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Autore: wingsam    12/10/2013    0 recensioni
"Una lama trafisse al cuore Pan, che si vide costretto a rallentare. Esterrefatto, strinse le dita al petto e abbassò lo sguardo, aspettando di vedere una ferita raccapricciante. Invece, nulla. La pelle era di un rosa pallido, illuminato dal consono bagliore lattescente proprio di una divinità.
Hermes non tardò ad atterrare al suo fianco, allarmato. -Non c’è tempo da perdere, figlio mio. Qualcosa non va?
Pan, gli occhi sgranati e il fiato mozzato, levò lentamente il volto. -Sta accadendo qualcosa di orribile- sussurrò con un filo di voce."
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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cap 3 un terribile tifone

Un terribile Tifone





olimpo


Prodigio e incubo





L’estrema vetta del monte Olimpo raggiungeva appena la metà dell’altezza della Sua sagoma. Quando espose le Sue fattezze alla vista dei quattro dei, il Mondo parve zittirsi e farsi piccolo, e inchinarsi perché non poteva fare altro; anche le gocce che cadevano dal cielo sferzando la terra rallentarono la loro corsa. Le nubi si prostrarono e l’azzurro che vi pulsava dietro brillò, quando la Sua testa squarciò il tetto del Mondo; ma l’oscurità provvide subito a cicatrizzarsi, come un tessuto cosciente, come un’entità viva che teme la purezza della luce dei cieli e che questa raggiunga i mortali.

Il mostro era un ammasso informe di corpi e detriti, non c’era altro modo di descriverne le fattezze. I due arti che provocavano boati e terremoti sconquassanti erano composti da una moltitudine di rocce sinuose, lisce e viscide, incastrate a caso fra di loro in modo da comporre  due gambe sbozzate, sprovviste di piedi. Le braccia, anch’esse senza dita alle estremità, erano della medesima composizione, smisuratamente lunghe e dotate di un’incredibile snodabilità. Il torso, invece, consisteva in un insieme iridescente di serpi, che si contorceva e si dimenava continuamente producendo uno sfarfallio di riflessi sfuggenti. In prossimità di quelle che potevano essere chiamate spalle spuntavano due immense ali di pipistrello, all’apparenza prive di vita dal momento che non presentavano peli o cute, solo un’ossatura dello stesso colore della notte regnante. La testa era un grumo informe di ossa, pietre, arbusti, terra e magma appiccicati insieme, circondato da un alone di pennacchi grigiastri; vi pendeva una lunghissima barba di serpenti sibilanti, che oscillava minacciosa ad ogni passo come una tenda. Due pozzi rossi come braci sputarono lingue di fuoco intravedendo il quartetto di divinità.

Di fronte a quello spettacolo, Pan ed Hermes furono in grado solo di restare a bocca aperta, assaliti da un freddo senso di inferiorità. Definirlo prodigio, o incubo? Una simile creatura poteva essere solo figlia di un dio, o meglio, del capriccio di un dio. Perciò, forse, era entrambi: sia prodigio che incubo. Gea si era senz’altro ingegnata, e il suo intento si era materializzato: la sua furia cieca poteva abbattersi su Zeus e sull’Olimpo senza mezzi termini.

Tifone si arrestò, e parve aver cambiato idea riguardo qualcosa. Inclinò l’assurdo corpo all’indietro e, per mezzo di una bocca che non possedeva, emise un ululato agghiacciante che si propagò dovunque e fece tremare ogni cosa. Era come se tutti gli animali del Mondo parlassero insieme, in un coro di rabbia e frustrazione, accompagnati dal suono di un mastodontico corno.

Pan si sentì dilaniare e si tappò le orecchie, incapace di impedire alle corde vocali di vibrare, e qualcosa lo forzò ad accasciarsi. Non ci fece caso, ma anche Hermes ebbe una reazione simile. Zeus invece non aveva perso tempo, perché era già scomparso dal loro fianco: si era spostato con incredibile velocità compiendo un balzo, e adesso aleggiava a mezz’aria, ogni muscolo carico di tensione come una molla contratta al massimo della sua capacità.

