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Autore: Sophie Isabella Nikolaevna    13/10/2013    1 recensioni
[Fandom: Iliade, Omero]
Atena Glaucopide, la dea dagli occhi azzurri. Il Pelide Achille, eroe fra gli eroi. Un incontro avvenuto per caso e un legame che ben presto, nonostante i divieti e le insidie della guerra, diventerà indispensabile per entrambi, tessendo dietro all'Iliade che tutti conosciamo una rete di segreti. Il cuore solitario di una dea racconterà ciò che per anni ha tenuto segreto: la storia di un amore sofferto, di una guerra in bilico, di un eroe spietato e insieme magnanimo, una seconda Iliade che nessuno ha mai letto.
Genere: Drammatico, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 5


Il giorno appena successivo Agamennone convocò il consiglio degli anziani, dopodiché chiamò tutti gli Achei in assemblea.
Era una mattina fresca e arieggiata, le nuvole nell'alto dei cieli erano continuamente plasmate e rimodellate dal vento. Mi chiesi se Eolo si stesse divertendo a modulare le loro forme come più gli piaceva.
Osservavo, ferma sulla riva del mare, le miriadi di soldati che camminavano verso il centro dell'accampamento, chiedendosi l'un l'altro cosa mai avesse spinto Agamennone a convocarli. La maggior parte di loro, probabilmente, non aveva mai visto il volto del loro comandante.
Achille, come mi aspettavo, non si presentò.
"Salute, mia dea", esclamò qualcuno alla mia sinistra. Non ebbi bisogno di voltarmi per capire a chi apparteneva quella voce.
"Salute a te, figlio di Laerte".
"Questa assemblea non mi convince", affermò Odisseo. "Perché mai Agamennone dovrebbe convocarci tutti solo per organizzare un attacco? Non si è mai visto nulla di simile. C'è sotto qualcosa, lo sento".
"Sono d'accordo con te", risposi. L'assemblea generale non convinceva nemmeno me. Quale diavoleria si sarebbe inventato Agamennone, questa volta? "Restami vicino durante l'adunata. Sono sicura che ci sarà bisogno della tua famosa astuzia".

Odisseo aveva fatto bene a sospettare di Agamennone. Il generale, infatti, aveva chiamato l'intero esercito per mettere alla prova la fedeltà dei suoi soldati. Fece loro credere che la guerra fosse finita, che avrebbero potuto tornarsene alle loro case. Nessuno di loro stava combattendo quella guerra per interessi personali o per servire qualcuno a cui erano devoti: tutti quanti corsero verso le navi, impazienti di lasciare quell'inferno. Per un momento, Odisseo fissò la folla in corsa spaventato, impotente. Per fortuna, fu solo un attimo.
"Forza, Odisseo", lo incitai. "A te daranno ascolto. Fermali!".
Non ci fu bisogno di Agamennone e degli anziani: Odisseo seppe fermare la folla con le sole proprie parole. Nemmeno il mio aiuto fu necessario. Osservai quell'uomo, incredula: giovane ma scaltro e pronto a tutto, capace di compiere con le parole quanto i più non riescono a portare a termine con la spada. Già altre volte il re di Itaca si era distinto fra i suoi compagni, ma mai quanto quel giorno. Una volta calmata l'onda furiosa degli Achei, Odisseo fu capace anche di stroncare le lamentele di uno sgradevole soldato di nome Tersite, famoso nell'esercito per il suo cattivo carattere.
Sorrisi: qualche soldato dotato di buon senso era rimasto.
Quasi a farlo apposta, voltandomi verso il mare potei vedere Achille che osservava la scena da lontano, seduto su un gruppo di scogli percossi dalle onde. Riuscivo a scorgere i dettagli del suo viso: guardava nella direzione mia e di Odisseo con un'espressione di indefinibile serietà.

