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Autore: Molly182    10/10/2013    1 recensioni
Non mi resi conto che quella era esattamente la decima volta che in quelle due settimane mi ritrovavo lì. [...]
Metaforicamente parlando ero bloccato in un bivio. Mi ero ridotto a passare le mie giornate in aeroporto a decidermi se era meglio prendere l’ultimo aereo della giornata o perdere pure quello e aspettare quello successivo da perdere ancora finché non avessi trovato un buon motivo o un'ottima scusa per tornare a casa.
[...]
Stavo letteralmente perdendo tempo a fissare tutti quelli aerei che decollavano e atterravano davanti.
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Slash | Personaggi: Alex Gaskarth, Jack Barakat
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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N/A: Eccomi, sono sempre io, la rimpiscatole! 
Non ho molto da dire, si tratta di una One Shot incentrata su Alex e sulla sua insicurezza. Dovrebbe essere una Jalex anche se non si percepisce più di tanto.
Spero che vi possa piacere.
Non mi resi conto che quella era esattamente la decima volta che in quelle due settimane mi ritrovavo lì. Non me ne resi conto almeno, finché le hostess di terra e la sicurezza non avevano iniziato a salutarmi cordialmente come se fossi un impiegato dell’aeroporto.
Negli ultimi due giorni mi ero ridotto come Tom Hank in “The Terminal” soltanto con la differenza che io non provenivo da una Nazione dove era appena avvenuto un colpo di stato e che il mio passaporto fosse rifiutato. Non avevo un divieto che m’impediva di andare ovunque volessi o di tornare a casa. Ero libero ma contemporaneamente bloccato.
Metaforicamente parlando ero bloccato in un bivio. Mi ero ridotto a passare le mie giornate in aeroporto a decidermi se era meglio prendere l’ultimo aereo della giornata o perdere pure quello e aspettare quello successivo da perdere ancora finché non avessi trovato un buon motivo o un'ottima scusa per tornare a casa.
Però non c’era nulla che mi spingesse a prendere una decisione e non potevo continuare a fare avanti e indietro dal motel vicino all’aeroporto.
Stavo letteralmente perdendo tempo a fissare tutti quelli aerei che decollavano e atterravano davanti all’enorme vetrata che dava sulla pista di cemento, piena di quei segni colorati di cui non avrei mai appreso il significato. Mi ero sempre chiesto come degli esseri umani fossero in grado di pilotare quei mostri del cielo. Erano enormi e mi sorprendevo ogni volta di come riuscissero a rimanere sospesi in aria nonostante le loro enormi dimensioni e il peso elevato. In fondo le persone dovevano avere un’enorme fiducia in quegli uomini, come loro, cui era affidata la propria vita soltanto per un viaggio di piacere o di lavoro o di visita o qualunque altro viaggio siano tenuti a fare.
E non mi spiegavo neppure come riuscissi ad avere così tanta fiducia nei piloti e nel resto dell’umanità, ma non riuscivo a trovarne un briciolo in me stesso. Potevo fingere di essere forte, divertente, spensierato, che andasse tutto bene, ma non ero mai abbastanza credibile ai miei occhi.
Non riuscivo a fingere con me stesso e mi odiavo per questo.
Dire che “un giorno si dimenticherà tutto” è un’assurdità perché, per quanto ci si possa scordare qualcosa, quel ricordo rimarrà sempre vivo nella propria mente, soprattutto se quello che cerchi di dimenticare si tratta di una persona magnifica con cui hai passato la maggior parte della tua vita e che ora l’hai dovuta lasciare per tornare alla propria vita, dove l’omino di marzapane e i draghi lanciafiamme non esistono e bisogna lottare con la dura realtà.
Non è stato per niente facile dirle addio eppure era giusto così. Era il prezzo che dovevo pagare. Non me la sentivo di continuare qualcosa che non sarei riuscito a portare a termine. Avevo bisogno di una persona che mi supportasse da vicino, che stesse con me quando ne avevo più bisogno e che qualunque cosa fosse successo, lei era lì per me e non dall’altra parte della Terra. Non era una cosa che avevo deciso io, la fortuna era girata dalla mia parte e con qualche sacrificio ero riuscito a entrare nel mondo dello spettacolo, dei concerti e dei tour internazionali, ma questo aveva implicato lasciare la persona che amavo a casa e non era stato facile, soprattutto quando i sentimenti verso di lei diventavano confusi e flebili giorno dopo giorno fino a convincermi che quel rapporto stava diventando una falsa ed era totalmente sbagliato. Stavo privando di vivere la propria vita a una persona speciale e quindi era meglio se avessi chiuso quella sottospecie di relazione a distanza che ci ostinavamo a chiamare così.
Eppure, non riuscivo ancora a lasciare quella città cui sono stato legato per così tanto tempo.
Ormai conoscevo a memoria il London Heathrow Airport, ci avevo passato ormai gran parte del mio tempo, ma non era esattamente il posto dove sarei dovuto stare, nonostante fossi nato in quel Paese. Sentivo che non mi apparteneva più.
