dal cielo, sfiorando i capelli di Balthazar, le sue ali, il corpo, il viso. Erano carezze dolci, consolatorie, che volevano incitarlo a dare una sbirciata dove il suo stesso animo aveva sempre cercato di spingersi.
Lì, oltre quella porta di legno rinforzato, poteva esserci l’altra metà della sua vita. La sua condanna, la sua rovina… il suo amore.
Avanzò intimorito, goffo come un bambino che aveva appena imparato a camminare. A vederlo, nessuno avrebbe pensato che fosse un soldato di Dio, uno dei più forti e rigidi sul campo di battaglia. Adesso appariva solo come un fragile angioletto di cristallo, intessuto da sottili filamenti di paura, ansia e aspettativa.
Raggiunse la casa, bussò intimorito e fece sparire le ali con calma forzata. Attese. In silenzio, ascoltando i soffici tonfi dei cristalli che toccavano i muri della casa e la congelavano poco a poco.
La porta si aprì cigolando, silenziosa spettatrice della splendida opera d’arte che rivelò scansandosi. Belial era lì, davanti agli occhi di Balthazar. Non lo ricordava così bello, e improvvisamente tutte le immagini di lui che la testa dell’angelo aveva costruito tante e tante volte sembravano soltanto mere caricature di qualcosa di indescrivibile, così glorioso da apparire irriproducibile.
Belial era il sole e la luna, la bellezza illibata di un viso intoccabile nei suoi lineamenti gentili, fini, di giovane uomo. Tutto in lui appariva divino, eppure anche altamente intriso di umanità: quei morbidi, scompigliati boccoli color del grano, quel viso dagli zigomi alti e pallidi di un candore lunare, quegli occhi di cristallo dal taglio affilato, quasi disegnato in ogni suo particolare. Quegli occhi. Dio, quanto gli erano mancati. Dal colore indefinito, in continuo mutamento come uno specchio d’aurora boreale.
Balthazar sbatté le palpebre e per qualche istante fu così assorto dal fatto che il suo Belial fosse lì da non notare i graffi ancora sanguinanti che aveva sul viso e sulle mani e la coperta che poggiava delicata sulle spalle e intorno al suo corpo, lasciando intravedere una minuscola porzione di collo candido e longilineo scoperto.
-Be… che hai fatto?!-
Non era esattamente così che voleva salutarlo, ma si era appena accorto dei tagli che ancora sanguinavano sul corpo di Belial. Lo vide inclinare il capo, fissarlo in silenzio per una manciata di secondi. Aveva ragione. Dopotutto, Balthazar non si faceva vedere da due mesi e adesso si presentava alla sua porta urlando come un pazzo. Non poteva dettare legge lì, al cospetto di quello che non doveva dimenticare essere l’arcangelo più potente di tutti.
Sudando freddo, attese che Belial gli sbattesse la porta in faccia o peggio, ma non andò così: il viso dell’arcangelo si schiuse in un piccolo, dolce sorriso che avrebbe fatto sciogliere anche il ghiacciaio più spesso e i suoi occhi acquistarono riflessi verde acqua che si specchiarono nel cuore timoroso di Balthazar.
-Stai meglio, adesso?- disse soltanto con tanta naturalezza che Balthazar fu costretto a domandarsi se tutto questo stesse realmente accadendo. Nessuna porta in faccia, nessun pugno o grido o accusa. Solo poche parole gentili e un’occhiata che non accusava ma… perdonava.
Balthazar sentì le ginocchia tremargli. -C… cosa?-
-Ti ho chiesto se stai meglio, Balthazar. Entra dentro.-
Belial si scansò e Balthazar entrò lentamente in un salotto piccolo, col camino e il fuoco acceso. Davanti ad esso, c’era un grosso divano e a poca distanza un tavolino affiancato a una credenza di legno antico. Era un salotto piccolo ma accogliente. Profumava di Belial.