I giorni successivi passarono come in uno strano sogno di attesa. Ero diventata la consigliera di guerra di Odisseo: lo aiutavo in ogni scontro, e parlare con lui era sempre interessante. Vedere come la mente di un mortale potesse escogitare piani come i suoi mi affascinava. Era un uomo serio e responsabile, che dava tutto se stesso all'esercito e alla buona riuscita della spedizione. Tuttavia, non passava un giorno senza che mi parlasse della sua patria, la rocciosa Itaca, di suo figlio Telemaco e di sua moglie. Si chiamava Penelope, ed era la cugina di Elena di Troia.
"E tu hai preferito Penelope a sua cugina?", gli chiesi la prima volta che mi parlò di lei. "La donna più bella del mondo?".
Odisseo sorrise:
"Elena sarà anche la donna più bella del mondo. Ma Penelope è la donna più bella del mio mondo. Elena avrà i capelli d'oro, gli occhi verdi e il corpo simile a quello di Afrodite, ma non vedo in lei la luce di Penelope. Potrei avere mille altre donne durante la mia vita, ma nessuna di queste potrebbe competere con Penelope, anche se più belle di lei".
Da un uomo saggio come lui non avrei potuto aspettarmi altro che una risposta simile, e ne fui profondamente felice. Fui felice per Penelope, compagna di vita di un uomo intelligente e saggio, e fui felice per loro figlio Telemaco.
Cercavo sempre di non guardare nella direzione delle tende dei Mirmidoni, e se possibile ne stavo alla larga. Ma qualche volta, solo qualche volta, mi lasciavo prendere dalla debolezza. Allora mi sollevavo in alto nel cielo, con le mie ali da civetta, e passavo in volo sopra l'accampamento di Achille.
Capitava che non lo vedessi da nessuna parte, e allora tornavo indietro. Altre volte, invece, lo vedevo giocare al lancio del disco con Patroclo, e una parte di me sorrideva alla vista dei due cugini e del profondo affetto che li legava, un affetto che probabilmente andava oltre l'amicizia.
Infine, c'erano le volte in cui Achille sedeva da solo in riva al mare, e allora mi fermavo a volare in cerchio sopra di lui, cercando di non farmi vedere.
Scrutava sempre l'orizzonte. Forse pensava a sua madre Teti, ninfa marina. Forse pensava ai suoi compagni che, nel frattempo, stavano combattendo. Forse sperava, preoccupato, che non succedesse nulla a Patroclo mentre lui non c'era. Avrei potuto ascoltare i suoi pensieri se lo avessi voluto, ma non lo facevo mai. Vedevo la cosa come una mancanza di rispetto, non sarei mai entrata nella testa di nessuno. Forse, mi ritrovavo ogni volta a sperare, stava pensando alla dea Atena, che si era dichiarata delusa da lui. E allora venivo assalita da un moto di tristezza mista ad indignazione: se solo fosse stato responsabile e saggio come Odisseo, invece che capriccioso e volubile. La sua impulsività gli avrebbe portato solo danni nella sua breve vita.
Ogni volta, appena arrivavo a questo punto di pensieri, Achille sollevava la testa di scatto e mi notava, come se l'avessi chiamato. Non c'erano mai parole tra di noi, ma lui ogni volta capiva che ero lì, e che - stavo quasi imparando ad ammetterlo a me stessa - non ero preoccupata solo per la sorte dell'esercito: ero preoccupata anche per la sua.
L'altro pensiero ricorrente di quei giorni erano gli altri dei: dopo la visita di Hera non avevo più avuto contatti con nessun'altra divinità, e mi chiedevo quando e come li avrei rivisti.
La risposta arrivò il giorno del duello.

Sembrava una battaglia come le altre: ormai non c'era più tensione fra i soldati, non c'era più paura. Ognuno di loro aveva assimilato la consapevolezza di poter morire da un momento all'altro, e questo mi spaventava più di qualsiasi scontro. Quel giorno, nessuno dei due eserciti accennava a compiere alcuna mossa: le due fazioni erano schierate l'una di fronte all'altra, ferme.
Io, come sempre, ero sul campo insieme agli Achei.