«Si avvisano i gentili passeggeri che a breve si aprirà il gate per il volo AZ1587 per Washinton-Baltimora…», aveva iniziato a dire lo speaker a tutti i passeggeri che occupavano la sala d’attesa.
“Smettila di perdere altri aerei!”, mi urlava il cervello. La mia parte razionale, quella che avrei dovuto ascoltare più spesso, ma che puntualmente ignoravo per dare retta a quella irrazionale, la più stupida. “È finita, torna a casa!”
Dovevo semplicemente dargli retta cosa che non facevo mai abbastanza.
«Senti, non so quale cosa strana ti tenga incollato a quella sedia, ma torna a casa Alex, abbiamo bisogno di te», diceva una voce registrata fin troppo famigliare sulla mia segreteria telefonica. Non riuscii a fare a meno di sorridere al suono della sua voce.  E così come se mi leggesse nella mente, ricevetti una sua chiamata.
«Pronto…»
«Alex, diamine!», quasi urlò dall’altra parte della cornetta. «Dove diavolo sei?»
«All’aeroporto… a Londra»
«Perché non la smetti di fissare gli aerei e torni a Baltimora?», aveva detto questa volta addolcendo la voce. «Tutto si sistemerà, non puoi continuare a stare seduto lì e continuare a perdere i voli, non cambieranno le cose se resti lì e se solo tu tornassi a casa, potremmo darti una mano… io potrò darti una mano…».
«Hai ragione Jack, hai ragione, ma...»
«Ma cosa, Alex?»
«Nulla, hai ragione…»
«Hai fatto la cosa più giusta, non devi sentirti in colpa, per nessun motivo al Mondo»
«Lo so, però… non è stato facile… l’ho fatto per te!»
«No, Alex! Lo hai fatto perché è quello che hai voluto tu e sapevi che doveva andare così»
«Io…», sospirai. «Forse hai ragione… di nuovo»
«Quindi ora cosa hai intenzione di fare?», chiese. «Passerai un’altra giornata in aeroporto a commiserarti o pensi di tornare a Baltimora, dove ci sono i tuoi amici, la tua famiglia e tutte le persone che ti voglio bene, pronte ad aiutarti, qualunque problema tu abbia», non risposi, semplicemente perché non riuscivo a trovare qualcosa con cui controbattere la sua affermazione fin troppo corretta.
«Grazie per aver chiamato, Jack», terminai col dire, ma lo sentii sbuffare. Non era mai un buon segno.
«Ci vediamo presto!», disse probabilmente un po’ troppo freddamente. «… ma se entro due giorni non ti rivedo, sappi solo che verrò a prenderti e porterò il tuo sedere di nuovo nel Maryland»
«Tornerò presto», sostenni. «Grazie di tutto Jackie», aggiunsi prima di riattaccare la chiamata.
Mi mancava quel ragazzo e la sua voce mi aveva tranquillizzato, come solo lui era capace di fare.  Continuare a fissare la fila delle persone che svaniva minuto dopo minuto di sicuro non mi avrebbe fatto decidere più velocemente, tanto meno mi avrebbe fatto cambiare idea.
«E lei signor Gaskarth non prende quest’aereo?», chiese una hostess dalla sua postazione.
«Come?», le domandai confusa.
«L’aereo parte tra poco e ci sono ancora dei posti disponibili, non vuole partire?»
Guardai la ragazza e poi il mio cellulare. Sullo schermo c’era la foto mia e di Jack durante una delle nostre serate alcoliche. Io con i capelli mezzi rosa e lui mezzi biondi. Eravamo davvero una strana coppia, ma gli volevo un bene dell’anima.
«Non ha qualcuno che lo aspetta a casa?»
«Si… c’è qualcuno…», dissi sorridendo senza rendermene conto.
«Quindi ha deciso?», annuii e senza riflettere ancora, mi ritrovai a ringraziare quella ragazza cui porsi il biglietto e che si fece da parte per farmi percorrere di corsa il lungo tunnel calpestando la moquette blu fino al portellone dell’aereo. Quasi con il fiatone salii e feci un lungo respiro prima di varcare la soglia.
«La prego di accomodarsi al suo posto e di riporre il borsone nell’apposito scompartimento», mi consigliò l’hostess con un sorriso stampato sul viso. Nonostante fossero le due del mattino, era incredibile come il personale di volo riuscisse sempre a essere così rilassato e sorridente. Se fossi stato in loro mi sarei sbattuto le porte in faccia e mandato all’inferno. «Faccia buon viaggio», aggiunse senza far scomparire quel sorriso.
alla fine avevo trovato il mio buon motivo che mi spingesse a prendere quel maledetto volo. E mentre mi accomodavo al mio sedile capii che probabilmente tutto quello che avevo bisogno era di sentire Jack e tornare a casa da lui sarebbe stata la cosa migliore da fare, per me e per lui.

 
   
 
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