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Autore: Shi_Yurei    10/10/2013    0 recensioni
storia partecipante al ‘Naruto Fantasy Contest' indetto da ‘La procrastinatrice’ (qui su Efp meglio conosciuta come RedHair). purtroppo il contest è stato annullato essendo stata l’unica a consegnare.
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Storia ambientata in un universo alternativo in cui i demoni esistono.
"Se in quella data ti ritrovi tra quelle macerie ed ascolti con attenzione tra il silenzio della sera, mentre il sole cala a nascondersi nuovamente dietro ai monti e le strade vengono percorse solo dal vento; puoi sentire quella cadenzata voce che ti racconta il suo percorso in dieci semplici passi, scanditi dal ritmico incontro d’una palla che rimbalza sul suolo.
Uno. Esprimi un desiderio davanti al rosso del tramonto.
Due. Osservando la luna dal tempio.
Tre. Quando l’alba diventa uno splendido cielo.
Quattro. Consolando un bambino che piange nella notte.
Cinque. Per quanto ancora dovrò seguirti?
Sei. Una famiglia che non torna.
Sette. Un odio tenuto segreto.
Otto. Prima che arrivi il demone della montagna.
Nove. Salendo sul monte d’Hokage.
Dieci. Sono diventato un demone bambino."
Il passato ritorna, venite a rivivere qui i suoi dieci passi. Non fatevi ingannare dai vostri occhi. Lui non è più umano da molto, molto tempo.
Genere: Fantasy, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Iruka Umino, Kakashi Hatake, Madara Uchiha, Obito Uchiha
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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TITOLO STORIA Dieci Passi ed apri gli occhi. Sei un Demone
GENERE Fantasy, Generale
PERSONAGGI PRINCIPALI Kakashi – Madara   - Obito - Iruka
RATING Giallo
CREATURA UTILIZZATA Demoni
PACCHETTI PERSONAGGIO Gatto(al cui interno c’era Kakashi) – Scoiattolo (al cui interno c’era Madara)


♥~ Dieci Passi ed apri gli occhi. Sei un Demone ~♥


~~~~♠~~~~♥~~~~♠~~~~

Se in quella data ti ritrovi tra quelle macerie ed ascolti con attenzione tra il silenzio della sera, mentre il sole cala a nascondersi nuovamente dietro ai monti e le strade vengono percorse, solo dal vento; puoi sentire quella cadenzata voce che ti racconta il suo percorso in dieci semplici passi, scanditi dal ritmico incontro d’una palla che rimbalza sul suolo.

Uno. Esprimi un desiderio davanti al rosso del tramonto.
Due. Osservando la luna dal tempio.
Tre. Quando l’alba diventa uno splendido cielo.
Quattro. Consolando un bambino che piange nella notte.
Cinque. Per quanto ancora dovrò seguirti?
Sei. Una famiglia che non torna.
Sette. Un odio tenuto segreto.
Otto. Prima che arrivi il demone della montagna.
Nove. Salendo sul monte d’Hokage.
Dieci. Sono diventato un demone bambino.


~~~~♠~~~~♥~~~~♠~~~~

Rosso.

Il rosso del tramonto.
Il tramonto reso ancor più sanguigno dalle lingue di fuoco che divoravano alcune abitazioni... e dal sangue dei morti.
Morti che vedo bruciare, corpi che si contorcono per il calore e per il dolore mentre vengono inghiottiti dalle fiamme.
Fiamme che non si limitano a rilasciare nell’aria solo grandi quantità di fumo nero, ma anche l’odore di carne bruciata e di qualcos’altro…
Un odore intenso, quasi nauseante sotto certi punti, che però non assomiglia a nulla che io abbia mai sentito… e se annuso con attenzione m’accorgo che in realtà sono tanti odori, abbastanza simili, ma allo stesso tempo completamente differenti l’uno dall’altro.
Questi odori strani sembrano provenire dagli abitanti di questo paesello di montagna.
Abitanti che mi stanno cominciando a screditare per colpa di mio padre… per sospetto di mio padre… per azioni attribuite a mio padre.
E le azioni, le colpe, le responsabilità di mio padre cadono improvvisamente sulle mie spalle.
Le spalle di un bambino di sei anni che però è figlio di quello che una volta era considerato un ‘grande’ e da questo momento solo un vigliacco traditore assassino…
Dimostrerò che non sono mio padre. Che sono meglio di lui e di tutti loro. Così da riabilitarmi, per tutto ciò che mi riversano addossano ingiustamente, anche agli occhi degli altri… agli occhi di tutta quella feccia.
In fondo io non ho fatto nulla se non essere suo figlio, perché devo essere giudicato da loro solo per questo?