-Fate qualcosa! Distraetelo!- urlò Athena, spintonando i due compagni che aveva vicino. -Io devo recuperare la Folgore!

Hermes ebbe un sussulto, e i suoi occhi si fecero improvvisamente piccoli e sperduti, come se si fossero accorti solo ora di quello che realmente stavano vedendo. -La Folgore? Cosa? Come…- farfugliò.

Athena lo ignorò. Proiettò un braccio in avanti con un agile gesto, e la sua lancia penetrò l’aria ribollente per miglia e miglia, emettendo un boom sonico, fino a tintinnare senza successo sul ginocchio amorfo di Tifone. Allora Athena serrò la mascella, e il dio alato avrebbe giurato che stesse ringhiando.

-L’ha sottratta a Zeus, inglobandola nel suo corpo- disse lei, senza voltarsi. -Fratello, non deludere nostro padre. So che non vuoi, e non lo farai. Trova il tuo scopo in questo scontro!- Poi si volse, finalmente, e guardò accigliata Pan, che era ancora impietrito dallo scempio che l’aspetto di Tifone emanava. -Ehi, tu! dio della natura!

Il satiro, fuori di sé com’era, emise un belato strozzato e il suo collo si gonfiò di ansia.

Prima di riferire a Pan ciò che pensava, Athena cercò di comprendere dove l’arma che aveva scagliato si fosse nascosta, lasciando che le pupille lampeggiassero frenetiche laggiù dove l’inferno trovava posto. -Credi che io non abbia paura?- disse, abbassando il tono della voce, e rivelando un’inaspettata dolcezza. Hermes la squadrò da testa a piedi, scosso da incredulità. -Chiunque dimorava nella casa dell’Olimpo è fuggito in preda al terrore più puro e sconfortante, davanti a Tifone. Se tu e tuo padre foste arrivati qui qualche ora fa, non avreste trovato nessuno! Ma è giusto e buono rispondere alla paura in qualche modo, altrimenti sarà lei a fare da padrona su di te- Posò una mano ricoperta di lividi sulla spalla nuda di Pan, e la strinse con forza, e Pan ne sentì il calore diffuso. -Se ti trovi qui, con me, e tuo padre, e il padre di tutti noi, un motivo c’è. Zeus non fa mai niente senza uno scopo preciso, senza prima studiare un piano. La sua mente oltrepassa la capacità delle nostre. Dobbiamo fidarci di lui, come lui ha fatto e fa con noi!- Poi portò le dita all’elmo, riflettente i baluginii del cielo gonfio, e se lo tolse con un gesto secco. Nel mentre Tifone veniva colpito al viso da un essere che al suo confronto era delle dimensioni di una zanzara, Zeus, costringendolo a mostrare l’altra guancia e lamentarsi sottilmente. -Abbiamo l’occasione di far vedere al Mondo che possiamo proteggerlo dal male e dalla follia della vendetta. Non sprechiamola!- disse la dea della giustizia.

Athena diede le spalle ad Hermes e figlio, abbandonò in terra l’elmo rilucente e mostrò loro la sua lunghissima chioma rosseggiare nell’atmosfera pesante, una fiamma inestinguibile di speranza e austerità. Li abbandonò intraprendendo un’agile corsa, con la quale svanì e riapparve direttamente ai piedi del demone-mostro, in cerca della sua lancia.

-E sia- bisbigliò Hermes, ignorando la scossa famelica che una zampa di Tifone causava sfregando contro un colle. Pan deglutì più volte e gli si avvicinò, e percepì la sua forza d’animo; in questo modo riuscì a rallentare i battiti del cuore, delucidare la mente, e rilassare il respiro.

-Padre- disse, -Cosa facciamo?

-Giochiamo- disse Hermes, mostrando, inaspettatamente, un sorriso.

-Cosa significa?

-Tu dovresti essere il primo a capirmi, figlio.