Ad un tratto, un troiano si fece avanti, uscendo allo scoperto di fronte agli avversari. Era giovane e bellissimo, gli occhi neri grandi ed espressivi come quelli di un cerbiatto. Sembrava ancora più un ragazzino che un uomo, e le sue membra perfette erano ricoperte, oltre che dall'armatura, da una pelle di leopardo.
Paride.
Un mormorio indistinto percorse l'intero esercito acheo. Lanciai un'occhiata in direzione di Menelao, che stava nelle prime linee sul suo carro, poco lontano da me. Al contrario del fratello, lo vedevo sempre combattere. Forse, era l'unico che ancora credeva in quella spedizione. Alcune ciocche di capelli biondi che gli uscivano dall'elmo rilucevano al sole, e teneva lo sguardo fisso su Paride, le sopracciglia agrottate. Lui sì che,
al contrario del principe avversario, aveva l'aspetto di un uomo.
"Chi ne ha il coraggio", esordì Paride, cercando di fare la voce grossa, "si faccia avanti e venga a combattere. Io sono il principe Paride, io vi ho rubato Elena! Se potete, venite a punirmi!".
Percepii un forte tremito nella sua voce. Intenzioni buone, ma mancanza di coraggio. Mi domandai dopo quanto tempo sarebbe fuggito a gambe levate. Odisseo, accanto a me, sembrava starsi chiedendo le stesse cose.
Menelao invece non se lo fece ripetere due volte: immediatamente balzò a terra e corse verso il suo rivale con la velocità e la ferocia di un leone all'attacco. Paride, che probabilmente tutto si sarebbe aspettato fuorché questo, spalancò gli occhi e, con un'espressione di terrore, scappò verso il suo esercito fino a raggiungere suo fratello Ettore in prima linea. Menelao si fermò, furioso, e gli Achei si guardarono l'un l'altro con incredulità. Io, invece, non ero affatto sorpresa.
Ettore rimproverò duramente il fratello con aspre parole. Lui, sì, che aveva tutto l'aspetto di un principe. Non doveva avere molti anni in più del fratello, ma fra i due sembrava quasi intercorrere un'intera generazione. Vidi Paride annuire più volte, e alla fine annunciò che avrebbe combattuto in duello contro Menelao: chi avrebbe vinto si sarebbe preso Elena, e la vittoria sarebbe stata sua.
Dubitavo fortemente che le cose sarebbero andate come Paride aveva appena annunciato. Nonostante entrambi gli eserciti fossero visibilmente entusiasti della decisione presa - tutti avrebbero finalmente potuto tornare a casa dalle loro famiglie - a me sembrava tutto troppo... facile. Scontato. Troppo veloce. Qualcosa non sarebbe andato secondo i piani, e io lo sapevo.
Il duello ebbe inizio. Menelao, a causa della sua impulsività, in breve rimase disarmato: la sua asta era conficcata nello scudo di Paride, la spada frantumata nel tentativo di rompergli l'elmo. Il re di Sparta, però, non si diede per vinto: come una furia si avventò su Paride e lo prese per l'elmo, tirandolo a sé fino quasi a strozzarlo. Era molto più grande e muscoloso del giovane avversario, e riuscì a trascinarlo a forza verso l'esercito Acheo, mentre i Troiani osservavano la scena con gli occhi sbarrati. Ettore in particolare aveva la bocca semiaperta e un'espressione di totale disperazione e smarrimento sul volto.
Improvvisamente una figura bianca ed eterea arrivò volando, luminosa come una cometa. Conoscevo quel fulgore, conoscevo quella grazia: Afrodite. Fu improvvisa, velocissima: prima ancora che mi rendessi conto della situazione aveva slacciato la cinghia dell'elmo di Paride, facendo cadere a terra il principe e lasciando in mano a Menelao l'elmo vuoto. Afrodite avvolse Paride in una nuvola di nebbia che si dissolse dopo un attimo: il figlio di Priamo era sparito.