Sposto lo sguardo verso la boscaglia. L’immagine della schiena di mio padre che m’abbandona ancora ben impressa nelle mie cornee.
Ed eccolo lì, un piccolo movimento dietro un cespuglio attira la mia attenzione. Per la prima volta incontro un paio d’occhi color ossidiana ed improvvisamente mi pare di vederci uno guizzo scarlatto… devo essermelo immaginato.
Mi massaggio velocemente gli occhi con le dita per tirar via la stanchezza e rialzo lo sguardo. Nulla. Non ci sono più quegli occhi che nessun altro a parte me ha notato, troppo presi dal tentare inutilmente di sedare gli incendi.

~~~~~~~~

Apro repentinamente gli occhi, fortunatamente il sole non si è ancora alzato, altrimenti mi si sarebbero feriti. Guardo fuori dalla finestra, il cielo si sta rischiarando, non deve mancare poi molto all’alba.

Il mio respiro è lievemente accelerato ed un leggero velo di sudore mi copre la fronte ed il petto. Mi porto un braccio a coprirmi gli occhi mentre prendo un respiro profondo. Odio ricordare persino nel sonno, ma gli unici sogni che mi è concesso fare sono ricordi… i ricordi dei passi che mi portarono ad essere ciò che sono.

Scosto lievemente il braccio e con l’occhio che lascio solitamente scoperto osservo la figura accanto a me.

Dorme su un fianco. Osservo come i suoi capelli castani, solitamente tenuti legati in una coda alta, ricadono disordinatamente sul cuscino bianco. La carnagione bronzea, da sembrare caramello, ben esposta al mio sguardo, facendomi tornare la voglia d’assaggiarlo per verificare quanto sia effettivamente dolce, ma la parte inferiore mi viene ancora nascosta dalle coperte.

Mi metto a sedere sul letto prima di portare una mano ad accarezzargli impacciata il volto. Tento di essere delicato, ma non so mai se ci riesco, non sono abituato a certi gesti, le mie mani ormai sono state troppo educate a far male piuttosto che accarezzare. Sembra che il mio gesto non si sia rivelato rude visto che non si sveglia. Avverto le mie labbra stirarsi in un leggero sorriso, mentre faccio scorrere il pollice su una porzione di cicatrice che gli attraversa orizzontalmente il bel naso,la cui punta sale leggermente verso l’alto. Per poi sfiorare il labbro inferiore che durante la notte gli ho mordicchiato ed assaporato mentre gemeva sotto di me.

Prendo un respiro profondo prima di lasciarlo ed alzarmi dal letto. Devo uscire velocemente, quel profumo dolce e stuzzicante è troppo allettante per me in questo momento. Mi dirigo verso il bagno per una doccia, mentre mi passo una mano tra i capelli grigio-argentati.

Trattengo il fiato rivolgendo il volto al getto della doccia, evitando così che il liquido mi entri nelle vie respiratorie.

Gli occhi chiusi mi ripropongono l’immagine delle fiamme.

Mi sottraggo lentamente dal contatto diretto, riprendendo così a respirare normalmente. Lasciando che l’acqua lambisca il capo e la schiena così da permettergli di riscaldarmi il corpo che avverto ora freddo. Sul viso le scie d’acqua scendono velocemente e socchiudendo gli occhi vedo le gocce imbrigliate nelle ciglia.

Mi sento pigro e stanco stamattina, forse è per questo che rimango molto più a lungo del solito a godermi il picchiettio che l’acqua calda mi provoca sulla schiena. È rilassante, credo proprio che mi serva.

Ormai è arrivato il momento dell’anno in cui i fantasmi del passato cominciano a farmi visita, o forse sarebbe meglio chiamarli demoni?

Ed eccoli che quei due occhi d’ossidiana tornano pressanti a fissarmi dal mio passato.

Chiudo l’acqua infastidito ed esco. Osservo il mio riflesso sullo specchio appannato che mi sta giusto davanti. Mi viene da sfiorare la cicatrice che mi attraversa verticalmente la palpebra sinistra, anche se sinceramente non so se l’impulso riguarda quella che vedo riflessa o quella su me stesso.

Accarezzo la superficie fredda per togliere la condensa e rivelo perfettamente il mio volto. Il Rosso mi fissa ed ora è la voglia di tirargli un pugno, distruggendo lo specchio, che fatico a tenere a bada.

Mi sposto il minimo indispensabile e poggio la testa contro le piastrelle, prima di lasciarmi scivolare a terra.

Rimango lì, gli occhi chiusi pieni di troppe immagini, ma non so per quanto tempo, so solo che a me sembra un’eternità. E sollevo lentamente, con estrema pigrizia le palpebre, mentre le mie labbra lasciano uscire il sussurro con la giusta cadenza:

“Uno. Esprimi un desiderio davanti al rosso del tramonto.”

Mi do dello stupido per la debolezza appena dimostrata, ma tanto in quel bagno non la poteva vedere nessuno, no? E con un pesante sospiro mi rialzo da terra, di nuovo di fronte allo specchio.

L’occhio sinistro ben chiuso, mentre il destro dava l’espressione stanca. Sembro uno che aveva visto troppi scempi ed aveva patito troppi dolori nella vita, ed effettivamente era vero.
 
Chiudo anche il destro per riprendermi dal mio attimo di debolezza manifestata e quando lo riapro gli do il mio tipico taglio un po’ apatico e disinteressato.
I capelli grigio-argentei mi ricadono in ciuffi ribelli a coprirmi un po’ entrambi gli occhi. Dopo avergli dato un’asciugata approssimativa mi sistemo la frangia in modo che mi copra l’occhio sinistro, mentre il resto li ravvivo passandoci una mano attraverso, dandogli una leggera direzionalità verso l’alto, così da lasciargli un aspetto sbarazzino.

Infilai solo i pantaloni, oltre all’intimo, prima d’uscire dal bagno. Dalla cucina proveniva un rumore di acqua, accompagnata dal tintinnio di porcellana. Quando m’appoggiai allo stipite della porta, a braccia conserte, l’occupante sembrò rispondere al mio silenzioso richiamo voltandosi a guardarmi con le sue iridi color cioccolato al latte.

Sembrò sobbalzare appena incontrò il mio unico occhio scoperto, prima di rigirarsi nuovamente a continuare a risciacquare le stoviglie bofonchiando.

“Maledizione a te Kakashi. Uno di questi giorni mi farai venire un infarto se continui a muoverti così silenziosamente. Insomma potresti fare un pochino di rumore mentre ti muovi! Nemmeno i gatti sono così silenziosi, te ne rendi conto?! Stupido idiota.”

Un sorrisino divertito mi stirò le labbra mentre m’avvicinavo sempre in silenzio; non che facessi apposta, solo che era diventata da più di un paio di decadi una mia abitudine estraniarmi da questo mondo ipocrita divenendo un’ombra ed un soffio del vento.

Gli cingo la vita dal retro e gli bisbiglio nell’orecchio “Non volevo spaventarti, ma non vedo ragione di cominciare a brontolare contro di me già di mattina presto, altrimenti cosa farai contro quei poveri studenti? Cosa c’è Iruka, ti sei svegliato male stamattina? O forse volevi solo le coccole a letto come il gattino che sembravi?”

Vedo chiaramente la sua faccia diventare sempre più rossa ad ogni mia domanda, orecchie comprese, e dopo avergli inflitto il colpo di grazia dandogli una leccata al lobo sinistro m’allontano velocemente verso il tavolo, evitando così lo schizzo d’acqua che sapevo avrebbe tentato di lanciarmi mentre si voltava velocemente con la rabbia dell’imbarazzo ed urlando il mio nome.

Ridacchio divertito per qualche secondo mentre si esegue tutto seguendo il mio pronostico ed appoggiandomi al tavolo sorrido; un sorriso che secondo molti è malandrino e sensuale, ma per me è il solo sorrisetto che so fare. Chiudo anche l’occhio visibile e curvandolo in una piega che potrebbe sembrare dovuta alla felicità, ma mi hanno detto che questo mio gesto sembra quasi avere anche un effetto ‘rasserenante’ e dire ‘abbi fiducia in me’ senza che l’osservatore possa negarmela, anche se una cosa del genere a me pare una gigantesca idiozia.

Sento lo sguardo d’Iruka posarsi sul mio petto ancora nudo su cui un paio di goccioline d’acqua continuano il loro percorso una volta liberatesi dai capelli sulla nuca che erano rimasti quasi completamente bagnati. Un forte profumo dolce ed ammaliante mi arriva alle narici e lo inspiro prima di riaprire lo sguardo, non abbandonando il sorrisetto divertito.

Mi aveva accusato più volte di essere troppo provocante in certi miei atteggiamenti, sebbene non me ne rendessi nemmeno conto, perché per me erano naturali; quindi supposi che l’aggiunta d’essere uscito dal bagno non totalmente asciutto e coi capelli più liberi del solito non l’aiutasse a non catalogarmi come ‘pericolosissima bestia sexy’.

La lussuria… un così buon profumo quanto pericoloso. Non potei evitare di pensarlo mentre mi sedevo per sorseggiare la tazza di caffè tiepido poggiata sul tavolo. Lo vidi voltarsi nuovamente verso il lavello, il viso ancora paonazzo.

Inutile, mi diverto troppo a provocarlo.

“Iruka” intervenni fingendo una voce lievemente piagnucolosa, ricevendo un’occhiataccia che significava chiaramente ‘che diamine vuoi adesso?’, le sue guance erano ancora un po’ imporporate, ma continuai la mia provocazione. “Sei cattivo, non mi hai nemmeno aspettato per la colazione: il caffè è tiepido”

Ricevetti un’occhiataccia prima che abbandonasse definitivamente il lavello, avendo giusto terminato i risciacqui. “Ah, adesso è colpa mia se sei capace di arrivare sempre in ritardo anche per la colazione?! Se ti aspettassi ogni volta farei sempre tardi anch’io! Ma che cavolo di gusto c’è ad essere sempre ed immancabilmente in ritardo? E poi si può sapere che cavolo sei stato in bagno a fare tutto questo tempo? Per quel che ne sapevo potevi aver tirato lo sciacquone ed essere sparito nello scarico! Sentiamo un po’ che scusa mi tiri fuori ora?!”

Abbandonai la tazza vuota sul tavolo e mi voltai verso di lui che mi sovrastava, essendo in piedi accanto a me, col suo atteggiamento da ‘ramanzina della mamma’.

Gli sorrisi innocente prima di spiegargli con tono tranquillo, come se lo stessi informando che oggi le previsioni del tempo davano pioggia per il pomeriggio.

“Non è colpa mia se ho fatto tardi, è stata colpa di uno gnomo che mi ha trattenuto per avere delle indicazioni. Poveretto si era perso. Non potevo non aiutarlo, ti pare?” Conclusi tranquillamente ottenendo un sopracciglio alzato ed uno scettico:

“Uno gnomo?... e da dove sarebbe comparso questo gnomo se si può chiedere?” Per vedere dove sarei andato a finire.

“È uscito dallo scarico del water, sai aveva preso il condotto sbagliato due incroci prima il poveretto” aggiunsi fingendo anche qui un perfetto tono dispiaciuto per il destino di questo presunto gnomo.

“Kakashi, tu mi credi seriamente così stupido od ingenuo da bermi questa storia? Persino i bambini dell’asilo sanno che gli gnomi non esistono, quindi la prossima volta inventati una scusa migliore, o almeno un po’ più credibile!”

“No, no Iruka, mi vergogno per te. Come puoi dire queste cose? È ovvio che gli gnomi esistano, ne ho appena incontrato uno in bagno dopo tutto.” Continuai tranquillo e perseverante, tanto che partì una discussione assurda sull’esistenza o meno degli gnomi.