Pan fissò il padre senza essere capace di dire alcunché, scaldato in qualche modo dalla sua espressione facciale.

-Facciamo quello che siamo abituati a fare, Pan: perché è la sola cosa che sappiamo fare alla perfezione, la cosa per la quale siamo nati. Zeus non deformerebbe mai la nostra immagine chiedendoci di compiere gesta per noi impossibili…- Il suo sguardo divenne sereno, nonostante l’immensa ombra minacciosa del figlio di Gea e Crono rumoreggiasse alle sue spalle. -…Gioca la tua parte, Pan!

A quale vita spensierata e colma d’amore leggero s’era abbandonato, il dio-satiro, fino a quel giorno! Rincorrere questa e quella ninfa, raccontare barzellette alle cortecce di pino, collezionare gusci di chiocciole, gracchiare alle spalle dei cacciatori, giocare al tiro al bersaglio con i falchi, dondolarsi dalle fronde dei sempreverdi…e, sempre, provvedere all’integrità della natura, il suo regno, ciò che la sua vita stessa era chiamata a proteggere, oltre che farne la propria allegra dimora.

In quella circostanza, invece, dinanzi alla minaccia di Tifone, come poteva comportarsi? Come mi sarei comportato, se fossi stato da solo? si disse, riempito di fiducia dalle parole di Hermes. Qualcosa farò, sono pur sempre un dio.

 

Il colosso levò entrambe le braccia in alto e, mugghiando, le scaraventò in basso per contrastare una forza. Quella forza erano le braccia di Zeus, scagliatesi incontro al volto di Tifone. Quando la coppia di arti si scontrarono, l’una centinaia volte più grandi dell’altra, diedero vita ad un’esplosione, e una bomba d’aria creò una bolla di vuoto, che si espanse a dismisura e respinse l’acqua che il cielo lasciava cadere.

Una donna dai capelli rossi era intenta a spezzare le difese rocciose di una gamba del mostro, accusando colpi precisi con la lancia dorata. Dove l’arma cercava di conficcarsi, la roccia si lamentava e nascondeva ulteriormente un oggetto accecante, lampeggiante di turchese e arancione e giallo vivido: l’arma più potente che il più grande fabbro del Mondo avesse mai forgiato, la Folgore. Fino ad allora mai nessuno era stato tentato dal desiderio di impossessarsene, l’oggetto che Efesto stesso aveva plasmato con le sue mani prodigiose. Facendo attenzione a non rimanere sepolta sotto la mole titanica di Tifone, Athena allungava il braccio e lo ritraeva, imprecava e tuonava con la voce severa, nel tentativo di liberare la micidiale arma di suo padre da grinfie egoiste.

Pan ed Hermes avevano preso a compiere ampi cerchi attorno al nemico, così da attirare e frammentare la sua attenzione. Se non altro, in questo modo avrebbero di certo favorito Zeus, il quale ora giaceva a terra, sotto decine di metri di detriti, scagliato lì dal contraccolpo che lo scontro con Tifone aveva causato. Questi si alzò e riprese il volo, fece della voce un canto di guerra e caricò all’indietro un destro formidabile: non si accorse però che Tifone stava facendo altrettanto, e con una rapidità sconcertante.

Entrò in azione Pan, che stava seguendo attentamente la scena, e spaventando il temporale strillò: -Alle tue spalle, Zeus!

Quella voce fragorosa venne udita proprio in tempo dal padre degli dei, che si voltò e parò con successo il colpo di Tifone a ginocchia unite; lo respinse e utilizzò il braccio del mostro come fosse una rampa di lancio, correndoci sopra. Tifone tentò di allontanarlo come si fa con un insetto, con l’altro braccio, ma quando questo fu sul punto si avventarsi su Zeus egli lo schivò con un salto e continuò a correre, sempre più vicino al volto inumano del demone. Compì a sorpresa un secondo salto, unì le braccia sopra il capo e roteò su se stesso, dando al proprio corpo l’aspetto di una micidiale trivella: spalleggiato dal flash di un torrente di fulmini, trapassò ruggendo la fronte di Tifone, da parte a parte, il quale non ebbe prontezza di riflessi per contrattaccare.

