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Autore: InvisibleWoman    11/10/2013    3 recensioni
“Ti ho vista morire in quell'ambulanza. Hai idea di cosa significhi stare a guardare mentre la vita lascia qualcuno a cui tieni?”
6x02 - Dreamworld
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett, Richard Castle | Coppie: Kate Beckett/Richard Castel
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Nel futuro
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Aveva cercato di non pensarci, di buttarsi sul lavoro, di essere concentrata a risolvere il caso per lui. Ma quando non c’era nient’altro da fare, quando poteva solamente stare lì seduta ad aspettare dei risultati, delle nuove piste, l’idea di perderlo tornava a colpirla violentemente, impedendo anche a lei di respirare.
Era seduta con i gomiti poggiati sul tavolo e la testa tra le mani, cercando di non piangere. Non poteva piangere, non lì. Castle avrebbe potuto vederla, doveva essere forte per lui. Cosa avrebbe pensato se l’avesse vista piangere? Che non c’era più nulla da fare? Non poteva permettersi di perdere la speranza, né di farla perdere a lui.
Anche lui, come lei, cercava di farsi vedere forte. Ogni volta che gli chiedeva come stava, lui rispondeva sempre con il suo sorrisino caratteristico e un “Bene”, nonostante lei sapesse che non stava affatto bene. Cercava di evitarla, cercava di non farsi vedere debole. Anche lui passava il tempo concentrato sul caso, o con il medico per le iniezioni. In realtà passava più tempo con lui che con la sua fidanzata.
Ma, per pochi brevi attimi, a Kate sembrava quasi di essere ritornata al distretto. Di averlo di nuovo come partner sul lavoro, oltre che nella vita. Ma erano rari quei momenti, perché subito dopo lo guardava, e l’aria pesante che regnava tra di loro, quegli sguardi carichi di paura e di parole non dette, la riportavano prepotentemente alla realtà. Non erano lì al distretto e lui non la stava semplicemente aiutando a risolvere un caso. La stava aiutando a salvargli la vita.
Che stupidi, pensò. Stavano sprecando così quelle che sarebbero potute essere le ultime ore insieme. Come se non avessero già sprecato fin troppo tempo durante gli ultimi 5 anni.
Proprio in quel momento sentì dei passi.
“Cavolo, la ricerca di questo antidoto mi sta uccidendo” disse lui sedendosi accanto al suo fianco.
Si pentì subito dopo di quella che voleva essere una battuta per allentare la tensione. Peccato che nessuno, né tantomeno Kate Beckett, sarebbe riuscito a riderne in quel momento. Le parole gli erano uscite naturalmente, come faceva sempre quando aveva troppa paura di affrontare la realtà e preferiva ignorarla. Quando preferiva giocarci su piuttosto che processarla davvero, o pesare sulle persone che amava.
Gli si stringeva la gola al solo pensiero di come lei l’avrebbe presa in caso non avessero trovato l’antidoto. Sapeva quanto l’aveva segnata la morte di sua madre. La sua cosa avrebbe fatto? L’avrebbe schiacciata definitivamente, o avrebbe trovato la forza di andare avanti nonostante tutto? Cercava di pensarci il meno possibile, anche se, man mano che passavano le ore, diventava sempre più difficile. Decise che avrebbe scritto una lettera anche per lei, così come aveva fatto per la sua famiglia. Tra di loro non era mai stato facile parlare apertamente, e scrivere forse era l’unico modo. Soprattutto in quel momento. Lei non avrebbe accettato di sentire quello che lui aveva da dirle, ma lui non se ne sarebbe mai andato senza averle prima detto tutto quello che sentiva. Senza averle detto di prendersi cura di sua madre e di Alexis. Magari questo le avrebbe dato uno scopo per andare avanti, pensò.
Notando che lei non accennava a guardarlo, le mise una mano sulla schiena.
“Kate?” disse con un filo di voce avvicinandosi al suo viso nascosto dalle mani e dai capelli sciolti che le ricadevano davanti.
Lei sentì improvvisamente il suo fiato corto solleticarle l’orecchio. Lo stesso che sentiva la mattina quando dormivano insieme e lei si svegliava con lui accanto ad abbracciarla. Solo che in quei momenti il suo respiro era lento e regolare, il suo corpo caldo e le sue braccia rassicuranti.
Capì subito che stava peggiorando, adesso faticava sempre più a respirare. Non avevano tanto tempo. E lei non poteva più continuare a fingere che andasse tutto bene, nonostante lo avrebbe preferito. Neanche lui poteva. Non era un brutto sogno, quella era la realtà ed era arrivato per entrambi il momento di affrontarla.