Dibattito che terminò quando l’insegnante vedendo l’orologio non si bloccò urlandomi poi contro che era in allarmante ritardo ed era tutta colpa mia.

L’osservai ridacchiando mentre agguantava giacca e borsa di fretta, prima d’uscire il più velocemente possibile di casa, maledicendo me e le mie stupide scuse sugli gnomi inesistenti. Senza però dimenticarsi di gettarmi una voce, anche se era più corretto dire urlo, per ricordarmi che dovevo muovermi perché ero anch’io in ritardo come mio solito.
 
A differenza sua me la presi con la dovuta calma. Prima d’uscire mi misi subito la mascherina che era come quelle solitamente utilizzate dai medici mentre operavano o da coloro che avevano il raffreddore per andare in giro senza contagiare nessuno.

Presi distrattamente anche entrambi i tipi di benda per coprirmi l’occhio: sia quella da ‘pirata’, che non si sarebbe notata una volta messa nascosta dai capelli; sia quella di stoffa nera, che era in pratica una bandana tenuta leggermente inclinata così da coprire l’occhio sinistro.

Le osservai indeciso, prima di lasciare a casa quella da ‘pirata’, sebbene questa mi evitasse la scocciatura d’essere notata dalla gente provocando domande, trovavo la ‘bandana’ molto più comoda, in più m’evitava che qualche ciocca mi cadesse accidentalmente sul destro.

Mentre m’avviavo verso l’agenzia mi ritrovai a pensare che questa era stata la tredicesima notte che Iruka dormiva a casa mia, ormai aveva imparato a preparare sempre i suoi appunti per coprire due giorni di lezioni, ed avere una borsa con un cambio sempre in macchina, visto che non avrebbe avuto il tempo per passare da casa.

La prima volta che Iruka aveva dormito da lui, il giorno successivo si era dovuto dare malato. Il giovane insegnante aveva supposto che alzandosi ad una certa ora avrebbe fatto in tempo a passare da casa per sistemare tutti i suoi appunti, cambiarsi, ecc. Tuttavia la mattina successiva si era svegliato tardi, ritrovandosi già ad essere in enorme ritardo e se avesse dovuto fare quello che aveva programmato non sarebbe arrivato a scuola se non a mezzogiorno circa senza gli appunti per le lezioni di un paio di classi. Inutile dire che aveva continuato ad accusarlo sul fatto che non avesse sveglie o che fosse solo colpa sua se non era potuto andare al lavoro quel fatidico giorno, questo per quasi due settimane ogni volta che si vedevano, anche per caso, o quel paio di volte che s’erano sentiti al telefono.

Ripensò al sogno… probabilmente, tra dieci settimane, avrebbe abbandonato anche la città di Konoha com’era solito fare ogni anno. Cambiava città il giorno dopo di quell’anniversario. Un po’ gli dispiaceva, Iruka era un bravo ragazzo, ma in fondo questo era solo un motivo in più per andarsene: meritava qualcuno migliore, lui non poteva dargli nulla.

Gli si formò sulle labbra un sorrisino amaro. Il giovane maestro, nonostante lo conoscesse da circa otto mesi, non sapeva praticamente nulla di lui. Ad esempio che la settimana a venire conteneva il giorno del suo compleanno, ma nemmeno Iruka lo sapeva. Ingiustamente, a differenza sua, lui sapeva quasi tutto sull’insegnante. Non che il castano non gli avesse fatto domande, ma aveva ottenuto solo che queste gli fossero abilmente deviate o lasciate senza risposta.
Ma per essere onesto, in realtà, nessuno sapeva nulla, se non poche idiozie, su di lui.

Parcheggiò la macchina e sbuffò osservando l’edificio. Era già arrivato al complesso dell’agenzia ‘Terra del fuoco’ che s’occupava di protezione e recupero, ovviamente di persone che potevano permettersela come i politici ecc.

Lui era considerato il migliore, specializzato in recuperi, ma la cosa non gli importava, lui cercava solo di riportare indietro vivi tutti gli uomini che gli venivano affidati e che venivano assieme a lui. Non gli sembrava di fare poi chissà cosa di speciale.

Quando entrò come un’ombra nella sala, dove si stavano svolgendo gli allenamenti, vi fece passare uno sguardo annoiato.

Era un peccato che non tutti però la pensassero come lui. Inutile dire che non ne aveva promosso nessuno quando il capo dell’azienda, Tsunade Senju, per un breve periodo gli aveva dato il compito d’esaminatore per i nuovi candidati da assumere o quelli da promuovere: tutti volevano solo guadagnare, provare emozioni forti e fare carriera. Non gli interessava nulla della vita dei compagni che li avrebbero accompagnati a salvare l’obiettivo, no, per loro era una gara. E questo non poteva accettarlo, in missione era in gioco la vita di tutti; e tutti dovevano cercare di proteggesi a vicenda. Evitando così di far saltare l’operazione o di farsi uccidere in questa, visto che lui non poteva assicurare di riuscire a proteggerli se gli fossero stati affidati.

Sospirando per i brutti pensieri, s’appoggiò al muro dedicandosi a qualcosa di molto più piacevole: la (ri)lettura del seguito del suo libro preferito ‘il paradiso della pomiciata’(meglio conosciuto come ‘icha icha paradise’), cioè ‘la violenza della pomiciata’; tra una settimana o due sarebbe dovuto andare in libreria a comprare ‘le tattiche della pomiciata’ che sarebbe presto uscito e lui non vedeva l’ora.

Adesso che ci pensava avrebbe potuto passare il prossimo anno nella città di Uzu e cercarsi un lavoro in una libreria, così avrebbe potuto tranquillamente leggere senza scocciatori. L’anno successivo sarebbe si sarebbe trasferito a Suna e quello ancora dopo magari Mizu, ma per quanto riguardava il successivo prossimo lavoro, che sarebbe quello per Suna tra due anni, ci avrebbe ovviamente pensato alla fine del prossimo anno, intanto si era già tolto il pensiero per l’anno a venire.


Inclinò il capo a sinistra. Pochi istanti dopo una lama si conficcò nel muro, dove poco prima c’era all’incirca il suo orecchio destro.
Continuò a leggere tranquillo, anche quando il suo nome divenne un urlo che rimbombò per tutta la palestra. Degnò l’urlatore di uno sguardo annoiato solamente quando questo gli fu a cinque centimetri dalla faccia, prima di sorridere falsamente felice salutandolo con un semplice “È da un po’ che non ci vedevamo Gai”. Ovviamente lo stiramento cortese di labbra era coperto dalla mascherina, così da compensare questa mancata visione diretta coll’occhio visibile chiuso e piegato nella falsa nota felice-cortese e si rimise a leggere.

L’uomo dall’oscena tutina verde e dai capelli a taglio scodella continuò ad urlare come un ossesso riguardo anche il fatto che fosse arrivato a più di metà allenamento iniziato e che al posto di mettersi al lavoro o scusarsi si era messo lì a leggere uno dei suoi stupidi libri. Arrivò anche a chiedergli il motivo del continuo uso della mascherina, o della sciarpa durane i mesi invernali, a coprirgli perennemente metà volto.

Solo a questo si degno di rispondere ‘sorridendogli’ con tono gioviale: “in questo modo il mio naso è protetto dalla puzza del tuo fiato”, per poi tornare, come se nulla fosse successo, al suo amato libro.

Continuò ad ignorare i suoi sbraiti, sino a che questi non sfociarono nella sua solita richiesta d’una sfida che rifiutò per una decina di volte, sino a che Gai non gli disse che toccava a lui scegliere la sfida, inventandosi poi una delle suo solite penalità in caso di sconfitta.

Sospirò pesantemente prima di mettere via il libro, se non l’avesse accontentato non avrebbe più avuto un attimo di tregua.

“In tal caso la sfida sarà una partita di sasso-carta-forbici.”
Inutile provare a descrivere la disapprovazione che questa sua scelta provocò, facendogli aggiungere così spiegazioni su quanto fosse invece valida come sfida.
Possibile che Gai non si fosse mai accorto che a lui non gliene fregasse nulla e che voleva finirle il prima possibile?

Vinsi la prima utilizzando la carta ed informai il mio ‘avversario’ che avrei giocato forbici per la seconda mano, e così feci vincendo la carta di Gai. Due su tre, avevo vinto senza dover disputare l’ultima partita. Ritirai fuori il mio libro mentre il mio avversario se ne andava a svolgere la penale che s’era auto inflitto.
Nel frattempo una donna dalle forme corpose ed un uomo con le labbra tese in un sorrisino, ma che continuavano a tenere la sigaretta tra di esse, mi si avvicinarono guardando ‘la tutina verde’ allontanarsi.

Salutai sia Kurenai che Asuma, che una volta terminati i convenevoli, si complimentarono con me per la missione svolta un paio i giorni prima, in cui il sequestratore si era rivelato un discendente d’un demone d’acqua. Per fortuna si era rivelato un demone non ancora risvegliato, altrimenti avrei perso un buon numero dei compagni che erano con me.

Era raro che un demone s’intromettesse nelle faccende umane, solitamente preferivano mantenersi nei loro clan, stando per conto loro e passando come ombre tra la vita umana. Le poche volte che un Demone però s’intrometteva, o c’era una disputa, il paese o la città che faceva da scenario veniva immancabilmente distrutta.
-Case inghiottite da gigantesche aperture nel terreno e quelle che si salvavano dai crepacci rimanevano comunque macerie.
-Abitazioni che, inabissate, avrebbero continuato a riposare sui fondali di laghi nati quando queste erano state inghiottite dall’acqua.
-Uragani che sradicavano e tagliavano tutto portandoselo via e disperdendolo in un’amplia area.
-Incendi che divoravano e carbonizzavano tutto ciò che toccavano, colorandolo prima di rosso e poi di un perenne nero.
All’incirca erano questi i danni più ricorrenti che si potevano riscontrare se vi era l’intervento d’un demone.

E l’immagine del rosso delle fiamme, del tramonto, del sangue e di quegli occhi scarlatti si susseguirono nella sua mente in veloci fotogrammi. Allentò lentamente il pugno nascosto, che non s’era reso conto d’aver stretto sino a conficcarsi le unghie nella carne, tentando di rilassarsi e calmarsi.

Pazienza... Doveva pazientare ancora, prima che potesse avere la sua vendetta. Il problema, forse, era che non sapeva per quanto ancora avrebbe dovuto ancora attendere.

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Passò una settimana dal giorno in cui i ricordi erano tornati a tormentargli le notti puntuali come ogni anno.

Era il pomeriggio del 15 settembre... il giorno in cui tre decadi prima era venuto al mondo e spesso gli era capitato di pensare che probabilmente sarebbe stato meglio se questo non fosse mai accaduto.

Entrando in casa l’odore dell’anima d’Iruka gli arrivò chiaramente, sebbene la mascherina servisse proprio a fare da filtro.

“Iruka esci dalla camera da letto” disse tranquillo mentre si metteva le ciabatte per  poi dirigersi in cucina.

Passarono pochi instanti prima che il castano lo raggiungesse col broncio, chiedendo a gran voce di sapere come avesse fatto, visto che oggi lui non ci sarebbe dovuto essere ed era stato attento a non lasciare alcun indizio.

