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Autore: Thefoolfan    07/10/2013    2 recensioni
Seguito de "La storia continua...". Castle ripercorrerà alcune tappe importanti dell'ultimo anno trascorso, raccontando gli eventi più o meno felici che hanno condotto lui e Beckett a quel momento iniziale.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett, Quasi tutti, Richard Castle | Coppie: Kate Beckett/Richard Castel
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
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- Questa storia fa parte della serie 'Le storie di una vita'
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La felicità è fatta di niente...ma il momento in cui la vivi ti sembra tutto”

Era questa la frase che regnava nella mente vuota di Castle mentre lentamente procedeva lungo il corridoio bianco dell'ospedale. Camminava rasente al muro, strusciando un braccio contro la parete ruvida di quello, non provando alcun dolore, alcun fastidio. Procedeva senza guardarsi indietro, dritto per la sua strada non facendo caso alle altre persone che occupavano quello stretto spazio, paragonando i camici bianchi dei dottori a dei fantasmi informi che non si accorgevano nemmeno della sua presenza. Si spostava solamente ogni qual volta vedeva una porta aprirsi, come strattonato da una qualche presenza che accompagnava il suo cammino, standogli accanto a vegliare su di lui. Non si sentiva più padrone del suo corpo, come se stesse ancora sognando, mosso da una volontà intrinseca che non voleva rivelargli la sua destinazione. Cosi procedeva senza porsi domande, respirando l'odore di disinfettante che aleggiava nell'aria, udendo il vociare lontano delle persone, alcune urla che gli giunsero alle orecchie come lame conficcate nella testa. Nonostante sapesse bene di dover rimanere dentro l'ospedale in quel momento aveva solo bisogno di scappare, di ridare aria ai propri polmoni rinsecchiti, a percepire l'aria fredda sulla propria pelle cosi da sentirsi di nuovo reale. Quando la porta trasparente e scorrevole si aprì davanti a lui si ritrovò a fissare davanti a se con sguardo nuovo. Stava piovendo ma a lui non importava. Alzò gli occhi al cielo e vide le nubi grige riversarsi sulla città e dietro di esse un piccolo spiraglio da cui i raggi del sole combattevano per riacquistare la propria supremazia, per riscaldare di nuovo quella terra umida, per fermare i tremori che Castle provava lungo tutto il corpo. Sollevò la mano sinistra e la notò tremare debolmente e cosi la andò a nascondere nella tasca, per negarsi l'evidenza, per cacciare via lontano dagli occhi gli ultima sprazzi di paura che ancora si aggrappavano al suo cuore nonostante ormai fosse tutto finito. Tutto sarebbe cambiato ma ancora una parte di lui faticava ad crederlo. Fece un passo in avanti ritrovandosi sulla pedana metallica che portava all'interno dell'edificio e allungò la mano destra, superando la tettoia, voltando il palmo verso il cielo cosi che alcune gocce vi cadessero sopra, formando tante piccole pozze che andarono a mischiarsi l'una con l'altra assumendo forme indefinite. Abbassò lo sguardo e osservò il parco che circondava l'ospedale, quelle persone che velocemente correvano sotto la pioggia cercando riparo, coprendosi con giacche o borse cosi da evitare di inzupparsi più del dovuto. Individuò una panchina in legno, posta accanto al prato verde, coperta dai rami di alcune magnolie messe li apposta per rasserenare i degenti con il loro dolce profumo, e decise che quella era la sua destinazione. Incurante del tempo cominciò a muoversi, camminando lentamente a dispetto di tutti gli altri, lasciando che l'acqua si impregnasse nei suoi vestiti, nei suoi capelli, nella sua pelle. Ancora con la mente sgombra da ogni pensiero si andò ad accomodare, sentendo i pantaloni appiccicarsi alle cosce e la giacca farsi ancora più pesante, cosi la tolse posandola accanto a se, sentendosi più libero di muoversi, di respirare. Si accovacciò su se stesso, inclinando la schiena e posando i gomiti sulle ginocchia, sfregandosi la faccia, lavando via con la pioggia la stanchezza che si poteva leggere sotto i suoi occhi. I pensieri tornarono a farsi sentire prepotentemente e questa volta lui non li scansò ma decise di affrontarli, sapeva che era suo dovere farlo per entrare di nuovo in quella stanza da uomo nuovo quale era diventato in quelle ultime ore. Si ritrovò d'improvviso a piangere e ridere assieme, sperduto nell'intricata trama dei suoi sentimenti, cercando una via di fuga che da solo non poteva trovare, aveva bisogno di Kate, lei era l'unica che riusciva a salvarlo ogni volta che veniva rapito da se stesso. Ma lei non era li con lui, doveva riuscire a farcela da solo. La pioggia tutto d'un tratto cessò di cadere sulla sua testa andando a produrre dei piccoli ticchettii mentre si infrangeva contro qualcosa di solido. Girando gli occhi vide una figura al suo fianco e, solo dopo aver messo ben a fuoco, notò essere sua madre che amorevolmente lo teneva riparato con un ombrello mentre lei rimaneva per metà vittima delle intemperie, bagnandosi cosi parte della giacca.