Balthazar entrò a testa bassa, seguendo i passi scalzi dell’arcangelo, che raggiunse il divano e si inginocchiò. Lo guardò, facendogli segno di avvicinarsi in silenzio, gli occhi luminosi di bambino e il volto dipinto d’oro alla luce del fuoco danzante.
Balthazar lo raggiunse in silenzio, troppo intimorito di spezzare l’incanto idilliaco del momento e quando si inginocchiò al suo fianco, così vicino da sfiorarlo, vide ciò che Belial stava guardando: un cucciolo di cane, nero, di appena due mesi, avvolto in una morbida coperta azzurra. Il divano era tutto sporco di fango e ora che lo notava, Balthazar si accorse della serie di impronte che insozzava il pavimento.
-L’ho recuperato dalle acque del fiume artificiale qui vicino. Si era aggrappato a una roccia, ma la corrente lo stava trascinando via… mi sono dovuto buttare in acqua perché c’era troppa gente e non potevo trasportarmi lì.-
Ecco spiegato il motivo delle ferite, delle macchie di fango, dell’aria stanca ma felice di Belial. Aveva recuperato quel cucciolo dal fango, lottando a mani nude per portarlo in salvo. Non aveva pensato alla sua sicurezza, ma soltanto a quella del cucciolo.
Si era comportato così anche con lui, quando si incontrarono. L’aveva raccolto, ferito e sanguinante dalle ceneri della sua stessa miseria e con pazienza infinita si era preso cura di lui, trattandolo come un piccolo diamante prezioso. Quanta diffidenza gli aveva riservato Balthazar, ma Belial non si era mai tirato indietro e ai suoi insulti aveva sempre risposto con sorrisi e carezze. Poco a poco, aveva sfondato la corazza del soldato, penetrando a fondo nella dolcezza del vero Balthazar, in quella piccola parte che aveva scordato di custodire ancora, da qualche parte nell’animo.
Belial gli aveva ricordato che era fatto anche di sentimenti, di umanità. E Balthazar, non era poi così diverso da quel cucciolo fragile e indifeso adesso appisolato sul divano davanti a loro.
Inconsciamente sorrise e sedette accanto al cucciolo, chiedendo a Belial di fare lo stesso. Balthazar si coprì la mano con un lembo della manica e la passò delicatamente sul viso di Belial, che appoggiò la guancia sul suo palmo con un sospiro e chiuse gli occhi. Balthazar lo guardò, guardò la sua espressione fiduciosa, rilassata, totalmente abbandonata a lui.
-Perché non dici niente?- sussurrò. –Perché non ti arrabbi con me per essere andato via? Ho contato così poco, Belial? Hai notato appena la mia mancanza?-
Belial aprì gli occhi, lo guardò con fare interdetto. –Di che parli? Balthazar, io ti ho semplicemente aspettato. L’ho fatto per secoli e secoli e qualche mese in più non cambia la vita. Avevi bisogno di silenzio, e l’hai cercato nella solitudine. Avevi scelto, ho acconsentito, e andava bene così. È stato giusto: anche un fiore a volte ha bisogno di tempo e pazienza per sbocciare, e io di pazienza ne ho tanta. Ne ho avuta quando ti raccolsi da terra e pulii piuma per piuma le tue ali insanguinate, ne ho avuta quando litigammo e parlammo quasi urlandoci addosso. Ne avrò sempre, perché ne hai bisogno… perché io ho bisogno di te.-
Belial chinò il capo, indifeso e tremante. –Ho bisogno della tua presenza, nel tuo calore. Sei… accidenti, per ma sei la persona più importante che esista al mondo, come puoi pensare che possa arrabbiarmi? Tu faresti a pezzi lo specchio della tua anima? Faresti a pezzi quanto ti concede ogni giorno il respiro e il barlume di un raggio di sole?-
Belial allungò una mano, strinse forte la giacca di Balthazar senza trovare il coraggio di guardarlo negli occhi. Lo sentiva lì, contro il calore morbido del tessuto: il dolce battito di un cuore caldo, innamorato. Un cuore d’angelo. Era qualcosa di tangibile, a portata di mano. L’altra metà di se stesso era proprio lì, racchiusa nel corpo di Balthazar. Si era donato a lui, gli aveva regalato quel poco che possedeva nella sua povertà di anima lacerata e per qualche tempo aveva creduto che non fosse stato abbastanza.