Tutto ciò che ottenne fu un sorriso malizioso ed enigmatico dietro alla mascherina che l’insegnante si era premurato immediatamente di togliergli. Prima di voltargli le spalle ed andare a mettere l’acqua per il tea sul fornello.

Iruka alle sue spalle lasciò stare il discorso, sapendo bene che era inutile insistere. Giocherellando con la mascherina di Kakashi che teneva tra le mani, l’informò che aveva ritirato lui la posta e che vi era una busta strana.

Una volta ottenuta la sua attenzione gliela consegnò.
“Non c’è il mittente, non c’è timbro postale né altro e per il destinatario c’è scritto Kakashi Hatake… ma il tuo cognome non è mica Hatakie? Magari si è dimenticato una lettera, ma comunque mi pare strana…”

No, era il cognome sulla busta ad essere coretto, ma non poteva certo dirlo da Iruka. Ogni anno, assieme alla città, modificava il suo cognome e la maggior parte delle volte erano piccolezze come l’aggiungere, togliere o sostituire una lettera, ma comunque cercava sempre di mantenere simile il suono così da rispondervi istintivamente anche se distratto. Anche per questo non era rimasto praticamente più nessuno che sapeva quale fosse correttamente il suo nome completo.

Prese con cura la lettera e se la rigirò più volte tra le mani guardingo. Rilasciava debolmente un odore di… cenere, eppure quello era l’ombra dell’odore del mittente.
L’aprì estraendo un biglietto già pagato per la visita d’un tempio ed un foglio dove campeggiavano elegantemente le parole: Buon Compleanno.

Non sapeva perché ma in quelle due parole riusciva a leggervi solo un tono sarcastico. Era insensato, potevano essere anche parole sincere, poiché non aveva ancora capito nemmeno chi glielo avesse mandato, ma anche quando la leggeva la sua mente la elaborava con tono sarcastico.

L’esclamazione d’Iruka lo strappò dai suoi inconcludenti pensieri. Teneva in mano in biglietto.

“Kakashi! È davvero il tuo compleanno?!” mi grattai leggermente la tempia, mentre chiudevo l’occhio per non guardarlo e sorridevo leggermente imbarazzato sussurrando un debole ‘effettivamente’ che speravo non avrebbe sentito; ero stato colto in flagrante, perché sapevo che Iruka non me l’avrebbe fatta passare liscia per non avergli detto nulla e non avevo voglia di sentire una delle sue prediche assieme ad una dimostrazione di quanto poderosa potesse essere la sua voce e quanto potenti i suoi polmoni.

Ma ovviamente la sua speranza di poter svincolare al proprio pronostico venne completamente distrutta dall’aggiunta d’un paio d’ottave al normale tono dell’insegnante. Nemmeno il tea lo fece desistere ed ormai lui si limitava a rispondere con dei semplicissimi ‘mh’ e cenni affermativi col capo durante le giuste pause che questi faceva non ascoltando realmente nemmeno una parola che usciva da quelle labbra.

Rimase però stranito quando il professore s’alzò dal tavolo sorridente e, dopo aver posato nel lavabo le loro tazze, lo strascinò prima alla porta, rimettendogli la mascherina che gli aveva sottratto ormai un’ora e mezza prima, e poi in macchina.

Lasciò passare il tempo cercando di capire che cosa passasse per la mente del castano, ma in special modo quale fosse la destinazione. Quando si decise a domandarlo ricevette uno sguardo obliquo ed un “Non mi stavi ascoltando eh Kakashi? Comunque non importa, visto che hai già acconsentito, non puoi tirarti indietro. E poiché il biglietto è già pagato e la visita è stasera, non vedevo motivo per cui rifiutare e magari là incontrerai chi ti ha mandato il biglietto. Quindi ti sto portando alle macerie del Villaggio della Foglia.”

L’occhio visibile mi si dilatò per lo stupore, mentre ripetevo incredulo il nome del villaggio. Non poteva essere.
Provai a chiedere ad Iruka di tornare a Konoha. Arrivai a promettergli che gli avrei fatto passare la più bella nottata che avrebbe ricordato sino alla morte e l’avrei fatto urlare di piacere sino a che gli sarebbe andata via la voce, ma per fare ciò dovevamo tornare a casa mia. Peccato che fu tutto inutile, ero riuscito a fargli raggiungere una tinta rosso acceso, ma non a persuaderlo.

Ok, voleva punirmi per non avergli detto nulla, peccato che il mio problema non era il trovarsi costretto a ‘socializzare’ con quegli idioti che avevano aderito a quella stupida iniziativa, né il dover sprecare il mio tempo a visitare rovine ed un tempio che non m’interessava, come invece aveva supposto il castano. No, il mio problema era proprio la destinazione, ma ovviamente non potevo dirglielo… non era ancora il giorno per visitare il mio villaggio natale, ma non potevo nemmeno rivelare che ero stato l’unico superstite del Villaggio della Foglia arso da un demone vent’anni prima.

Sospirai pesantemente, ormai rassegnato al destino che il castano aveva deciso per me, così voltai il capo verso il finestrino. La mano destra lentamente, al posto di sostenermi il volto, la portai ad accarezzarmi il lato sinistro del viso, sino a scivolare sotto la benda, a percorrere la cicatrice sull’occhio fattami il giorno in cui dal Villaggio della Foglia la vita venne totalmente estirpata da due occhi cremisi come le fiamme che divoravano avidamente tutto.


Quegli idioti scelsero per giunta il tramonto per visitare il villaggio, così da renderlo più ‘suggestivo’ a parer loro… inutile dire quanto li maledissi interiormente, sebbene dall’esterno sarei apparso il solito calmo, pacato ed apatico.

Mi domandai distrattamente se questi ‘sveglioni’ erano effettivamente a conoscenza che il tempio era a cinque/dieci minuti di cammino dal villeggio ed il sentiero era in mezzo al bosco.

Nemmeno a dirlo la notte precedette l’entrata nel bosco. Per Lui non era un problema, in fondo si ricordava ancora alla perfezione tutto, persino ogni radice che spuntava dal terreno, da tutte le volte che l’aveva percorso anche al buio, ma questo non si poteva certo dire per gli altri che ebbero grande difficoltà.

Ed infine eccolo lì, il piccolo ed antico tempietto che era mantenuto solo come ricordo e da vent’anni a questa parte come commemorazione a tutti i suoi abitanti uccisi.

Quando le due guide li invitarono a seguirli che la visita era finita, si limitò cortesemente ad informarli che sarebbe rimasto ancora un po’ e che la strada se la ricordava chiaramente, così da non preoccuparsi di lui e visto che la visita era finita erano sollevati anche da ogni responsabilità.

I due parvero un po’ dubbiosi, ma l’accontentarono lasciandolo da solo. Si sedette sul quarto ed ultimo gradinetto in pietra del tempietto spegnendo la torcia. L’altarino ancora all’interno di una piccola radura e se alzavi il viso potevi vedere tranquillamente uno scorcio abbastanza amplio di cielo assieme alla luna, senza che le fronde degli alberi s’intromettessero.

E rimase lì, ad osservare la luna come aveva fatto quasi tutti i giorni da quando aveva sei anni per quattro interi anni.

“Due. Osservando la luna dal tempio.”
Il sussurro gli sfuggì ancora una volta dalle labbra con la giusta cadenza. Solo il vento lo sentì, portandoselo via velocemente in un soffio per custodirlo gelosamente, quasi temesse che qualcun altro potesse portarglielo via per ascoltarlo. Ma questo a lui non importava granché al momento, troppo perso nei propri dolorosi ricordi.


Da quando il padre aveva abbandonato il villaggio, ogni sera lui andava lì per sfuggire agli occhi della gente; ed osservava la luna. Quel silenzio, quell’atmosfera riuscivano sempre a rilassarlo, anche quando d’inverno il freddo gli rubava rapidamente calore sperando che se ne andasse a rifugiarsi prima in un caldo posto sicuro.

Lì non si sentiva il nauseante tanfo delle anime dei paesani, perché sì, da quel giorno dell’incendio aveva presto capito che quello che sentiva erano anime, ma ovviamente non aveva detto nulla a nessuno.

Ed, ironia della sorte, gli era bastato qualche mese, un anno massimo per i più scettici, per rivalutarsi agli occhi del villaggio. Ora era considerato un genio, un prodigio da quella feccia… aveva occupato il posto ‘d’onore’ che anni prima aveva occupato il padre e quell’odore d’ipocrisia, d’ammirazione, d’invidia, che lo circondava praticamente tutto il giorno, lo nauseava.

Forse era anche per questo che andava e rimaneva al tempio il più possibile. Quasi come per riuscire a ‘purificarsi’, a togliersi di dosso quel fetore che gli gettavano addosso.

Coglieva sempre più spesso quelle due iridi nere come la pece osservarlo di nascosto dalla boscaglia, ma passò molto tempo prima che il loro proprietario avesse il coraggio di mostrarsi, o forse era meglio dire l’incidente che lo portò a scoprirsi.

Non gli aveva mai dato effettivamente fastidio anche prima di venire allo scoperto, in fondo non disturbava il suo ‘processo di purificazione’.

La sua anima non era come quella degli abitanti del villaggio. Aveva un odore diverso. Lui odorava più di selvatico e di muschio, contornato dall’odore delle sue sensazioni, ma non erano fetidi come quelli che aveva sentito sino a quel momento. Era un odore leggermente dolciastro, che pareva essere curiosità, ma allo stesso tempo era come… acre… come se fosse dispiaciuto per lui e provasse tristezza.


Si riscosse grazie al gracchiare d’un corvo appollaiato sui rami alti d’un paio di alberi più distanti. Si massaggiò leggermente il collo irrigiditosi per la posizione mantenuta decisamente per un tempo eccessivo  considerando che era l’alba.

Scosse leggermente la testa il segno di diniego, incredulo di quanto potessero assorbirlo i propri ricordi ed attese.

Attese di veder sorgere il sole completamente e che il cielo prese la sua consueta colorazione interamente azzurra.
Era giorno.

“Tre. Quando l’alba diventa uno splendido cielo.”
Sussurrò ancora come aveva fatto sia per il secondo qualche ora prima, sia per il primo la settimana precedente.

La sera col tramonto, la notte con la luna come sola compagna, l’alba per indicare che sei sopravvissuto un altro giorno, e la fase diurna ad indicare la tua resistenza e se si considera anche il quarto passaggio si ritorna alla notte ed il quinto suggerisce il continuo ripetersi.

Il passare del tempo, dei giorni, che aumentavano a loro volta… ecco cosa indicavano i primi tre passaggi, coinvolgendo in parte anche il quarto e quinto per sostenerli, ma quest’ultimi narravano già l’inizio del secondo atto oltre all’attesa.

Alzandosi dalla pietra che l’aveva sostenuto sino a quel momento, s’avviò verso le macerie del Villaggio della Foglia. Sarebbe poi sceso ancora un po’ verso valle, e seguendo un certo sentiero ci avrebbe impiegato una decina di minuti, così da poter prendere il treno e tornare finalmente al suo appartamento a Konoha.

Gli stava venendo un po’ di sonno.

