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Autore: elecam28    05/04/2008    7 recensioni
"Dove sono Bartemius, Regulus, Aberforth, Nicholas e Tom,
il rigido, il secondogenito, l’originale, il dotto e l’arrogante?
Tutti, tutti, dormono sulla collina."
Fanfic liberamente ispirata al capolavoro di Edgar Lee Masters “Antologia di Spoon River”, una rivisitazione personale in chiave HarryPotteriana. Da collocarsi anni dopo la sconfitta di Voldemort. E Harry? Vedrete alla fine.
Genere: Generale, Malinconico, Poesia | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Harry Potter, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Neville Paciock


Neville Paciock

 

 

Io,

un nome tra molti,

una pietra uguale ad altre.

Io,

Neville,

ho una storia da raccontare.

Molti sono i viaggiatori stanchi che non si fermano,

che non prestano attenzione.

Ma io ho ancora una voce.

Perciò vi prego,

per un momento,

due,

tre,

siate bambini ed ascoltate.

Nella mia storia ci sono streghe e maghi,

negarlo è come dire che non ci sono mostri,

né draghi.

E ci sono bacchette, cappelli, incanti,

rospi e calderoni, pozioni, oggetti volanti.

C’è tutto quello che sognate da bambini,

che bramate.

Ma non è come nei libri.

Oh no, non è come le fiabe.

Bene e Male hanno armi uguali,

nella mia storia.

Io ero tra i buoni, posso dirlo:

perdemmo così tanto da non curarci della loro fine.

Uno si curò di me,

uno solo.

Sì, siamo giunti a presentar l’eroe.

Ed un eroe che voi non conoscete.

Non scelse lui l’armatura e la lancia,

non decise lui la corsa contro il buio.

No, non fu felice la sua strada.

Nessun bivio, nessuna sosta.

Dalla capanna dritto alle fauci del lupo,

senza fiori o cacciatori audaci nel frammezzo.

Solo prede.

Io, noi tutti, anche il suo amore,

cademmo. Cademmo.

Dubitammo di lui,

prima,

arrivammo a crederlo falso, mentitore!

Io non dissi nulla, quell’anno,

lo aiutai, anzi, a dimostrare la durezza del suo animo di ferro,

ma non dimentico che fu uno come me,

uno che più di me a lui era caro,

a ferirlo, aggredirlo, infrangergli il riso.

E fu la lei che sempre l’aveva aiutato,

a dirgli che il suo coraggio era vanità.

Fu l’anno dopo, quando la presunta vanità salvò anche lei,

stolta,

e tutti noi,

ed egli invece perse ancora,

perse un altro pezzo del suo fragile cuore.

Li capii entrambi, lo rammento,

poiché non avevano torto.

Ma ricordo anche che li biasimai,

e li biasimo tuttora, come biasimo me stesso.

L’eroe sfida il drago,

salva il popolo,

e il popolo lo deride per non aver usato il senno, la ragione.

Ma dov’è il senno quando l’amore viene trafitto dinnanzi a noi?

Dov’è la ragione se il nemico alza l’arma sul fratello?

E cos’è,

cos’è un eroe se non diverso dagli altri nella forza dell’agire?

Lo sapevo io come loro,

come chi non l’amava ma lo voleva,

come chi l’odiava e lo temeva.

Ma non uno fu saldo nel fidarsi della sua spada,

non uno riuscì a non dubitare della sua luce.

Di certo qualcuno prima di me l’ha detto,

e io ve lo ripeto, astanti,

perché difficilmente i sussurri delle ombre sembrano voci,

e facilmente ciò che dicono rimane nel vento:

non lo meritammo mai.

Si pensa che in un mondo di streghe e maghi,

di fate, mostri e draghi,

gli eroi siano banalità e costume,

che se ne racconti non per gioco ma per scienza,

che vincano e non li si vinca,

che amino e li si ami,

che la favola sia sempre ben finita.

Ma non v’ho detto che non è una favola, la mia?

L’eroe, l’eroe...

mi diede il suo coraggio,

io gli diedi un’altra lapide da piangere.

Ancor oggi, mi piange.

Parla di quando, insieme a lei che ho già citato,

mi colpì per salvare il nostro mondo.

Si era bimbi, l’ammiravo oltre ogni altro;

soffrii del suo gesto,

permaloso, direste.

Ora capisco perché lo fermai:

non per la mia Casa o per gli sguardi,

ma perché io ero io.

Non ero io l’eroe, non era mia la scena.

L’aiutante non inizia la fiaba,

non è il principe a cavallo.

Io e lui,

Harry,

segnati dal comune destino di essere soli.

Sapete, io avrei potuto essere lui.

Assassino al posto suo,

solo per lui,

unico per lui.

Il caso fece scorgere in lui la minaccia e non in me?

No.

No, e se lo credete rileggete da capo le mie parole.