Fece un respiro profondo prima di alzare la testa per guardarlo. Era lì seduto accanto a lei, la sua mano si muoveva ancora lentamente su e giù sulla sua schiena.
“Troverai l’antidoto, Kate” le disse lui sforzandosi di sorridere.
“Dovrei essere io a rassicurare te…” rispose lei abbassando lo sguardo. Era incredibile che, nonostante fosse lui quello che stava morendo, cercasse in tutti i modi di darle forza. Ma, dopotutto, sarebbe stata lei quella che avrebbe dovuto convivere con l’idea di averlo perso. Di aver perso l’ennesima persona che amava.
Di non aver fatto abbastanza. Ma, soprattutto, di aver causato la sua morte. Perché nessuno l’avrebbe convinta che non era colpa sua. Neanche Castle.
“Ehi, lo stai facendo” le disse lui prendendole una mano. “Vedere quanto ti stai impegnando per risolvere il caso e trovare l’antidoto, mi rassicura.”
“Castle, io…” buttò la testa all’indietro per ricacciare indietro le lacrime e tirò su col naso. “Castle, mi dispiace” aggiunse. “Non sarebbe dovuto essere così difficile.”
“Noi o Washington?” chiese lui accennando un lieve sorriso.
Guardò la mano di Castle che stringeva la sua. Aveva ragione quando le aveva detto che aveva le mani e le dita piccolissime. Quantomeno rispetto a quelle di Castle, visto che in realtà erano le sue ad essere incredibilmente grandi. Adesso che la sua mano stringeva quella di Beckett, riusciva quasi a coprirla interamente.
“Tutto, Castle. Tutto” rispose tornando a guardarlo. Le occhiaie erano sempre più evidenti ed era sempre più pallido. “Mi dispiace tanto.” Il senso di colpa la colpì improvvisamente come uno schiaffo in faccia.
“Ehi, non è colpa tua, Kate” rispose lui come avesse realizzato solo in quel preciso istante cos’era che la tormentava.
“Non sarei mai dovuta venire a Washington” disse lei con un filo di voce.
“Kate, anche a New York ho rischiato di morire più volte. Non è mai stata colpa tua allora, e non lo è neanche adesso. Io ho deciso di seguirti” aggiunse nuovamente, come se ripeterlo potesse servire a convincerla.
Anche se lui continuava a dirle che non era colpa sua, lei sentiva il contrario. Sarebbe dovuta rimanere a New York, non avrebbe mai dovuto mettere il lavoro davanti alla loro relazione. Lui era lì per colpa sua. Perché aveva voglia di vederla. E stava morendo per colpa sua. Per il suo egoismo. Non se lo sarebbe mai perdonato.
Continuò a guardarlo negli occhi incapace di rispondere.
“Troverò l’antidoto” gli disse poi semplicemente, asciugandosi il naso con il dorso della mano.
“Lo so” rispose lui sorridendole ancora una volta, poggiando la sua fronte su quella di lei.
Lei chiuse gli occhi. La sua fronte era calda, o forse era solo la sua immaginazione. Ricordò la prima volta che le loro fronti si erano incontrate in questo modo: subito dopo il loro primo vero bacio a casa di lui. Ne avevano fatta di strada da allora. Tante cose erano cambiate. Lei stessa era cambiata. Non era più la ragazza distrutta e incapace di amare che lui aveva conosciuto. Con Castle aveva imparato a vivere davvero, e non vivere ancorata al passato. Un passato che non sarebbe mai più ritornato.
Kate gli mise le braccia attorno al collo e lo strinse a sé per la prima volta da quando avevano scoperto della tossina. Perché aveva aspettato così tanto a farlo? Che stupidi erano stati a pensare che avrebbero potuto far finta di niente fino alla fine. Che avrebbero subito trovato l’antidoto e questo sarebbe presto diventato solo un brutto ricordo. Peccato che la vita non fosse sempre così semplice, e lei lo sapeva fin troppo bene.
Affondò la testa nell’incavo del suo collo e lo strinse ancora più a sé, come se in questo modo potesse impedirgli di andarsene, di lasciarla da sola.
Ma non lo faceva solo per egoismo, stavolta voleva essere lei a dagli forza, fargli sentire la sua presenza e il suo calore, perché, per quanto cercasse di negarlo, sapeva quanto anche lui ne avesse bisogno.
“Castle, ti a…” cominciò quasi in un sussurro, ma poi il dottore la interruppe entrando nella stanza.