~~~~♠~~~~♥~~~~♠~~~~

Da quell’alba del 16 settembre trascorse all’incirca un mese e gli sbalzi autunnali torturavano la gente, costringendola sempre ad un maggiore freddo.

Tutto era nell’ordinario quel primo pomeriggio, se non per una figura dalla capigliatura grigio-argentea, con metà volto celato da una lunga sciarpa grigio chiaro-azzurro ghiaccio, che si trovava stranamente davanti ad una scuola elementare.

Lui detestava i bambini, una cosa che negli anni non era cambiata, ma era venuto per avvertire l’insegnante di quei mocciosi che non ci sarebbe stato per un paio di giorni per una missione e che doveva partire circa tra un paio d’ore.

A giudicare dalla folla di marmocchi doveva essere capitato giusto durante l’intervallo. Entrò dal cancello e fece vagare lo sguardo sull’area per individuare la sua ‘preda’, anche se l’odore della sua anima l’aveva già indirizzato verso la zona nord-est. Mostrando il suo solito atteggiamento apatico proseguì ignorando tutti i diversi sguardi che riceveva dall’intera scolaresca.

Lo trovò in un angolo appartato dietro all’edificio a tentare di consolare una bambina che cercando di trattenere le lacrime non otteneva altro che singhiozzi e le mani che ormai non riuscivano più a togliere l’acqua salata che non voleva cessare si scendere, probabilmente era stata presa in giro dai suoi compagni o altro. I bambini sapevano essere più crudeli degli adulti perché non si rendevano davvero conto di quando e quanto effettivamente ferivano.

Ma quelle lacrime mi ricordarono lui. Io mostravo sempre un’unica espressione in pratica, ma lui… aveva sempre un sorriso sulla faccia, oppure piangeva come un mocciosetto oppure s’infervorava e cominciava ad urlare e gesticolare come un forsennato, ma mostrava una gamma impressionante d’espressioni.

Vederli lì così mi ricordò noi due, ma a differenza di quello che stava facendo Iruka, io non sapevo come consolare. Ed un sussurro uscì flebile dalle mie labbra mentre i ricordi mi trascinavano indietro.

“Quattro. Consolando un bambino che piange nella notte.”


Il rumore di un ramo che si rompeva e cadeva a terra, assieme ad un guaito attirò la mia attenzione verso gli alberi davanti a me alla mia sinistra. Mi alzai dai gradini in pietra del tempietto e mi diressi con silenziosa attenzione a scoprire ciò che era successo.

Scostai un paio di cespugli prima di vedere a terra un ragazzino, che ad occhio doveva avere circa la mia età, massaggiarsi il sedere in una posa ridicola. Con un paio di lacrimucce ai margini degli occhi chiusi e sulla fronte una di quelle ‘maschere’ che utilizzavano i sub per proteggersi gli occhi in acqua.

Alzai un sopracciglio a quella vista e rimasi a fissarlo indifferente. Quando il ragazzo dalla sbarazzina capigliatura nera aprì un occhio sobbalzò vedendomi, balzando poi subito in piedi.

Eccole lì quelle due ossidiane che continuavano a fissarlo.

Lasciò i cespugli e se ne tornò sui gradini in pietra ad osservare la luna ignorando gli “Ehi!”, “Tu”,
“Aspetta” che l’altro ragazzo continuava a ripetere cercando di richiamare la sua attenzione.

Gli dedicò a malapena un’occhiata quando questo gli si piazzò di fronte stizzito per la mancata attenzione.
Cominciò a dispensare commenti sulla mia mancanza d’educazione fino a che, stanco delle sue urla, gli rinfaccio che la buona educazione di cui lui parla tanto avrebbe previsto che fosse lui il primo a presentarsi, cosa che non aveva fatto, quindi di chiudere il becco e tornare a ripassare le regole del galateo perché era irritante.

Passarono diversi attimi di silenzio in cui il volto del moro divenne totalmente rosso, prima che questi riuscisse a dire qualcosa.

Lo vide espirare profondamente, probabilmente per calmarsi, prima di presentarsi come Obito Uchiha e tendermi la mano un po’ imbronciato. Ricambiai la stretta dicendo semplicemente “Kakashi Hatake” prima di mollarla e tornare a guardare il cielo.

Passarono ancora diversi istanti in cui rimase lì in piedi a fissarmi, prima di sedersi accanto a me e rivolgere anche lui lo sguardo alle stelle ed alla luna.

Passavano le notti e lui tornava sempre al tempietto a sedersi accanto a me, sino a decidere degli orari in cui incontrarsi, ai quali però arrivava sempre ed immancabilmente in ritardo.

Solitamente arrivava ruzzolando chiedendomi se aveva fatto in tempo, mentre io troneggiavo a braccia conserte rispondendogli che invece era in ritardo e ricordandogli l’importanza della puntualità. Di solito quelle erano le uniche frasi che dicevo durante tutta la nottata, mentre lui continuava a parlare.
Ovviamente per ogni ritardo forniva giustificazioni assurde: c’era una volpe che mi ha attraversato la strada, c’era un serpente che voleva mordermi, sono stato rincorso da un cervo che pensava volessi fare qualcosa alla sua compagna,… ma anche se non lo dava a vedere un po’ lo divertiva sentire le scuse assurde che s’inventava ogni volta.

Infatti Obito continuava a parlare, anche delle cose più stupide a cui lui rispondeva solitamente ad occhiata con l’inarcamento d’un sopracciglio, non sprecava nemmeno monosillabi e se parlava era per fargli severamente presente regole che lui non rispettava.