Per alcuni istanti Pan ed Hermes credettero che fosse fatta, che Tifone fosse stato debellato: si riunirono e si permisero un sorriso, cercando con lo sguardo Zeus. Anche Athena abbassò la picca d’oro, distendendo l’espressione sofferente che le si era andata ad imporre in volto.

Ma fu un attimo, un breve attimo di sollievo. Tifone smise di ondeggiare incertamente, si riassestò, e, mollando schiaffi al vento, lanciò un grido spaventoso e odioso che fece piangere il Mondo e tremare la terra, e aprire e poi richiudere un cerchio celeste nel cielo.

Si udì nuovamente la voce di Zeus, irrequieta e furiosa, attirare a sé uno sciame di folgori. Fu in quel modo che i tre dei che lo supportavano poterono vedere dov’era: stava alle spalle di Tifone, ricoperto di liquami nauseabondi e ogni genere di sporcizia.

-La mia Folgore! Athena, la Folgore!- disse, mal celando disperazione.

Sua figlia, purtroppo, ancora non aveva cantato vittoria. Dai piedi di Tifone, urlò: -Pan, Hermes, dovete fare in modo che si sposti! Io lo colpirò a questa gamba, la Folgore è qui!

Del demone-mostro i quattro dei avevano capito ogni cosa, o per lo meno tutto quello che il suo aspetto e il suo comportamento davano ad intendere; ma c’era una sola cosa che non avrebbero mai potuto afferrare, e cioè che era in grado di percepire il significato delle frasi che loro si scambiavano. Il fatto che non possedesse una bocca non valeva a dire che era incapace di prendere, a suo modo, parte ad una conversazione. Per questo motivo, quando Athena parlò a Pan ed Hermes, questi piantò un pugno pauroso al suolo, quasi l’avesse spostato alla velocità del suono, in prossimità della posizione della dea della giustizia.

Di lei non si udì più la voce, né si vide la presenza, in mezzo al nuvolone di polvere e fuoco che s’era sollevato.

-Nooo!- si udì forte; era Zeus. Si avventò sul mostro, incanalando ogni goccia di forza che il suo corpo sovrumano era capace di produrre nei pugni serrati, e li infilzò sul dorso di Tifone.

Dapprima ogni suono fuggì, si rintanò nella dimensione del silenzio e il Mondo tacque per una frazione di secondo, imbalsamandosi. Il tempo si dilatò e ad Hermes e a suo figlio sembrò che tutto andasse a rilento, che si allontanasse e si riavvicinasse da loro nel compiere un profondissimo respiro. Poi il padre degli dei diede dimostrazione di cosa le sue capacità, se spinte oltre al limite, potevano fare: per un breve istante l’aria si tinse di un bianco insostenibile, e i suoni parlarono di nuovo, scoppiando in un temibile cigolio, un lamento che intimorì l’Olimpo stesso. Tifone gridò di dolore, la schiena di serpi sventrata; era ormai stato inesorabilmente sbilanciato, e stava precipitando in avanti.

La casa degli dei verrà sepolta!, pensò Hermes, una maschera indefinibile a modificargli la faccia. Zeus per fortuna doveva aver pensato la stessa cosa, perché era scomparso da dove si trovava. Pan lo vide spostarsi in prossimità del petto di Tifone e alzare le grosse mani con l’intento di sostenerne il peso: sotto di lui, il tetto dell’Olimpo chiedeva pietà.

Con un gemito di dolore Zeus ricevette sui palmi delle mani la mole di Tifone. Era allucinante, incredibile, impossibile! Ma doveva resistere, non poteva cedere. Ogni atomo del suo corpo lo implorava di abbandonare la presa, di lasciare che l’Olimpo affrontasse il suo destino; ma Zeus rispondeva loro con coraggio e fierezza, scuoteva il capo e cercava di ignorare il dolore, lo sfrigolio delle ossa, la capacità di levitazione messa a durissima prova, nella mente e nel cuore l’immagine di Athena messa in ombra dal pugno assetato di morte di quella belva assassina.