“Kate si è svegliata?”. Le domandò con un sibilo di voce come se la moglie potesse sentirlo e potesse destarsi al suono di quelle parole, non voleva disturbare il suo riposo, non in quel momento.

“No, dorme ancora tranquilla ma sono certa che quando aprirà gli occhi vorrà vederti li al suo fianco perciò mi chiedo che ci fai qui?”. Domandò la donna sedendosi accanto a lui, non preoccupandosi di bagnarsi la gonna e dell'effetto che avrebbe fatto una volta ritornati dentro l'ospedale. Suo figlio aveva bisogno di lei e di certo non sarebbe stata qualche goccia a impedirle di esserci.

“Non lo so nemmeno io”. Disse dopo alcuni secondi passati a pensare a una risposta adatta, unendo le mani e portandosele davanti alla bocca. “Mi sentivo soffocare, avevo bisogno di stare da solo”. Continuò scavando con la suola delle scarpe un buco sotto la ghiaia che ricopriva il terreno umido.

“Sono proprio uno stronzo non è cosi”. Affermò ridacchiando e alzando le spalle, andando ad osservare sua madre aspettandosi da lei una risposta negativa. La donna invece si limitò a ricambiare il suo sorriso, accarezzandogli una guancia cosi da togliere alcune gocce che dai capelli gli stavano solcando lo zigomo. “Dovrei essere li con lei e invece sono qui”.

“Capita a tutti di venir sopraffatti dalle emozioni. In quei momenti accade tutto cosi velocemente che nemmeno te ne accorgi, ma quando poi finisce ecco che ti piomba tutto addosso e tutta quella baldanza viene sostituita da un senso di inadeguatezza”. Dichiarò Martha tenendo ancora sollevato l'ombrello, riparando inutilmente se e il figlio, sistemandosi con l'altra mano la gonna e la giacca che le sembravano restringersi a causa dell'umidità.

“Ti sei mai sentita cosi?”. Le chiese guardandola con la coda dell'occhio, scostando poi lo sguardo verso l'edificio, verso le finestre che poteva intravedere, chiedendosi quale di quelle era la stessa della camera in cui dormiva Beckett, sperando quasi di vederla dietro a quei vetri, intenta a cercarlo in mezzo a quel cortile ormai quasi del tutto vuoto.

“Mi è capitato un paio di volte”. Ridacchiò Martha annuendo alle sue stesse parole. “Ma è questione di un solo attimo, di un solo secondo. Basta un battito di ciglia e tutto svanisce e comprendi che è tutto perfetto, che sapevi già che lo era ma che avevi bisogno di una conferma, appunto quel battito di ciglia”. Proseguì la donna stranamente non atteggiandosi, parlando con una serietà che lasciò sorpreso lo stesso Castle che ben poche volte l'aveva vista cosi concentrata in un discorso.

“Un battito di ciglia?”. Domandò perplesso il detective grattandosi la tempia bagnata. “Non ho ancora recuperato del tutto le mie funzioni cognitive per comprendere i tuoi messaggi criptici”. L'attrice gli posò una mano sulla coscia che lui prontamente andò ad afferrare, stringendogliela con forza per ringraziarla della sua sola presenza.

“Se ti spiegassi il senso non ne coglieresti l'importanza, quando accadrà dovrai scoprirlo di persona.” Si alzò dalla panchina e sempre tenendogli stretta la mano lo invitò a sollevarsi, a rimettersi in piedi cosi da poter riportarlo dentro a quei bianchi e tristi corridoi dove doveva stare.