Parlava, parlava e parlava, ma anche se in apparenza non prestava la minima attenzione, mostrando la sua solita maschera annoiata, ascoltava le parole di quella voce allegra che riempiva il silenzio della notte. Si ricordava tutte le confessioni che Obito gli aveva fatto, anche quelle tristi, private e dolorose, come quando gli aveva detto che lui stava con il proprio zio, ma per quanto ci provasse non riusciva mai a renderlo orgoglioso, ricevendo solamente occhiate severe o commenti pungenti, o addirittura insulti, seguiva le indicazioni del maggiore per provvedere all’acqua e a volte al cibo, ma alla fine passava tutto il suo tempo da solo.

Le lacrime di tristezza, amarezza e solitudine rigarono copiosamente le guance del ragazzo, ma lui non sapeva cosa fare. Non aveva mai consolato nessuno, nè era stato consolato, se l’era sempre cavata da solo. Probabilmente lui a differenza del moro non sapeva piangere e questo per un momento gli fece pensare, gli fece rendere conto, che lui in realtà era ancora meno umano di quanto potesse pensare.

Si limitò a poggiare una mano sulla spalla del moro, lasciandolo sfogarsi, ma dandogli un tacito sostegno ed appoggio. E questo, forse, funzionò.


“Kakashi?”
Il richiamo dell’insegnante servì a riportarlo alla realtà, mentre la bambina con gli occhi ancora un po’ arrossati e gonfi rientrava lentamente e tentennante poiché l’intervallo era finito.

Iruka era avanzato sino a trovarsi circa ad una spanna di distanza da lui, guardandolo con un po’ di preoccupazione, chiedendogli anche se andasse tutto bene.

Si portò una mano alla sciarpa ed abbassandola andò a rubare un bacio a fior di labbra all’insegnante, prima di ricoprirsi metà volto sorridere e rispondere che sì andava tutto benissimo, mentre il professore prendeva una colorazione porpora.

Lì in giro ed in quella scuola c’erano davvero troppe anime, per quei pochi istanti in cui si era liberate della protezione/filtro fornitogli dalla sciarpa gli era quasi venuta la nausea per i troppi odori di anime.

Decise di non trattenere troppo l’insegnante, poiché era atteso in classe, informandolo della sua assenza per i prossimi giorni. Questi sembrò un po’ preoccupato, ma sorridendo annuì, prima di sapere quando di preciso doveva partire ed urlargli dietro di muoversi a tornare a casa a preparare le cose che sicuramente sarebbe stato di nuovo in ritardo.

S’avviò, lasciando rientrare nell’istituto il borbottante ed irritato insegnante, mentre gli si formava il dubbio che Tsunade gli avesse detto un orario anticipato per farlo arrivare all’incirca in orario.

E pensare che lui da vent’anni lo faceva apposta ad arrivare agli appuntamenti sempre in ritardo.

Mentre stava superando il cancello si voltò un attimo indietro e quasi gli sembrò si rivedere Obito correre per sentieri battuti in sostanza solo dagli animali, voltandosi con le guance rosse per lo sforzo ed un sorriso birichino mentre lo spronava. In fondo il moro non era mai riuscito a convincerlo del tutto.

“Kakashi per di qua, seguimi ti voglio mostrare una cosa!” gli diceva sorridendo, ridendo prima di correre per un altro pezzo prima di girarsi indietro a controllare che lo stesse seguendo davvero.