-Dobbiamo fare qualcosa anche noi!- belò Pan, pervaso da una smania incontrollabile, forse dovuta alla visione del padre degli dei costretto a dover sorreggere da solo il peso dell’astio di Gea…esattamente ciò che Ella desiderava. Allora zoccolò sino ai piedi di Tifone e vi assestò un colpo netto e schioccante, che la pietra non poteva respingere; ecco, la Folgore era lì, scoperta, libera della sua prigione, splendente e grandiosa! La acciuffò, prima che le carni inumane del nemico si richiudessero. Non appena l’arma fu nel palmo della sua mano, Pan ne percepì il potere: una vibrazione gli attraversò il braccio, il torso e anche le zampe. Compieva molta fatica ad impugnarla, era come se gli stesse prosciugando la linfa vitale; ma allo stesso tempo provava brama di possessione verso di lei, desiderava utilizzarla e distruggere e creare, comandare e sottomettere.

-Pan, cedila subito a Zeus! Soltanto lui può detenerne il controllo!

Fu grazie al comando imperativo di Hermes, che il satiro riacquistò lucidità e capì quali davvero erano le sue condizioni attuali: stava morendo. Il suo corpo si stava incenerendo, deperiva e si anneriva a gran velocità, tra le scintille ronzanti che la Folgore emetteva nel ripudiare il suo controllore. Scrutando suo padre vide che gli stava porgendo una mano: quindi non esitò neppure un attimo e scagliò l’arma lontano. Il suo corpo tornò lesto ad uno stato ottimale. La Folgore finì dritta fra le dita di Hermes che, conscio di cosa questa era in grado di fare a chi non era degno di possederla, indirizzò subito tutto il potere curativo di cui poteva fare uso su se stesso, in particolar modo sulla mano che stringeva il fulmine. Poi chiamò il padre degli dei, cercando di non risparmiare il fiato: -Zeus, eccola! La Folgore!

A quello bastò capire cosa stava accadendo. Volse il capo barbuto, imperlato di fatica, e la vide. Mutò d’espressione come se fosse stato un bocciolo di margherita accarezzato dal sole per la prima volta. Accadde tanto rapidamente che non fu possibile distinguere uno spostamento dall’altro: Zeus abbandonò la presa dal corpo semidistrutto di Tifone, agguantò la Folgore che Hermes aveva provveduto a porgergli , e il Mondo sospirò di luce. Un fulmine che s’avrebbe detto fosse di diamante trapassò al cuore il figlio di Gea e Crono, ancora nell’atto di cedere al suolo, facendogli compiere un’improbabile e colossale capriola all’indietro; sbalzato di centinaia di miglia, si piantò sul crinale di una catena montuosa ad occidente, dividendosi a metà. Non proferì alcun lamento, ma l’aria parve solidificarsi tanto fu il chiasso e l’arroganza della scossa di terremoto scaturita.

Ora che l’Olimpo era stato messo in salvo, Zeus scese di quota, e quando posò piede sul terreno incenerito, accanto a Pan ed Hermes, fu chiaro quanto era sfinito e quanto agognasse il riposo. La Folgore, nel suo pugno, si era ingigantita di dimensioni e luminosità, e canticchiava toni elettrici alternando note basse ad altre molto alte.

-Avete agito bene, figli miei- ebbe la forza di dire, gli occhi stanchi volti ai piedi, conficcati al suolo come poderosi tronchi di quercia. Poi venne trapassato da un’idea. -Athena. Athena!- implorò. Cercò il punto dove ricordava d’averla vista l’ultima volta, posò la Folgore e cominciò a scavare, a respingere massi, ad ansimare più di quanto non stava facendo. Anche gli altri due si unirono a lui, in silenzio rispettoso.

E Tifone, era morto? O per meglio dire, rientrava nelle sue possibilità la morte?

In base a quanto seguì di lì a poco, no.