“Il mio bambino oggi è diventato un uomo”. Enunciò Martha facendo cadere a terra l'ombrello, lasciando che la pioggia inzuppasse anche lei, rovinandole la piega, gli abiti, il trucco, ma per la seconda volta nella sua vita non le importò del suo aspetto. “Un uomo che ogni madre sarebbe fiera di avere come figlio”. Parlò piangendo, posando entrambe le mani sulle sue guance cosi da attirarlo a se, ad abbassarlo alla sua altezza, in modo da dargli un sonoro bacio sulla fronte sulla quale rimase una traccia del rossetto. Castle si trovò come pietrificato, non abituato a certi atteggiamenti da parte della madre. I suoi gesti materni erano rari, per di più frettolosi, dettati più dal dovere di farlo che dal volerlo. Ora però era tutto diverso, sentiva ancora quel bacio sulla propria fronte, il calore delle sue mani seppur fredde contro il suo viso, e cosi si sentì di nuovo scoppiargli il petto in preda alle emozioni e una nuova lacrima si aggiunse alle gocce di pioggia.

“Sai perchè mi piace la pioggia?”. Domandò Martha riprendendosi l'ombrello cosi da tornare a coprirsi mentre Castle negava con il capo. “Perchè mi permette di girare a testa alta anche se ho il viso coperto dalle lacrime”. Appurò facendo scorrere una mano contro il suo petto, posandogli una mano all'altezza del cuore sentendolo battere più velocemente contro il suo palmo.

“Tuo padre ha immaginato che avresti passato qui la notte perciò ti ha portato dei vestiti di ricambio. Direi che è il momento di usarli”. Suggerì tornandolo a guardare, vedendo come lui fissava la porta scorrevole. Martha sospirò e sorrise intenerita da quelle debolezze mostrate dal figlio, in parte contenta di vederlo cosi fragile, di vederlo cosi umano, cosi semplice e sincero.

“Ne sarò all'altezza?”. Chiese Castle senza scostare lo sguardo, chiudendo e riaprendo lentamente gli occhi, preparandosi a quello che lo stava ad aspettare dentro quell'edificio.

“Alcuni giorni si altri forse no ma non è questo l'importante”. Ribatte la donna prendendolo sotto braccio, sentendolo muoversi con lei passo dopo passo. “Fai ciò che ti senti, sbaglia anche perchè ti sarà di lezione, scegli una strada e seguila ma non arrenderti mai. Forse non ne vedrai subito i frutti ma ti posso assicurare che dopo molti anni i tuoi sacrifici verranno ricompensati in un modo che mai avresti immaginato.”. Le labbra di Martha si incresparono in un sorriso misterioso che non sfuggì a Castle che la fermò sotto al riparo posto davanti all'ingresso, prendendole l'ombrello e sbattendolo prima di chiuderlo cosi da eliminare le gocce in eccesso.

“E tu hai ricevuto questa ricompensa?”. Le chiese mentre compiva quei gesti, guardandola con la coda dell'occhio per vederne la reazione.

“Più grande di quanto meritassi”. Ammise la donna arrossendo, attribuendo al vento freddo la causa. “Ho due figli che nonostante siano pieni di difetti ai miei occhi sono le creature più perfette su questa terra e non li cambierei nemmeno con tutti gli oscar del mondo”. Scherzò alla fine per sdrammatizzare la situazione, per cambiare discorso dato che cominciava a sentirsi fin troppo vulnerabile agli occhi del figlio.

“Andiamo a prendere i miei vestiti?”. Le chiese Castle salvandola da ulteriori domande che le avrebbero fatto aumentare l'imbarazzo.