Menelao si guardava intorno senza capire. Lui non poteva vederla: era alta nel cielo, bianca e luminosa, i capelli d'oro a circondarle il viso su cui era stampata una decisa ed irritante espressione di sfida. E i suoi occhi guardavano esattamente nella mia direzione.
"Atena, era da tanti giorni che non ti vedevo", esclamò, un sopracciglio alzato. "Nostro padre ti ha forse proibito di tornare?".
"Paride è fuggito e Menelao ha vinto", diceva nel frattempo Agamennone. "Rendetegli Elena e le sue ricchezze!".
"Che cosa hai fatto?!", gridai volando alta verso di lei. "Disgraziata! Hai interrotto un duello!".
"Così voleva il Fato", rispose lei in tutta calma, sorridendo. Nessun soldato poteva più vederci.
"Storie! Sei stata tu a volerlo! Sapevi che Paride sarebbe stato sconfitto!".
"Ora i tuoi Greci hanno avuto la loro vittoria, non sei contenta?".
"Sai benissimo che non è così! Ora uno dei due eserciti attaccherà l'altro e la sconfitta di Troia sarà ancora rimandata! Lo sai fin troppo bene!".
Proprio in quel momento un grido di Menelao richiamò la mia attenzione sull'esercito. Una freccia troiana l'aveva colpito alla gamba. Il silenzio più totale piombò sui due eserciti.
"Certo che lo so". Afrodite sorrise di nuovo. "Buona battaglia, Atena!".
Ritornai in picchiata sul campo.
Scoppiò il pandemonio. Avevo avuto ragione a sospettare: eravamo di nuovo immersi nell'ennesimo scontro cruento. Avevo perso di vista Odisseo, ma ero sicura che il re di Itaca sarebbe stato capace di cavarsela da solo. Come ogni volta che mi trovavo in un combattimento, smisi di ragionare e lasciai che fosse la Guerra a guidarmi, con i suoi clangori e i suoi scintillii di armature. Vidi Diomede che, veloce, mi si avvicinava con il suo carro maestoso. D'istinto, con un balzo vi fui sopra. Gli occhi mi lacrimavano per la polvere e per il vento, i cavalli correvano veloci come i fulmini di mio padre Zeus.
"Sei tu, mia signora?", mi urlò Diomede in mezzo al fragore, guardando fisso verso la mischia davanti a sé. "Atena Glaucopide?".
Mi affiancai a lui e per tutta risposta gli corressi la posizione del braccio prima che lanciasse l'asta, aiutandolo a colpire un arcere troiano che mirava proprio a lui.
Vedemmo in lontananza Afrodite, e feci in cenno a Diomede con la testa. Il figlio di Tideo ordinò all'auriga di dirigersi in quella direzione. Non aspettai che prendesse un'altra asta: senza pensarci gli misi in mano la mia, forgiata personalmente da Efesto, d'oro e avorio. Di nuovo gli sostenni il braccio e glie lo portai all'altezza giusta. Non all'altezza per uccidere, no, ma a quella per ferire.
Diomede scagliò l'asta e colpì di striscio Afrodite, che emise un grido di dolore e immediatamente si voltò a guardarmi negli occhi. Aveva un taglio sul braccio, non profondo ma lungo, che sanguinava.
"Questo Zeus lo saprà", mi gridò la dea dell'Amore, una luce negli occhi che non potrei mai dimenticare. "E tu davvero non rivedrai mai più l'Olimpo! Mai più!".
Come se questo avesse fatto qualche differenza, pensai con rabia: ero già stata condannata a non vedere più la mia casa! Afrodite mi guardò in silenzio per un altro secondo come un animale ferito, poi svanì in una nuvola simile a quella con cui aveva fatto scomparire Paride, e io cercai di tornare nell'irrazionalità della mischia. Non volevo ritrovarmi ad affrontare il fatto che avevo appena indirettamente colpito Afrodite. Non volevo ricordare i suoi occhi e la loro espressione tradita, non volevo sentire la colpa, non in quel momento.