Zeus dovette interrompere la disperata ricerca, perché incomprensibili parole di pietra, insulti di lava, versi raccapriccianti si stavano indirizzando a lui. Si voltò, e inorridì: Tifone aveva in qualche modo ricomposto l’integrità del proprio corpo, probabilmente utilizzando pezzi del Mondo stesso. Il dorso, così come diverse altre sezioni, ora erano composte di terra, scintillante di pietruzze e minerali vari, pezze e rammendi incastonati in un grumo di serpi lamentose e intrichi di rocce umide.

Ancora Tifone si ergeva minaccioso sull’Olimpo, sugli dei, sulla vita.

Cosa mai altro avrebbero potuto fare, le divinità rimaste, se non ingaggiare un ulteriore duello?

Zeus, ritornato in possesso della fidata Folgore, si levò in cielo come un proiettile e scagliò saette, una di seguito all’altra, senza fare economia di colpi. Hermes volava attorno al capo del demone per confonderlo, torreggiando sul paesaggio, imitando una falena ipnotizzata dalla lanterna. Pan invece correva attorno alle ciclopiche zampe, fuggendo quando queste si issavano e schiacciavano, e riavvicinandosi e provocando quando se ne stavano inerti.

La nuova resistenza con la quale Tifone si opponeva all’inesorabilità della Folgore era da non credere. Sebbene i lampi e i fulmini volassero violenti, e crepitanti, e maestosi e fantastici, tutti quanto il primo, il demone era in grado di non esserne schiacciato. Se ne rimaneva colpito direttamente, mostrava segni di cedimento, ma si limitava ad arretrare o perdere l’equilibrio; se invece trovava il corretto tempismo per deviarli con le braccia snodate, quelli rimbalzavano, deviavano la loro corsa e si perdevano nella tempesta, allontanandosi e svanendo in un eco secco e soffocato.

Quando non ci fu più altra scelta, Zeus decise di passare al corpo a corpo, ancora una volta. Avrebbe richiesto un ulteriore immane dispendio di energie, ma era disposto a farlo: l’idea, sconcertante e intollerabile, che sua figlia Athena avesse perso la vita a causa di quell’aborto oscuro iniziava ad offuscargli la mente.

Calci e pugni, schivate, sollevamenti, grida e fulmini. La pioggia tagliente, il mattino invisibile, l’incertezza crescente.

Quando Zeus ebbe una portentosa intuizione. Un’idea, un sussurro al cuore, un sorriso. Si allontanò più che poté da Tifone, il corpo tumefatto, e disse ai suoi figli di avvicinarsi, tanto quanto bastava da prendere del tempo affinché l’antagonista non li raggiungesse prima di un certo lasso di tempo, vista la sua goffa lentezza sulle lunghe distanze.

-Dobbiamo attendere che sprofondi nel suolo, vi rimanga impantanato- disse Zeus, dopo aver preso faticosamente fiato. La Folgore proiettava sul suo volto una luce cristallina e netta che ne metteva in risalto lo sfinimento.

-Padre, vuoi che ti curi?- gli domandò Hermes, anch’egli stremato. Più volte si era visto intrappolato tra le grinfie di Tifone e ne era rimasto schiacciato, salvandosi per pura fortuna.

L’altro rispose negativamente con un cenno, piegandosi in due così da alleviare il peso di dolori indescrivibili.

Con rispetto e ammirazione, Pan chiese: -Cos’hai in mente di fare?- Era sfinito, giunto al limite delle forze fisiche e mentali, ma la sua voce era ancora fresca e grintosa.

Tifone stava muovendo soverchianti passi nella loro direzione, lasciando intorno a sé una pioggia di lapilli e rocce incandescenti. Dopo averlo studiato attentamente, Zeus si rivolse ai due dei spiegando loro in che modo avrebbero dovuto comportarsi in seguito, senza tralasciare nulla riguardo l’intuizione che aveva avuto poco prima. Loro compresero, annuirono con fermezza ed ebbero risposta, e conferma, del perché fosse proprio Zeus a fare da padrone nella vasta famiglia divina dell’Olimpo.