Era rimasto solo, ma aveva aspettato sotto la pioggia, la neve, tra spiragli di nebbia e oscurità. Ogni notte, Belial si era appostato fuori dalla porta, seduto fuori al portico, il capo levato in pacifica attesa e fiducia cieca di poterlo finalmente rivedere. Ci aveva creduto fino all’ultimo, e adesso eccolo lì.
Era felice. Era quella la sua serenità.
Con uno scatto, Balthazar lo attirò a sé e lo strinse. La coperta cadde a terra, rivelando un Belial con indosso solo i jeans. Balthazar la sentiva, la sua pelle calda, morbida come sole d’estate e petali di primavera. La avvertiva attraverso il tessuto degli abiti e proprio lì udiva battere il cuore, mescolare il suono delicato di quel respiro al profumo dolce di sogno di quel corpo.
E allora Belial ricambiò l’abbraccio e rise di una risata argentina, felice, perché finalmente tornava a respirare. Non era rimasto deluso.
Balthazar affondò una mano nei suoi capelli di seta, guardò oltre le sue spalle. –Posso vederle?-
-Non qui.-
Belial lo prese per mano e lo condusse fuori quasi di corsa, come un bambino entusiasta del mondo che lo circonda. E allora, una volta all’aria aperta e sotto i fiocchi di neve, le ali si spiegarono.
Imponenti, fiere, più grandi dell’intera casa. Occupavano un’intera porzione di cielo adesso notturno mentre, poco a poco, le piume di finissimo cristallo variopinto cominciavano a splendere. L’aurora boreale si spiegò lentamente sulle loro teste come un dipinto che si srotolava ai piedi del suo artista e lì, davanti agli occhi di Balthazar e dell’intera città limitrofa, sei enormi ali di gloriosa magnificenza coprirono il capo del mondo purificandolo, perdonandolo, rimodellandolo con piume di gentile sofficità cristallina. La neve cadeva, sfilava e si scioglieva tra le piume, riempiendole di goccioline che come lacrime di diamante che piovevano dall’alto, tiepide e profumate come minuscole benedizioni lucenti di Grazia divina.
Gli adulti caddero in ginocchio, prostrati ai piedi della più grande opera d’arte di Dio, ma i bambini indicavano le piume e giocavano tra le gocce che piovevano dall’alto, innocenti nella loro purezza.
Nonostante lo splendore delle ali però, Balthazar non riuscì a staccare gli occhi dal loro proprietario. Il sottile vento che agitava i capelli lucenti di Belial, il suo delicato sorriso, gli occhi di una sottile timidezza che quasi si scusava col mondo per averlo disturbato con l’ottava meraviglia del mondo di piume e aurora boreale che si intrecciavano.
Dio, era così bello.
Balthazar non si accorse che anche le sue ali si spiegavano, gloriose nel loro splendore di piume azzurrine intrise di Grazia celestiale, dipinta di un fioco bagliore che s’intrecciò al cristallo liquido che pioveva  dalle ali di Belial. L’arcobaleno nacque in un ventaglio di grandezza e ricoprì l’aurora boreale, abbracciandola di filamenti variopinti, sfumati di tutti i colori del mondo.
Lì, sotto la neve e la danza arcana delle vestigia più belle di Dio, Balthazar strinse forte le mani di Belial e si specchiò nei suoi occhi, riflesso di quegli stessi colori che adesso sfilavano in un continuo cangiare d’arcobaleno sulle loro teste. Erano loro i pittori, stavolta. Loro e quel qualcosa che li legava.