Come avrei io potuto capire gli specchi e domar le chiavi,

come uccidere serpenti e ricordi di maghi,

come liberare vite innocenti e ingannare i savi,

come vincere prove e veder morire gli ignavi,

come perdere la vita dietro veli rari,

come veder cadere le risposte dai tetti solitari,

come morire un poco d’ogni morte dei propri cari?

Io sono Neville,

soltanto uno dei tanti.

Troppo timido o solo o impacciato o esitante,

troppo io,

da lui troppo distante.

Avrei vinto, io?

Ah, questa sarebbe stata una vera fiaba, non pensate?

No, mai.

E la sorte scelse come se l’avessi dettata io,

scelse lui,

Harry,

scelse chi ci avrebbe salvati.

Sapeva, il fato?

O ha scelto per un fato oltre ancora,

che ama e ci ama?

Morimmo tutti, noi che sedemmo insieme sotto allo stesso stendardo,

noi che vedemmo la Speranza crescere,

amare,

guardarci cadere,

e perdurare.

Crudele, crudele sorte!

Egli non è un eroe greco,

amò ed ama troppo la vita per seguirci nel baratro.

Non riuscimmo a non cadere, sciocchi;

e mentre egli vinceva,

mentre la nostra favola si concludeva,

già i suoi occhi riflettevano il pianto

–  e non la gioia.

Quale, quale gioia nel perder tutto e salir sul podio?

Persino l’amore gli fu infranto.

E qui, qui sta la staffilata,

qui sta il dolore lancinante.

Speranza, speranza...

non per lui, non per se stesso.

E lo ripeto, sorte: crudele, crudele!

Lottò tanto per un mondo suo solo per pochi visi,

e tutti quei visi gli furono tolti,

straziati nella polvere e nel sangue.

Uno su tutti.

E rimase solo,

come nessuno di noi fu mai.

Io crebbi con parenti vicini e scettici di me,

ma seppi sempre, vidi sempre la mia famiglia vera.

Non mi conoscevano, ma non li amai di meno.

Erano con me ogni istante,

anche quando tremante consegnavo le vite dei compagni

nelle mani di un probabile assassino, ingenuo.

Ma egli,

egli crebbe come uno stelo d’un fiore raro,

dolorosamente perfetto,

perfetto ma incrinato dal marcire dei sostegni.

Non aveva certezze o spalle,

non ebbe mai altro che armature, e lance.

Consigli, inutili.

Amici, allontanati.

Amore. Amore, nemico e alleato. Amore, che l’ha abbandonato.

Dolce cavaliere dallo sguardo di brillante,

quanto dolore provo nel cantar la tua ballata!

L’eroe vince, nella fiaba.

Tu vincesti solo per altri,

fosti imperatore, re, comandante,

ma le tue schiere si dissolsero come il fumo dei tuoi sogni,

e della splendente e immemore vittoria

altro non ti rimase che lacrime,

e noi pietre.

Noi pietre, quali amici per te, anima bianca!

Un eroe merita seguaci,

non ombre di silenzio e nomi muti.

Tu che muta mai sei,

perché mi parli?

Parli a me, al vicino, all’altro ancora,

non importa quanto e quale male ti sia stato arrecato.

Parli ai pedoni e ai fanti di schieramenti dimenticati,

a incisioni sciupate di sorrisi mai obliati.

Perché, perché, Speranza?

Siamo tutti sommersi in questa valle di colpe e peccati,

tutti condannati da fiaba e cuore;

tu, eroe, non ci lasci.

Ma voi lasciatemi, viandanti;

so che altre voci bramano l’ascolto,

poiché egli deve ancor passarli,

e il vento non comprende bene ciò che gli si confessa.

Ho tempo, io, qui nel mio riposo,

perciò ripeterò se vorrete tornare;

le stesse lacrime immaginerete nel mio viso,

e lo stesso pegno pagherete alla mia ombra

– solo il tempo di una favola.

Via, via, andate.

E’ tempo che zittisca la mia voce,

egli viene e tocca a me ascoltare.

Le stelle sole sanno quanto io odi le rughe del suo stanco viso!

Brilla lo smeraldo,

ma il sorriso è morto, morto come adesso è il sole.

E del sole mi parlerà, lo sa il mio cuore.

Mi chiederà,

ricordo come splendeva quando mi lasciò provare la sua scopa?

com’era luminoso mentre la battaglia della neve imperversava?

come ci scaldava nel guardare l’acqua del Lago?

Oh, mia Speranza,

mio signore.

Ricordo persino le volte che mi toccasti la mano!

Ricordo tutto ciò di cui mi parli,

ieri, oggi, domani. Ricorderò fino alla fine del vento

– dove non più accarezza il grano, ma si spegne nel silenzio.

E ora che avanzi, che ti vedo,

anche adesso mi chiedo quel che non so e tu non sai,

che la mia voce di polvere e terra non ti dirà,

e che tu non sentirai, nel mio compianto.

Perché anche io, Harry?

Non sono che Neville,

non sono che un rimpianto.

  
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