La Guerra si impossessò definitivamente di me, impedendomi di provare qualsiasi sentimento. Ero diventata l'anima stessa della battaglia, la mente di ogni attacco, la legge fisica dietro ogni lancio. Ero diventata la strategia, una strategia che parlava chiaro: mettere fuori gioco chiunque aiutasse i nemici. Non avevo più un corpo, ero solo uno spirito iridescente e impetuoso, ponto a compiere il suo dovere.
Mi infilai nel corpo dell'auriga e guidai il carro di Diomede attraverso la confusione, il sangue e le punte acuminate. Una violenza soprannaturale regnava sulla battaglia: Ares combatteva con i Troiani. Lo vidi da lontano, imponente e violento, sterminare chiunque gli si trovasse davanti. Dietro di lui combatteva Apollo. Immediatamente feci galoppare i cavalli nella loro direzione, con tanta foga che il carro quasi si ribaltò. Tutto era sempre più veloce, più forte, più vicino. Diomede si reggeva in piedi in perfetto equilibrio, tenendo l'asta in posizione di lancio.
Il dio della Lotta mi riconobbe, e vidi i suoi occhi scintillare di un rosso cupo da sotto l'elmo.
Fu una frazione di secondo.
"Lancia!", gridai con tutte le mie forze, e un attimo dopo l'arma di Diomede aveva scalfito la pelle di Ares, facendolo sanguinare esattamente come Afrodite. Diomede aveva preso un'altra lancia e l'aveva già sollevata, pronto a scagliarla verso Apollo, ma il dio del Sole fuggì.
Lo vidi prendere il volo e scappare verso l'alto, e ben presto la sua capigliatura dorata diventò tutt'uno con l'astro nascente.

La furia di Diomede cessò quando si trovò di fronte a Glauco, un guerriero troiano a lui legato da antichi vincoli di ospitalità. L'eroe smise di combattere, e con la sua furia svanì anche il mio ardore di guerra, e tornai me stessa. Diomede non aveva più bisogno del mio aiuto, così presi il volo e sorvolai la battaglia, cercando con gli occhi qualche acheo in difficoltà da soccorrere. Davanti a me si ergeva Troia in tutta la sua magnificenza, una città che tendeva verso l'alto e culminava con lo splendente palazzo di Priamo, come la vetta innevata di un monte.
E ora, invece, è annerito e mangiato dal tempo, abitato solo dalle anime dell'antica polvere.
I miei occhi furono attirati da due figure alla base della città, alle porte Scee.
Socchiusi le palpebre: erano un uomo e una donna, ed ero più che certa che l'uomo fosse Ettore, il valoroso principe troiano. Incuriosita, mi feci trasportare dal vento verso le porte, e ben presto piume di civetta mi ricoprirono le braccia. Riuscivo ancora a vedere la battaglia, ma un'immensa curiosità mi spingeva verso le porte Scee.
In breve mi ritrovai a volare sopra gli enormi battenti storti di Troia. Ettore parlava con una bellissima donna dai lunghi ricci castani che il vento gonfiava. In braccio alla madre stava un neonato che si guardava intorno sbigottito, senza capire dove fosse capitato.
"Se tu muori, di me non resterà che polvere!", diceva la donna, piangendo. "Tu sei per me sei sia il padre che la madre, sei i miei fratelli e il mio sposo, e sei il padre di mio figlio".
Ettore sospirò. Non vidi lacrime sulle sue guance, ma dentro di sé quell'uomo era frantumato dal dolore, e una parte di lui urlava in silenzio.
"Andromaca, sai che non voglio per nostro figlio il destino di un orfano. Ma, se non andassi a combattere, non potrei più ripresentarmi come principe di Troia: chiunque, vedendomi, riderebbe di me e della mia vigliaccheria". Parole che mi sembrava di avere già sentito. "So bene che Ilio cadrà, e non posso accettare l'idea che tu diventerai la schiava di qualche acheo". A questo punto Andromaca cominciò a singhiozzare. "Quindi, spero di essere morto prima che questo accada, non potrei sopportarlo".