“Cinque. Per quanto ancora dovrò seguirti?”
Recitò il quinto passo in un sussurro al vento, in una domanda che non attendeva alcuna risposta e quindi si voltò e riprese a camminare nella propria direzione e non quella dei ricordi.

~~~~♠~~~~♥~~~~♠~~~~

Trascorsero le settimane e presto giunse quel giorno. Il giorno dell’anniversario della morte d’Obito e della distruzione del Villaggio della Foglia. E con essa arrivò il suo ultimo giorno a Konoha.

Era appena andato a dimettersi ed aveva avvisato Iruka che doveva parlargli. L’avrebbe informato che se ne sarebbe andato, sebbene fosse un po’ da codardi dirglielo all’ultimo, ma era la soluzione migliore anche per evitare isterie. E per finire la giornata avrebbe trascorso il resto del tempo alle macerie del Villaggio come sua abitudine.

Lo stesso rituale che si ripeteva invariato in quella precisa data ogni anno.

Peccato che qualcosa nei suoi piani s’incrinò irreversibilmente. Iruka nel suo appartamento non c’era, al suo posto solo un biglietto sul tavolo.


Hai ancora la tendenza a sceglierli ingenui come Obito vedo, anche se questo era smanioso di saperne di più su di te.
Suppongo che debba ringraziarlo per averti convinto ad accettare il mio regalo di compleanno, nevvero Kakashi?
Ti aspettiamo dove tutto è cominciato per noi.
Ti consiglio di fare presto.
U. M.


Strinsi la presa sul foglietto, sino a che uno sfrigolio non lo ridusse in cenere.
Solo quel nome rimbombava nella mia mente mentre uscivo velocemente dall’appartamento per dirigermi verso le rovine del Villaggio della Foglia.

Uchiha Madara.

La rabbia montava in concomitanza col tempo che scorreva, riportando a galla sensazioni che non voleva ricordare.

Come l’impotenza quando suo padre l’aveva abbandonato senza dirgli nemmeno una parola. E la patetica speranza che per i primi tempi provava attendendo che tornasse.

Solo. Era sempre solo. Attendendo chi non tornava. Sperando di ricevere un po’ del calore che gli veniva concesso prima, ma che ora era svanito assieme al padre… assieme alla sua famiglia.
E presto cominciò ad accumularsi la rabbia come in quel momento, ma sarebbe presto scemata come allora, lo sapeva.

“Sei. Una famiglia che non torna.”

E gli anni erano passati, lasciando il lui solo odio e vuoto.

Si ritrovò a pensare vedendo le prime macerie del villaggio. E quel sentimento tornò vivido come la memoria.
L’odio nascosto agli abitanti, tutti loro lo disgustavano. L’odio che cresceva davanti ad ogni atteggiamento mostratogli. E l’indifferenza che provava invece per tutto il resto.
Cominciava a sentirsi sempre meno umano e l’odio rimaneva come un carbone ardente nascosto dietro una spessa ed impenetrabile barriera. Intravisto solo da Obito, che riuscì a fargli provare qualcos’altro, ma l’odio, quello, non si spense mai. In fondo era ancora vivo, sebbene nascosto ancora più profondamente.

“Sette. Un odio tenuto segreto.” Si trovò a bisbigliare addentrandosi tra i rimasugli di quelle detestate abitazioni e dei loro odiati proprietari.

Al centro di quella che vent’anni addietro era la piazza del Villaggio della Foglia vi era una persona distesa a terra, mentre a una decina circa di metri dietro ad essa una figura a lui ben conosciuta s’ergeva in piedi a fissare il tutto. La mano destra era imbrattata di rosso e piccole gocce scendevano per incontrare il suolo.

“K-Kaka-shi…” Era un sussurro sofferto.

Lo stomaco era stato perforato ed il sangue collimava copioso per formare una grande pozza scarlatta sulla terra che non riusciva più a dissetarsi di quel liquido vitale. M’avvicinai velocemente al corpo quasi esangue dell’insegnante e lo tirai più delicatamente che riuscii tra le mie braccia.

“Iruka” solo un filo di voce lo pronunciò, insicuro se dare concretezza o meno alla realtà dei fatti.
Gli accarezzai il volto, non potendo impedirmi d’accusarmi mentalmente, perché si ritrovava lì solo a causa mia, solo perché mi aveva tenuto compagnia quell’anno.

Mi chinai su di lui, avevo già deciso cosa fare, ormai non gli restava molto. E volli assumermi le mie responsabilità, lo feci per alleviarlo del dolore che la morte gli stava infliggendo, oltre che per non dimenticarlo.

Lo baciai un’ultima volta. Ed in quel bacio, oltre a divorargli le labbra, gli divorai anche l’anima.

Ora tra le mie braccia giaceva solo un corpo inerte. Un’altra vittima sacrificale.

Non potei non ricordare anche la mia prima ‘vittima sacrificale’ e le sue ultime ore avendone ora una nuova tra le braccia. In fondo quello ora era divenuto l’anniversario della morte anche di questa nuova anima deceduta e più tardi l’avrebbe portata a riposare nel suo ‘cimitero personale’ assieme alla prima.

Il problema forse per lui era che ricordava ancora troppo vividamente tutto e non si sarebbero deteriorati anche in futuro, non potevano sfuocarsi quei ricordi. Ricordava perfettamente anche la sua voce, come se la sentisse uscire da quelle labbra mordicchiate in quell’esatto istante.


“Kakashi sbrigati, forza, ci dobbiamo sbrigare finché lui non c’è!” Obito sembrava agitato e mi trascinava velocemente su per la montagna. Provai a chiedere chi, ma ottenni solamente un “Lui”.

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“Otto. Prima che arrivi il Demone della Montagna.” Sussurrai accarezzando quel volto che diveniva sempre più freddo.
 

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Una volta superato il punto sin dove mi aveva condotto la volta precedente un odore di sangue cominciava ad arricchire e a pesare sempre più gravemente nell’aria.
Non so quanto ci impiegammo, arrivammo sino ad una grotta non poi così distante dalla cima del monte Hokage.

Mi spinse all’interno sussurrandomi di fare silenzio e fare in fretta. La caverna era un po’ più profonda di quello che sembrava e nell’alcova che vi poneva fine vi era un uomo incatenato al muro. Il fisico pareva allo stremo, decorato da cicatrici, ustioni, ferite e sangue incrostato o meno che gli imbrattavano pelle e quello che rimaneva di vestiti. Il capo era chino, mentre i capelli parevano quasi marroni per tutto il sangue raggrumato che li incrostava, lasciando liberi solo pochi sprazzi di grigio.

Obito corse verso l’uomo slacciandogli con fatica le manette, facendolo così cadere a terra come una marionetta privata dei fili, mentre sussurrava preoccupato, ansioso e felice.
“Signore forza, dobbiamo fare presto prima che lo zio ritorni, ho portato anche Kakashi con me. Si faccia forza.”

Lo guardai stranito mentre sorreggeva il corpo dell’uomo. Sinceramente faceva prima a dargli il colpo di grazie e porre fine alle sofferenze del poveretto, ma chiamato con insistenza dal moretto s’avvicinò per aiutarlo a potar via l’adulto.

“Obito… ne sei sicuro? Faremmo prima a lasciarlo qui, anche l’odore che dovrebbe provenire dalla sua anima è talmente debole che fatico a sentirlo, specie con questo tanfo di sangue. Dovremmo dargli il colpo di grazia per farlo smettere di soffrire piuttosto.”

“NON DEVI DIRE QUESTE COSE! Sei il solito insensibile! Lui è pur sempre t-”

“Che cose interessanti che ho sentito. Obito vedo che mi hai portato finalmente il cucciolo degli Hatake.” La voce roca maschile interruppe il moretto che guardò dietro di me con occhi sgranati, cominciando a tremare lievemente.

“Z-zio Madara i-io…”

Mi voltai per veder passarmi accanto un’umbra. Osservai la schiena robusta del nuovo arrivato, coperta da lunghi ed ispidi capelli neri come ali di corvo, ma in qualche modo risultavano spenti, non riflettevano alcuna luce, pareva quasi che l’inghiottissero.

“Pensavi davvero che me ne sarei andato momentaneamente? Le continue scuse che utilizzavi per non avermi ancora portato il cucciolo Hatake rivelavano chiaramente il tuo intento di disobbedirmi Obito.” Terminò tirando un calcio nello stomaco del nipote, facendolo finire contro le pareti rocciose a tossire per il colpo, mentre il corpo dell’uomo che sorreggeva ricadeva a terra indolente.

“Ma credo tu abbia ragione nipotino, è ora di fare una commuovente riunione di famiglia.” Riprese tirando per i capelli l’adulto a terra, così da alzarlo sino a mostrarmi il volto. E con un ghigno in volto si rivolse direttamente a me “Tu dovresti chiamarti Kakashi, dico bene? Cosa si prova nel rivedere tuo padre dopo quattro anni? Scusalo, se avesse saputo che stavi arrivando sono certo che sarebbe stato più presentabile.”

Avvertii gli occhi sgranarsi lievemente per l’effettiva sorpresa nel riconoscere, sebbene con difficoltà, quel volto che non vedeva da quattro anni nel ‘prigioniero’; prima che l’Uchiha maggiore lasciasse la presa sui capelli dell’altro adulto, facendolo rovinare a terra.

“Devo ammettere che tuo padre mi ha davvero deluso, pensavo che la zanna bianca della foglia si fosse risvegliata come Demone di alto rango a giudicare dalla fama che aveva, ed invece nulla. Avverte sensazioni e l’odore di sangue e nient’altro. Non credo che il suo sangue si sia risvegliato, e se l’avesse fatto sarebbe solo un Demone di bassissimo rango. Non ha senso nemmeno soggiogarlo per averlo al proprio comando. Ma non si può dire lo stesso di te, vero? È raro che già alla tua età tu percepisca l’odore delle anime. Sai l’ho lasciato in vita solo per fartelo rincontrare e vedere se questo ti avrebbe risvegliato” Spiegò tranquillamente prima di tirare nuovamente i fili una volta di un magnifico grigio-argenteo ora coperti d’impurità.

Estrasse un piccolo pugnale e gli sgozzò il genitore davanti agli occhi. Ebbe solo la nausea per l’eccessivo fetore del sangue che ottenebrava l’aria rendendola quasi irrespirabile. Non ottenne altre reazioni da lui, ma che si aspettava in fondo? Per lui suo padre era morto quattro anni prima, quello davanti a lui era un perfetto sconosciuto. Non l’avrebbe perdonato per averlo abbandonato, che fosse scappato o meno, senza avergli dato anche la più minima spiegazione o avvertenza.

Dal volto dell’uomo però non riusciva a capire se questi fosse soddisfatto o meno della sua reazione, pareva una maschera d’impassibilità. Gettò il corpo in un angolo sbuffando.

“Le doti per divenire un demone le hai, da quello che vedo probabilmente saresti anche d’assai elevato rango, Kakashi Hatake. Peccato che non abbia voglia di giocare come ho fatto con tuo padre per risvegliarti, dopo quattro anni di tentativi andati nulli la mia pazienza è andata scemando. Ma forse è un bene, in fondo potresti diventare un problema anche per me se sei troppo portato. Quindi direi che è ora di dirci addio. Ah, che sbadato Madara Uchiha è il nome della persona che ti porterà all’altro mondo.” Concluse prima d’abbassare la lama su di me.

Non l’avevo visto muoversi, ma anche coi miei riflessi non riuscì a schivarla del tutto, la punta della lama percorse un tragitto sagittale dal sopracciglio sinistro sino all’occhio per attraversare ancora la guancia sino alla fine della corrispondenza con l’osso zigomatico. Riuscii ad arretrare tirandomi dietro Obito, che era alla mia destra, che si era addirittura buttato nel tentativo disperato di farmi da scudo col suo corpo, cosa che sarebbe risultata comunque inutile visto che non avrebbe fatto in tempo.