Entrambi si allontanarono immediatamente l’uno dall’altra e Kate drizzò subito in piedi. Non che ci fosse qualcosa da nascondere, ma Castle sapeva che non le piaceva mostrarsi vulnerabile davanti agli altri. Soprattutto sul posto di lavoro. Agli occhi degli altri voleva sempre essere la ragazza dura e forte che lui stesso aveva incontrato la prima volta. Specialmente qui che doveva ancora dimostrare quanto valesse.
“Dobbiamo fare un’altra iniezione” avvisò il medico. “Ma posso tornare dopo” aggiunse.
“No, vado di là a controllare a che punto siamo con le ricerche” rispose lei pronta ad uscire dalla stanza.
Castle le prese una mano e la fermò. Il medico trafficava con la sua borsa dall’altro lato della stanza, così lui colse l’occasione per dirle a bassa voce “Ti amo anch’io,” prima di lasciarle andare la mano. Lei sorrise e gli strinse la spalla. Si voltò per guardarlo un’ultima volta prima che uscisse dal suo raggio visivo, e poi proseguì verso la sala operativa.
 
***

“Da questa parte” le disse una delle infermiere dell’ospedale. Aveva i capelli legati in una coda di cavallo e il volto stanco. Chissà da quanto tempo era di turno. Ma non era l’unica ad essere stanca. Durante le ultime 15 ore Kate Beckett non si era riposata neanche un secondo.
Dopo averlo visto cadere a terra davanti casa del Segretario della Difesa, la sua mente e la sua vista si erano annebbiate. Però ricordava perfettamente la paura, il tuffo al cuore che aveva provato vedendolo lì inerme. Ma anche il profondo senso di vuoto e rabbia che cominciava a farsi strada dentro di lei.
Aveva temuto che fosse tutto finito, che fosse troppo tardi. Si chiese come si potessero provare due sentimenti, due emozioni tanto diverse. Come poteva sentirsi vuota, ma allo stesso tempo così arrabbiata? Una doveva escludere l’altra, eppure lei le provava entrambe.
Gli corse accanto e si chinò su di lui, pregando fosse ancora vivo. E lo era. Sapeva di non avere tempo da perdere, doveva entrare in quella casa e sperare che il giornalista avesse con sé l’antidoto.
Tutto quello che era successo dopo nella sua mente aveva i contorni sfocati. Ricordava la breve colluttazione col giornalista e il conseguente arrivo di Rachel McCord. Ricordava la disperazione che aveva provato in quel momento all’idea di poterlo perdere per sempre. All’idea  che morisse lì da solo su quel giardino. Ricordava la folle corsa in ospedale. Lui sdraiato su una barella all’interno dell’ambulanza. Il suo volto pallido e la maschera con l’ossigeno sulla bocca. La sua mano calda e pesante che stringeva tra le sue. Le voci agitate e decise dei paramedici.
Ma erano tutti frammenti. Piccoli pezzi di un puzzle impossibili da ricollegare insieme.
Ma c’era una cosa che ricordava perfettamente. Vederlo lì inerme su quella barella le fece subito tornare alla memoria quello che Castle le aveva detto dopo la sua sparatoria: “Ti ho vista morire in quell’ambulanza. Hai idea di cosa significhi stare a guardare mentre la vita lascia qualcuno a cui tieni?”
Sì, adesso lo sapeva ed era terribile. Non riusciva a credere di essere stata talmente egoista da averlo davvero allontanato per tre mesi. In quel momento si sentiva una persona orribile. Lei aveva avuto paura di affrontarlo, dopo la disperata dichiarazione di lui, ma era semplicemente stato un comportamento egoista. Lui le aveva aperto il suo cuore, e aveva avuto bisogno di lei. Aveva rischiato di perderla e voleva essere sicuro che lei stesse bene. Voleva vederla, voleva toccarla per assicurarsi che non se ne fosse andata all’improvviso mentre lui aveva un attimo distolto lo sguardo. Voleva sentirla viva.
Lui, però, le era rimasto accanto nonostante tutto, durante quei cinque anni. L’aveva aspettata e sopportata, e sapeva che non era stato facile. Non era stato facile sfondare il muro di Kate Beckett. Non era la persona più semplice e più facile del mondo e lo sapeva. Ma se adesso era una persona migliore, capace di amare e di sorridere, era solo grazie a lui.
In quel momento, seduta accanto al letto su cui lui riposava, tenendogli una mano e accarezzandogli i capelli con l’altra, si chiese come sarebbe stata la sua vita senza di lui.
Per fortuna non lo avrebbe mai scoperto.
  
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