 

Una volta cambiatosi e ringraziato i genitori il detective si avviò ancora una volta da solo verso l'ascensore con in mente una destinazione ben diversa dalla precedente. La pioggia era cessata e il tempo stava migliorando cosi come il suo stato d'animo. L'aver parlato con sua madre, l'esser stato da solo con se stesso gli era servito per rendersi conto che tutto ciò era veramente successo e ora si ritrovava a fissare la sua faccia sorridente riflessa nello specchio posto contro una delle pareti platinate. Rimaneva appoggiato con le mani ad una sbarra metallica che tagliava in due i tre pannelli che lo circondavano, ansioso che quelle porte si aprissero per riuscire a correre. Quei pochi secondi di viaggio gli sembrarono un eternità e quando sentì la campanella avvertirlo dell'arrivo si mosse spostandosi verso l'ingresso, oltrepassando le due porte scorrevoli ancora prima che queste si aprissero del tutto. Inspirò a pieni polmoni e percepì un odore diverso, non più quello pungente dei corridoi dei piani superiori, in quello regnava un profumo più dolce che tanto gli ricordava il miele e il borotalco. Prima di procedere si diede un ultima occhiata, volendosi presentare al meglio a quell'incontro. Si aggiustò la camicia azzurra, sistemò le pieghe dei pantaloni, si pettinò i capelli e si lisciò l'invisibile barba mattutina che si sentiva spuntare sulla mascella. Doveva essere perfetto. I suoi passi erano lenti ma decisi, voleva prolungare quel momento, sentire ancora e ancora nel petto quelle emozioni, sentire quella fitta che gli bloccava lo stomaco, che non lo faceva respirare, ma che allo stesso momento lo faceva sentire vivo, sentiva vivo ogni muscolo del suo corpo, con il bisogno di muoversi, di prendere a pugni l'aria, di urlare, di correre, di gettarsi a terra e piangere. Poi come tutto era cominciato finì, cosi d'improvviso. A Castle bastò trovarsi davanti a una vetrata per non provare più nulla, per perdere la percezione del tempo e dello spazio. Gli sembrò che le pareti attorno a lui si sciogliessero, svanissero poco a poco lasciandolo solo a fissare la meraviglia davanti a se. Quel corpicino fragile e inerme avvolto da una copertina bianca che stringeva nei suoi pugnetti. Suo figlio.

“Posso aiutarla?”. Domandò a bassa voce una delle infermiere, aprendo la porta del nido cosi da non disturbare il riposo dei neonati.

Castle si riprese dai propri pensieri e andò a guardarla privo di parole. L'infermiera sorrise e chiuse la porta dietro di se mettendosi accanto al detective, guardando nella sua stessa direzione cercando di capire chi l'avesse rapito in quel modo.

“Qual'è il suo?”. Chiese alla fine notando Castle sorridere e puntare il dito indice contro la vetrata, annuendo in direzione di una culla.

“Il bambino che ha nella culla l'orsacchiotto con la maglietta blu con la scritta NYPD”. Sogghignò il detective chiedendosi chi gli avesse già fatto quel regalo, continuando a guardare il proprio figlio, soffermandosi sul suo petto cercando di intravedere quel leggero movimento sotto la copertina, volendosi assicurare che respirasse, che stesse bene.

“Ah un regalo dei suoi zii”. Commentò l'infermiera ottenendo l'attenzione di Castle che la guardò sorpreso.

“Esposito e Ryan?”. Domandò sapendo che nessun'altro nella sua cerchia di amici avrebbe mai potuto definirsi zio di quel bambino. “Un cubano alto e grosso e un irlandese piccolo e magrolino”. Li descrisse alzandosi sulle punte e sollevando il braccio per il primo e abbassandosi e stringendo le braccia contro i fianchi per il secondo.

“Credo di si”. Rispose la donna massaggiandosi il mento. “Sò solo che hanno detto alla mia collega di essere degli agenti di polizia e che se non lasciava loro mettere quel peluche nella culla l'avrebbero arrestata con l'accusa d'intralcio a pubblico ufficiale.”.

Castle arrossì strizzando gli occhi e coprendosi il volto con le mani per l'imbarazzo, i due colleghi a volte non sapevano trattenersi e quella ne era stata la riprova ma al tempo stesso non poteva desiderare degli zii migliori per il proprio bambino.

“Li perdoni, a volte non sanno contenersi, ma le assicuro che hanno agito in buona fede”. Cercò di scusarli cosi vedendo l'infermiera agitare una mano davanti a lui facendo spallucce.

“Ne ho viste di peggio stia tranquillo. Piuttosto..”. Continuò voltandosi del tutto verso di lui, girando solo la testa in direzione del bambino. “Il dottore ha visitato suo figlio. La quantità di meconio che ha ingerito è stata esigua e non corre rischi. I polmoni funzionano perfettamente”.