 

Chissà se il piano che Zeus aveva architettato comprendeva un’imprevedibile reazione di Tifone. Si, perché questi, anziché proseguire sul cammino, stava adesso sradicando un’intera montagna che si trovava nelle vicinanze e, facendo uso di una potenza fisica che a dei e uomini non era permesso neanche di sognare,  voleva sollevarla. Le sue braccia rocciose erano divenute parte integrante della montagna, che staccandosi dal suo letto antico migliaia di millenni si produsse in un ruggito tetro e violentissimo, graffiante, simile al suono che si può udire quando un meteorite si schianta su di un pianeta delle sue stesse dimensioni, disintegrandolo.

Tifone innalzò la montagna sopra la testa; divenne alto più del cielo, oltrepassò di migliaia di miglia le nubi e, in un modo assolutamente scioccante, la tempesta che non aveva accennato ad attenuarsi fino ad allora scomparve senza lasciare traccia. La luce del sole inondò il Mondo, rivelando agli occhi stanchi delle divinità quanti danni quest’ultimo avesse accusato. Non esisteva più niente. Fiumi, mari, colline o pianure: nulla. Una grande sconfinata zona ridotta a piattume incolore, segnata solo dalle orme del combattimento.

Il ruggito della montagna volante non cessò neanche quando Tifone la abbassò, con l’intenzione di scagliare infiniti miliardi di tonnellate di peso addosso alla famiglia divina. Questa non avrebbe potuto, ovviamente, scampare in nessun modo all’impatto. Non avrebbe mai fatto in tempo a spostarsi prima che la pietra la raggiungesse, seppellendola e lasciando di lei solo un ricordo.

Il sole venne una seconda volta oscurato, ma non a causa di perturbazioni atmosferiche. La montagna cadeva. Tifone si unì al frastuono gridando vittoria, mentre le orbite focose dei suoi occhi vomitavano lava.

 

Eppure, chissà per quale motivo, un ampio sorriso era stampato in mezzo alla folta barba iridescente di Zeus.

La terra tremò spaventosamente, e Tifone barcollò. Il peso della montagna sopra di lui lo stava sopraffacendo, rendendo le sue movenze impacciate e smisuratamente più lente di prima.

Hermes, vicino a suo padre, stava dirigendo un fascio luminoso che dalle sue mani e dal bastone d’oro si immetteva nel corpo affaticato di Zeus, affinché ne sanasse le fatiche e rigenerasse le ferite. Doveva disporre di tutte le energie possibili, per compiere un ultimo gesto.

E Pan, dov’era? Pan si trovava a molte miglia di distanza, in un punto molto, forse troppo ravvicinato rispetto a Tifone: un punto dove esso non avrebbe mai sospettato si nascondesse il nemico. Il dio satiro si stava gonfiando in petto, stringendo a più non posso i pugni. Si stava preparando per esibirsi nella più incredibile burla che il Mondo avrebbe mai visto: aprì la bocca, e un verso che non aveva niente di animale, o di umano, o di mostruoso si propagò nell’aere come lo squillo unanime di una moltitudine di trombe.

Persino Hermes e Zeus dovettero coprirsi le orecchie, tanto fu grande il fastidio e lo spavento.

Tifone cosa fece? Si spaventò. Credette di trovarsi in presenza di una creatura più colossale e spietata di lui, e provò a girare il capo informe: ma non ci riuscì, perché il peso della montagna l’aveva sbilanciato troppo. La riportò allora con immensa fatica sopra di lui, così da ritrovare l’equilibrio: ed ecco cosa lo fece cadere in trappola. Non poteva immaginare che, sotto di lui, nel sottosuolo, qualcuno aveva scavato una miriade di tunnel in modo da indebolire le fondamenta del Mondo.