La mano sinistra poggiava sulla ferita tentando di proteggerla, mentre la destra teneva ancora il braccio d’Obito. Allontanai la sinistra per valutare la quantità di sangue che vi si era depositata, ma il dolore, specie quando provai ad aprire l’occhio mi portò a supporre d’averlo effettivamente perso. L’Uchiha minore nel frattempo estraeva un pugnare, avanzando lievemente per proteggermi da un eventuale attacco a sorpresa mentre io valutavo velocemente la gravità della ferita.

“Obito sei una vera delusione, dovevo liberarmi di te parecchio tempo fa” Fu il sussurro che s’udì prima che l’uomo non comparisse davanti a loro attraversando il petto del parente con la lama.

Non potei fare nulla, non feci in tempo a muovere un muscolo, forse un po’ per la sorpresa dell’azione. Mi ritrovai presto ad essere lanciato contro una parete, mentre Obito aveva conficcato il suo pugnale nell’avambraccio destro dello zio, prima di venir anche lui gettato in un angolo della grotta. La vista cominciò a farsi offuscata e vidi l’ombra che era Madara avvicinarsi al corpo di Obito, recuperando degli oggetti che scontrandosi tra di loro provocarono un rumore metallico.

L’ultima cosa che sentì prima del rumore della frana fu la sua ultima frase.

“Se ci tenete tanto morite lentamente insieme in questa grotta, schiacciati dai sassi.”

E lui sparì succeduto dal crollo che aveva provocato a quello che negli ultimi quattro anni era stata la prigione della Zanna Bianca della Foglia.

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“Nove. Salendo sul monte d’Hokage.” Sussurrai ancora con gli occhi chiusi, mentre depositavo a terra delicatamente il corpo ormai esanime dell’insegnante.

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A quanto pareva un paio di massi cadutimi affianco hanno evitato che quelli sopra mi schiacciassero. Li spostai con non poca difficoltà e m’alzai con fatica, pressando la mano sull’occhio sinistro ormai inutilizzabile. Il cadavere di mio padre era sotto centinaia e centinaia di detriti. Ma appena avvertii quel sussurro richiamarmi mi voltai fino ad individuare il corpo del moro nell’angolo dietro a delle macerie.

“K-Kakashi… Perdonami… non sono riuscito a fermare mio zio.” Riesce a dire con voce un po’ roca prima di tossire un po’ di sangue.

Cominciai a spostare le macerie per portarlo fuori, ma lui mi blocca.
“È inutile… Per me è troppo tardi.”
Sorrise un po’ tristemente, ma non mi arresi e tolsi i detriti sino a rivelare gli spuntoni di ferro che gli trapassavano la cassa toracica, oltre alla profonda ferita infertagli prima dal Demone che gli attraversa obliquamente il petto.

“Kakashi, ti devo chiedere un favore: assorbi le mie energie e la mia anima, non mi va che siano sprecate” continuò faticosamente, non abbandonando la nota finale divertita che serviva ad alleggerire la situazione.

Gli stava chiedendo di ucciderlo, di accettare di essere un Demone. Ed Obito sapeva benissimo cosa gli stava chiedendo, il moretto era pur sempre un Demone non ancora risvegliato, ma non voleva accettare la fine impostagli dal parente. Voleva scegliersi da sé la fine e voleva che lui lo uccidesse.

Non voleva sparire nel nulla dando la soddisfazione a suo zio di dargli ragione, a costo di far risvegliare definitivamente l’amico e condannarlo ad essere ciò che odiava. Voleva aiutare a creare e risvegliare ciò che Madara aveva temuto, il Demone che sarebbe stato in grado di portarlo alla sua fine, perché lui conosceva Kakashi e sapeva che in futuro sarebbe divenuto inarrestabile. Kakashi avrebbe compiuto la loro vendetta, ma per fare questo l’avrebbe ferito costringendolo ad accettare ciò che era realmente.

“Mi dispiace, sopravvivi Kakashi. Io rimarrò sempre con te, nel tuo occhio sinistro.” Mi disse a fatica, elargendomi uno dei suoi sorrisi allegri, sebbene il dolore ed il dispiacere per ciò che stava facendo all’amico trasparivano chiaramente dall’odore della sua anima.

E lo fece. Divorò l’anima dell’amico e la sua energia vitale rigenerò l’occhio sinistro, cicatrizzando la pelle che era stata tagliata dalla lama della spada. Quando lo riaprì l’iride era rossa, con tre gocce nere, proprio come quelle di Madara e proprio come erano divenuti quelli d’Obito un secondo prima che gli venisse squarciato il petto. Presto le gocce nere si modificarono sino ad assumere ognuna la forma simile ad una falce la cui lama toccava il manico corto e largo di quella successiva che s’allungava dalla pupilla.

La cosa strana erano le lacrime che scendevano da quell’unico occhio rigenerato. Non era mai stato in grado di piangere, quindi forse quello era Obito che piangeva per lui?

Uscì dalla caverna crollata lasciandoci all’interno i corpi del padre e di quello che avrebbe potuto considerare un fratello, sebbene non di sangue.

Da lì, da quello che ormai lui aveva battezzato come suo personale cimitero sul monte d’Hokage, lo vide.

Il rosso delle fiamme che divoravano l’intero villaggio, non risparmiando nemmeno un’anima si rifletteva chiaramente nel suoi occhi, uno rosso come loro ed uno nero come la figura del demone Madara Uchiha che rideva al centro di quello che pochi istanti prima era conosciuto come il Villaggio della Foglia.

Ma di cosa ci si poteva stupire, è risaputo che le foglie non resistono al fuoco, ma lui non era mai stato una foglia. Era un fulmine; una tempesta ricca di acqua e di fulmini che distruggono tutto, che rompono persino la terra e non si può bruciare una tempesta o un fulmine ed il Demone che aveva loro rovinato l’esistenza se ne sarebbe presto accorto.

Anche l’altra iride divenne per un momento rossa, risvegliata dal suo occhio e dal suo istinto demoniaco, ma solo per in istante. Nell’attimo preciso in cui il Demone di fuoco se ne andò, anche l’iride destra tornò del suo abituale colore scuro.

Ed anche lui abbandonò la montagna, se l’era sempre cavata da solo, non sarebbe stato un problema.
Ora doveva solo crescere ed aspettare il tempo giusto per la sua, anzi la loro, vendetta.

Non si può bruciare un fulmine o una tempesta.

Quell’occhio sinistro sarebbe rimasto per sempre rosso, in quell’occhio era come se avesse sigillato Obito, esaudendo la sua richiesta. In quell’occhio vi sarebbero state tutte le persone a cui teneva e che aveva divorato e sarebbe stato il suo monito per non dimenticare i morti che avevano il diritto di tornare a tormentarlo.

Feci dieci passi in avanti e fu allora che mi decisi a riaprire gli occhi, alcune lacrime lasciavano il sinistro com’era accaduto due decadi prima. Alzai lo sguardo e la figura di Madara Uchiha si rispecchiava nei miei occhi divenuti entrambi rossi con quel disegno nero all’interno.

“Dieci. Sono diventato un Demone bambino.”

Era il momento di portare a termine una vicenda durata fin troppo, due paia di rubini che si fissavano pronti a divorarsi l’un l’altro senza indugi.
Lo sapevo perché siamo due Demoni… No.
Lo sapevo perché sono un Demone.




Angolo della Sadica Sanguinaria

Rieccomi qua ^^ spero che sia piaciuta anche a voi.
Questa storia avrebbe partecipato al ‘Naruto Fantasy Contest’ indetto da ‘La procrastinatrice’ (qui su Efp  meglio conosciuta come RedHair) ma purtroppo, visto che sono stata l’unica a consegnare è stato annullato. Tutta via è stata così gentile da lasciarmi il suo giudizio che metterò qui a seguire, quindi per chi non dovesse interessare ringrazio qui. Statemi bene bye xXx


GRAMMATICA: 7.8/10
Nel complesso la grammatica è buona. In alcuni punti ci sono errori di battitura, ad esempio manca lo spazio tra una virgola e la parola successive o tra un punto e la parola successiva. Oppure dopo un punto la frase successive inizia con la lettera minuscola anziché maiuscola.
Altri errori che ho trovato:
- In alcuni punti, sarebbe stato preferibile aggiungere un po’ di punteggiatura. Ad esempio, nella frase “… e se alzavi il viso potevi vedere tranquillamente uno scorcio di cielo assieme alla luna senza che le fronde degli alberi si intromettessero.” Avrei aggiunto una virgola: “… e se alzavi il viso potevi vedere tranquillamente uno scorcio di cielo assieme alla luna, senza che le fronde degli alberi si intromettessero.”
- “Per lui non era un problema, infondo si ricordava ancora alla perfezione tutto.” Infondo è errore, va scritto staccato: in fondo. Infondo è voce del verbo infondere.
- “-Case inghiottite da gigantesche aperture nel terreno e quelle che si salvavano dai crepacci rimanevano comunque macerie.
-Abitazioni che, inabissate, avrebbero continuato a riposare sui fondali di laghi nati quando queste erano state inghiottite dall’acqua.
-Uragani che sradicano e tagliano tutto portandoselo via e disperdendolo in un’amplia area.
-Incendi che divoravano e carbonizzavano tutto ciò che toccavano, colorandolo prima di rosso e poi di un perenne nero.” Nella frase “Uragani che sradicano e tagliano tutto portandoselo via e disperdendolo in un’amplia area” avrei usato l’imperfetto, come nelle altre: “Uragani che sradicavano e tagliavano tutto portandoselo via e disperdendolo in un’amplia area.”

STILE: 3.8/5
Lo stile mi piace, molto ricco di dettagli e di descrizioni.
Anche i sentimenti del protagonista sono ben presentati.
L’unica cosa che mi lascia un po’ perplessa sono i continui passaggi dalla prima persona (dove è Kakashi a raccontare la sua storia) a quelli in terza persona.
Sarebbe preferibile scrivere o tutto in prima, o tutto in terza persona. Oppure tenere ben separate i passaggi dall’uno all’altro.

IC PERSONAGGI: 8.5/10
I personaggi sono IC.
In particolare Kakashi: riservato, taciturno e misterioso, con un animo tormentato,
ma che sa nascondersi bene sotto una facciata di indifferenza verso il mondo.
Tuttavia sa anche essere premuroso e gentile a modo suo.
Così lo vedo io nel manga e così l’ho trovato nella tua storia.
Anche gli altri personaggi, a mio parere, restano IC: Gai e le sue sfide, il giovane Obito allegro e amichevole, Iruka con l’animo gentile e la tendenza a comportarsi da “maestro” anche con Kakashi, Madara rissoso e crudele.

ORIGINALITA’: 8/10
Storia piuttosto originale, non ho di che lamentarmi.
Mi piace l’idea di Kakashi “cacciatore di demoni”, ma demone lui stesso.
Bella anche la trovata di fargli percepire la presenza di demoni e anime attraverso l’olfatto, così da giustificare la sua abitudine di portare sempre una mascherina o una sciarpa. Davvero geniale.

GRADIMENTO PERSONALE: 3.5/5
La storia mi è piaciuta, soprattutto le parti riguardanti il passato di Kakashi. Avrei preferito uno scontro più intense fra Kakashi e Madara e una descrizione più approfondita di quest’ultimo personaggio. Magari anche saperne di più sul rapporto fra Kakashi e il padre. Però mi rendo conto che con una One-shot è difficile inserire mille cose; questa poi è già abbastanza lunga così com’è.

TOTALE: 31,6/40

  
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