“Quindi..?”. Domandò l'uomo non avendo ben chiaro di cosa la donna stesse parlando, l'unica cosa che aveva capito era che il figlio stava bene, il resto non contava.

“Quindi se vuole lo può prendere e portare da sua moglie, credo che a quest'ora sia già sveglia e non veda l'ora di poter avere di nuovo tra le braccia il suo bambino”. Castle si limitò ad annuire diverse volte, sentendo le mani prudergli dal desiderio di tenere stretto a se il figlio. L'infermiera scomparve di nuovo dentro al nido e si avvicinò ad una collega parlando e indicando l'uomo al contempo. Solo dopo aver visionato alcune cartelle si diresse alla culla del piccolo Castle, scostando con attenzione la copertina e sollevandolo contro il proprio petto, ricordandosi di prendere anche il peluche cosi che non andasse perso. Quando la vide uscire di nuovo dalla porta il detective si asciugò frettolosamente le mani sui pantaloni, temendo che il sudore potesse fargli perdere la presa sul bambino, avendo paura di farlo cadere in ogni istante.

“Non l'ha ancora preso in braccio?”. Lo canzonò l'infermiera vedendolo agitato, attendendo che si calmasse prima di passarglielo, aspettando che lui stesso fosse pronto.

“Appena nato ma è stato solo per pochi secondi e non era cosi calmo e pulito”. Rispose Castle facendo un passo in avanti, inclinando la testa verso il basso cosi da fissare il figlio, alzando una mano accarezzandogli con attenzione la guancia usando le nocche delle dita.

“Allora adesso dovrebbe risultarle più facile. Si ricordi solo di tener sollevata la testa e che se anche stringe un po' non si rompe, ma non troppo”. Lo istruì passandogli il bambino che si agitò un istante quando si sentì spostare, quando perse il contatto con il corpo dell'infermiera solo per poi calmarsi quando Castle lo premette contro il proprio petto. Lo aggiustò con attenzione nell'incavo del braccio, facendo in modo che la testolina riposasse sul proprio gomito, facendo scorrere il braccio lungo tutta la sua schiena per sostenerlo.

“Congratulazioni”. Sorrise l'infermiera porgendogli l'orsetto che Castle afferrò con la mano libera, ringraziandola con un cenno del capo prima di dirigersi verso l'ascensore. Camminava piano, attento a non muovere il braccio per fargli perdere quella posizione comoda, continuando a sollevare gli occhi per esser certo di non scontarsi contro qualche ostacolo, per poi riabbassarli subito non riuscendo a staccare le iridi dal proprio figlio.

“Andiamo dalla mamma”. Gli sussurrò avvicinandosi al suo orecchio, posando sulla sua fronte un bacio delicato, indugiando qualche secondo cosi da inspirare il suo odore divenuto già cosi prezioso. Schiacciò il pulsante dell'ascensore e attese che questo arrivasse al suo piano, occupando il tempo sistemando la tutina del figlio, tirandogli le maniche cosi che lo coprissero fino ai polsi, aggiustandogli il colletto cosi che tenesse al riparo il collo, facendo il tutto con estrema attenzione, come se tra le sue mani avesse il cristallo più prezioso. Salì sull'ascensore e si guardò ancora allo specchio. Si vedeva li con in braccio quel bambino che fino a poche ore prima gli era sembrato non essere ancora del tutto reale. Ora invece tutto era cambiato, quella creatura era li, adagiata contro di lui e si sentì quasi svenire. Posò la schiena contro la parete e chiuse gli occhi, inspirando ed espirando lentamente, cercando di calmarsi. Tutti quei mesi di attesa gli passarono davanti agli occhi come un fiume in piena, ogni momento importante, ogni giorno segnato sul calendario, ogni visita, ogni litigio, ogni gioia, ogni paura, erano racchiuse tutte in quel singolo istante, in quel singolo vagito che ancora gli risuonava nelle orecchie. Tutto era svanito, era ormai solo un ricordo, davanti a lui vi era un unica certezza.

 

"Sono padre”. Ridacchiò incredulo, strizzando gli occhi cosi da costringere quella lacrima a scendere, vedendola cadere sulla tutina del figlio e li colse un suo movimento. Le palpebre del neonato si sollevarono lentamente per poi richiudersi un istante dopo. Castle attese immobile, fissando il volto del bambino, non accorgendosi che le porte si stavano aprendo davanti a lui.