Balthazar guardò Belial e capì che avrebbe fatto qualsiasi cosa per restargli accanto.
Balthazar guardò Belial e capì che l’altra metà di se stesso era davanti ai suoi occhi.
Balthazar guardò Belial e pensò che il resto della sua intera esistenza… meritava di essere passato con lui.
Dopotutto, era stato proprio Belial a insegnargli la vita vera. L’aveva stretto e per mano, passo dopo passo, l’aveva condotto su un sentiero estraneo, che sapeva di umanità e sentimenti reali. Belial era la sua alba e il suo tramonto, il suo fiorire di petali puliti dall’odio, il suo sorriso e le sue lacrime: Belial era tutto.
-Resteresti con me, se te lo chiedessi?- mormorò al suo orecchio, fremente di paura.
Belial sbatté le palpebre, schiuse le labbra in un morbido sorriso innamorato. -In eterno.-
Balthazar avrebbe voluto qualcosa, un anello o… non lo sapeva. Ma non aveva niente con sé. Automaticamente, in un gesto di impotenza, si toccò la tasca destra dei jeans e allora notò qualcosa di duro contro la gamba, una scatolina che prima non c’era.
Come accidenti…
-Gabriel.- mormorò automaticamente.
-Eh?-
-No, niente. Belial…-
Balthazar  lo guardò negli occhi, si inginocchiò ai suoi piedi come era giusto che fosse. Si chinava dinanzi a lui, piegando la sua violenza di soldato dinanzi all’innocenza e al perdono degli occhi di Belial. Lo vide coprirsi la bocca con una mano, le iridi lucide di lacrime non sgorgate ma che poco a poco s’impigliavano tra le ciglia folte.
-Non so perché te lo chiedo solo ora. Avrei dovuto farlo dal primo istante, ma… ma tutto il coraggio di un soldato disposto a uccidere non compara il coraggio utile a guardarti negli occhi solo per sentirsi degno di te. E io adesso ti guardo, Belial. Ti guardo e vedo tutto ciò che vorrei essere, tutte le ere che vorrei osservare stando al tuo fianco, tutta la vita che vorrei donarti giorno dopo giorno. Tu ci sei sempre stato, hai accettato ciò che sono e ancora adesso perdoni i miei errori con una semplicità incredibile. Io… vorrei imparare. Insegnami a volare davvero, così come mi hai insegnato a vivere. Insegnami a perdonare, a dimenticare. Insegnami a non essere più solo.-
Belial singhiozzò, sbatté le palpebre e lentamente due piccole lacrime di felicità sgorgarono come scintille cristalline finalmente libere dalla prigione di ciglia. Le sue ali brillarono, parvero estendersi fino ai confini del mondo per abbracciarlo in una stretta delicata di gioia luminosa.
-Belial…- mormorò Balthazar col cuore in gola. Estrasse la scatolina di velluto bianco dalla tasca, la aprì: un anello di diamante, dagli intarsi elegantemente incisi di zaffiro liquido si presentò ai loro occhi, intrecciando nel suo essere l’entità delle ali preziose di Belial e il colore splendente di quelle di Balthazar.
Certo che Gabriel si era impegnato davvero.
Coraggio, Balthazar. Diglielo, dannazione!
-… vuo… vuoi essere il mio compagno per la vita?-
Belial singhiozzò più forte, si nascose il volto tra le mani e le sue ali tremarono, luminose più che mai. Balthazar cominciò a preoccuparsi e stava per dirgli con la morte nel cuore che non aveva importanza se non voleva. Prima che riuscisse ad aprire bocca però, Belial cadde in ginocchio e gli gettò le braccia al collo, appoggiando la fronte sulla sua, specchiandosi negli occhi chiari e stupiti di Balthazar.