La terra venne scossa da un ennesimo terremoto, mentre Tifone sprofondava fino alla vita nel Mondo. Fu in quell’istante che Zeus, riprese gran parte delle forze, impugnò fieramente la Folgore, si sollevò in cielo e tuonò l’ultimo canto, quello della vittoria: un lampo abbacinante, e la montagna che Tifone impugnava venne trapassata dalla punta alle radici. Un enorme fulmine dalla radiosità intollerabile era calato dal cielo, creatosi dalla Folgore, bucando da cima a fondo la montagna, forandole le interiora, e poi colpendo lo stesso Tifone. A questi si smontarono le braccia, che divennero un ammasso di pietre rotolanti. Tutto quello che sorreggevano ricadde al basso, debellando e cancellando una minaccia che solo mediante cooperazione, e un po’ di fortuna, era stato possibile contrastare.  

L’ultimo boato, l’ultimo sospiro di una vendetta cercata e non esaudita.

Mentre Zeus si riuniva ai suoi figli in terra, rinvigorito da un’estasi trasparente, sbucò dal suolo una testa scarmigliata di ciuffi rossi: Athena. Dopo essersi scrollata di dosso un mare di terriccio, si abbandonò nell’abbracciò che le donò il padre degli dei non appena la vide, e poi nelle grida di festa che le rivolsero Hermes e Pan.

-Grande idea, quella di seppellirlo!- si complimentò Zeus -Ho ricevuto chiaramente il tuo messaggio!- Athena ammiccò soddisfatta; era pur sempre la dea dell’astuzia e della giustizia, gesta simili potevano essere compiute da nessun’altro che lei.

-E che dire del prodigioso Pan?- continuò Zeus, aprendo la grande mano in direzione del satiro, che mostrò uno dei suoi migliori sorrisi birbi. -Niente da togliere anche a te, figlio mio, Hermes!- Prese sottobraccio il dio alato, strattonandolo scherzosamente e senza tenere a bada la forza dei muscoli.

Athena si guardò attorno, estraniandosi dai festeggiamenti per capacitarsi di quanto il Mondo fosse rimasto coinvolto nella devastazione. La tomba che simboleggiava l’ultimo atto del combattimento con Tifone aveva preso a sputare refoli di fumo nero, a vomitare fiamme, cenere e lava. Un vulcano stava prendendo vita, il cui cuore era lo spirito stesso del figlio della vendetta di Gea.

La dea sospirò a lungo, più volte, quasi rammaricata. Pan, udendola, gli si avvicinò.

-Hai motivo di essere triste, Athena. Io più di tutti posso sentire…la sofferenza della natura.

L’altra si volse, e le iridi smeraldine le si tinsero di un calore comprensivo e audace. -Ricostruiremo tutto…siamo gli dei dell’Olimpo. Come distruggiamo, edifichiamo- Poi, con fare ironico, indicò il dio satiro con un indice. -Dovresti presenziare più spesso alla casa degli dei…ti sei dimostrato coraggioso e degno di valore. Potremmo trovare uno scranno anche per te!

Mentre ponderava sul fatto di dimorare sull’Olimpo, Pan venne distratto dagli schiamazzi che Hermes si lasciava scappare sotto il peso dei bicipiti di Zeus, e inconsciamente portò una mano sulla sacca dalla quale non si separava mai: i polpastrelli entrarono in contatto con il suo mitico flauto. L’indole spensierata e amante della libertà, della gioia e delle passioni che lo caratterizzava lo portò ad accostare il flauto alle labbra ed incominciare a suonare. Athena si mise a ridere, e improvvisò un balletto sul posto, mentre Zeus e suo figlio continuavano a respingersi a vicenda con fare affettuosamente virile.

No, non avrebbe mai potuto abbandonare la sua vita. La sua eterna caccia alle ninfe, i dirupi selvaggi e scoscesi. Sarebbe accorso se la sua presenza fosse stata richiesta, ma il dio Pan avrebbe continuato a dimorare nelle campagne e nei boschi, per i monti inabitati e le foreste, pronto a burlarsi del viandante e confidare i propri segreti al ronzio dell’alveare.




Fine

  
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