“Ciao piccolino”. Sussurrò avvolgendo la testa del neonato con tutta la sua mano destra, accarezzando quel sottile strato di peluria chiara che la ricopriva. Ancora il piccolo Castle aprì gli occhi e i loro sguardi cozzarono. Il detective sapeva bene che per il figlio non era altro che un ombra in mezzo a tante altre, ma in quel momento era certo che lo stava fissando perchè l'aveva riconosciuto, perchè sapeva chi fosse.

“Sono il tuo papa”. Gli disse abbassando il capo cosi da unire le loro fronti, perdendosi in quelle iridi chiare che cosi tanto le ricordavano le proprie. Il bambino chiuse gli occhi, forse infastidito da quel volto troppo vicino al suo, ma quando l'uomo si staccò tornò a riaprirli. Castle non si perse nemmeno un secondo, quel battito di ciglia di cui gli aveva parlato la madre. Quell'istante in cui comprese che tutto ciò che aveva sempre desiderato era li tra le sue braccia.

“Solo ora capisco che è tutta la vita che ti aspetto, ma ne è valsa la pena, ogni singolo secondo, anche i più dolorosi. Li rivivrei tutti solo per giungere a questo istante, per avere te e tua madre nella mia vita.”. Castle uscì dall'ascensore e si incamminò lungo tutta la sala d'attesa, dove altri padri, altre famiglie, stavano vivendo quegli stessi momenti che avevano segnato quella sua giornata. Cercò fugacemente i suoi genitori,Alexis, James, Johanna, i suoi amici e colleghi ma ormai non c'era più nessuno. L'orario visite era finito e loro avevano dovuto lasciare quel luogo per tornare al proprio lavoro, con la promessa di tornare la sera stessa per un altra visita. Si addentrò per il corridoio superando infermiere e dottori, carrozzine e lettini fino a che non giunse davanti alla porta dove riposava Beckett. Abbassò la maniglia e lentamente aprì la porta ritrovandosi nella stanza bianca, illuminata dai raggi del sole che penetravano dalle finestre che erano state chiuse a causa della pioggia. Richiuse l'uscio dietro di se, portando un dito davanti alla bocca voltandosi verso il figlio invitandolo a fare silenzio. Si avvicinò al letto dove la moglie ancora stava dormendo, con il volto girato verso di lui e una mano posata sulla pancia, un gesto a lui famigliare dato che la donna ogni sera si addormentava cosi, accarezzandosi il ventre per accarezzare il loro figlio. Una parte di lui voleva svegliarla, voleva informarla che il bambino era li con loro ma d'altro canto sapeva che la donna aveva bisogno di riposare per riguadagnare le energie. Cosi prese una sedia e la sistemò accanto al letto e poi ci si sedette sopra ad aspettare, a tenere ancora tutto per se il figlio, a godersi quegli istanti solo con lui.

“Sai c'è stato un periodo in cui credevo che tu non saresti mai arrivato, che saresti stato solo un sogno irrealizzabile”. Dichiarò a bassa voce vedendolo di nuovo addormentarsi contro di lui. Castle prese la sua manina tra le sue dita, accarezzando la pelle liscia, sentendo le sue piccole dita stringersi attorno al suo pollice.

“Ma tua madre no, lei non ha mai perso la speranza, è sempre stata certa che questo momento sarebbe giunto e per mia fortuna, come al solito, ha avuto ragione. Ancora prima di esistere, quando ancora eri solo una possibilità, fin da quel momento lei ti ha desiderato, ti ha amato più di quanto ami me”. Ridacchiò senza staccare gli occhi dalla sua mano, muovendo il pollice in basso e in alto sentendo la sua presa farsi più stretta, contando le dita ancora e ancora. “Fin da quel giorno in sala, quando ha deciso di averti, lei ti ha considerato reale”.



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Ed ecco qui il primo capitolo di questa nuova storiellina. Mi discosterò leggermente da quelle passate, ovvero non inserirò casi, puntanto più sul raccontare i momenti privati dei nostri due protagonisti e di chi li circonda, quindi non sò proprio quale possa esserne il risultato. Dai prossimi capitoli si farà un salto indietro nel tempo per vedere tutto ciò che ha portato a questo momento appena descritto. Vi ringrazio della lettura sperando che sia piaciuto.


 

  
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