-Sì che voglio, stupido! Sì, sì, dieci volte sì!- esclamò con voce spezzata e allora Balthazar si sciolse in una risata di sollievo, felice, che fece vibrare il mondo intero di rinnovata serenità. Afferrò Belial per i fianchi, lo sollevò sulla testa come offrendolo al cielo e gli fece fare un giro per aria, facendo rilucere il mondo di nuovi riflessi arcobaleno. Belial rise, scrollò il capo e quando Balthazar lo fece scivolare per terra con dolcezza, finalmente avvenne: il bacio fu dolce come il miele, delicato, uno sfiorarsi di labbra timide e innamorate. Le lingue si intrecciarono subito dopo, mescolando sapori ansiosi di riscoprirsi, di ritrovarsi mentre le mani di Balthazar (di cui una ancora impegnata a reggere l’anello) accarezzavano la schiena di Belial, salendo poco a poco fino ad affondare le dita nei capelli morbidi di seta come aveva sognato di fare tante e tante volte in quei due mesi. Belial mugolò, inarcò la schiena e modellò il suo corpo contro quello di Balthazar mentre, sulle loro teste, le gocce tiepide e profumate di neve sciolta scivolavano su di loro, incontrandoli in una benedizione silenziosa a opera di Dio, degli angeli e del mondo stesso al sorgere di una nuova alba radiosa di speranza.
§§§§
Come si celebra un matrimonio tra angeli? Be’, non è facile da spiegare. Vi basti sapere che si celebrò sulla Terra, al cospetto di umani, angeli, Behemah Aqedà e anche qualche demone piuttosto tollerante. Alcune voci dicono che gli stessi Lucifer e Michael si fossero presentati, mano nella mano, in quella terra di mezzo dove nero e bianco non riscontrano alcuna differenza invalicabile. Io ero lì, ho visto tutto. Buffo a dirsi, ma a celebrare il matrimonio furono Castiel e Gabriel, abbigliati alla maniera degli arcangeli, con le splendide ali di sole crescente e luna sognante spiegate al cospetto del mondo.
I testimoni? Inutile a dirsi, ma furono parecchi: si parla di Sam e Dean Winchester, l’angelo Samael e i cacciatori Bobby Singer e Mary. E seduti al loro fianco, i Behemah Aqedà Sindragon e Sindragosa, Lunaria e una grossa tigre dagli occhi giudiziosi, compagna di Sam Winchester: portava in groppa un cucciolo di cane, ancora goffo ma felice della vita regalatagli dal piccolo sacrificio di un arcangelo dal cuore tenero.
Accadde alle prime luci del crepuscolo, dove due grandiose creature alate si unirono in un tutt’uno, fianco a fianco, al cospetto del mondo e di Dio stesso: dove le loro ali si intrecciarono, dove un unico bacio di soffice velluto confermò quel legame, una nuova era accolse il futuro vero, di rinnovato sbocciare di vite speranzose e aurora di cristallo tinta di screziature di zaffiro e sfumature acquamarina.
“Speranza è voglia di vivere.
Speranza è angelica voglia di amare.
Speranza è il respiro di un bambino,
Di un cucciolo in fasce nei cui occhi
Si riflette giorno dopo giorno
Il fiorire di una nuova alba dorata.”
 
Angolo dell’autrice:
Ci ho messo un po’, ma alla fine… Gabriel, che stai facendo?!
Gab: be’? Non giudicare il costume da coniglio, ho bisogno di soldi dopo aver comprato l’anello a Belial…
E non potevi farti rimborsare da Balthazar?
Gab: ehm… in realtà ho perso i soldi in una scommessa contro Sam… non dovevo scommettere che nel film Titanic la nave non affondasse…
Ma sei scemo?! Lo conoscono tutti quel film… ehm… ok, torniamo seri. E tu togliti quel costume! Sciò!
Dunque, dedico questa storia a Kimi o Aishiteiru che è una splendida scrittrice e una persona magnifica come poche. Continua a scrivere, ragazza! Che la forza sia con te, con la tua sorellina e con le tue bellissime amiche! A presto! E grazie a chi legge e soprattutto a chi lascia un commentino!

Tomi Dark Angel
 
 
  
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