Ettore si avvicinò al figlio per prenderlo in braccio, ma il piccolo si ritrasse con un gemito di paura. Il padre sorrise e si tolse l'elmo, e questa volta suo figlio lo riconobbe. Con il neonato in braccio, Ettore dedicò una preghiera a Zeus sotto la luce accecante di quel sole, poi rivolse alla moglie l'ultimo saluto:
"Non ti affliggere: se morirò, sarà perché il Fato vuole così".
Si guardarono negli occhi per un istante lungo decenni, e probabilmente si raccontarono in uno sguardo quanto non erano riusciti a dirsi in anni e anni. Infine, Ettore diede un bacio al figlio, lo rimise in braccio alla moglie e si allontanò verso la battaglia, lasciando Andromaca nella disperazione. Una disperazione ormai priva di speranza.
Andromaca rimase ferma a guardare il marito che si allontanava, le vesti mosse dal vento, infine rientrò a passo lento in città e sulla soglia delle Scee non rimase più nessuno. Ero sola con il sole e il vento.
Ero profondamente colpita. Il silenzioso grido di dolore di Ettore mi rimbombava ancora in testa. Avevo visto negli occhi suoi e di Andromaca una luce che io non avevo mai realmente sperimentato. Avevo percepito nelle loro voci una nota diversa. Non ero mai stata come Artemide, che volutamente aveva sempre rifiutato ogni forma di amore, corporale o spirituale. Io, semplicemente, non me ne ero mai interessata. Avevo sempre avuto pensieri più urgenti. Avevo passato i miei anni scrutando le profondità dei cieli notturni e scoprendo nuove saggezze nelle leggi fisiche che governano il moto dei pianeti. Avevo sperimentato livelli di astrazione superiori, avevo affinato i miei sensi. Non mi ero mai innamorata, ma non avevo mai sentito la mancanza di un sentimento del genere. Non l'avevo ripudiato, non l'avevo cercato.
Qualcuno l'aveva cercato in me, ma evitavo sempre di pensare a quel giorno, o meglio, quella notte.
Le poche parole che i due amanti si erano scambiati avevano portato con loro, oltre alla malincionia, dei pensieri che avevano cominciato a martellarmi la testa. Pensieri sconosciuti ma, lo sapevo, infidi. Pericolosi. Se avessi abbassato la guardia, si sarebbero insinuati nella mia mente, e questo non doveva assolutamente accadere.
Mi voltai nuovamente verso la piana della battaglia, in modo da non vedere più le Scee. Mano a mano che planavo verso i soldati in guerra riacquistavo la mia forma umana, e quando toccai terra ero di nuovo una giovane donna dagli occhi azzurri, armata e pronta a combattere.

Come ogni giorno, all'imbrunire venne sancita la tregua, e iniziarono i rituali di sepoltura per i morti.
Le pire ardevano in lontananza, tingendo d'arancio il cielo color pervinca del tramonto. I loro fumi si fondevano con le nuvole, amalgamando il colore del sole e quello dei fuochi. Il mare rifletteva le tinte, increspandole e facendole risplendere. Se non avessi conosciuto la morte e la desolazione che accompagnavano quei colori, avrei detto che era uno spettacolo meraviglioso.
Tirava una brezza leggermente pungente, tipica delle prime sere d'estate: di giorno il sole arde e scalda, ma appena il carro dorato sparisce oltre l'orizzonte, la sera raffredda improvvisamente il mondo, facendolo respirare. Camminavo sul bagnasciuga, osservando l'accampamento poco lontano. Non passò molto tempo prima che mi ritrovassi davanti alle tende dei Mirmidoni. Non mi nascondevo più. In una sola giornata avevo vissuto anni e anni, e forse tutto quello che mi serviva era parlare con qualcuno. Non con l'ardore di Diomede o con la macchinosa astuzia di Odiesso: avevo bisogno di umanità, pura e difettosa umanità.
Achille, come mi aspettavo, era seduto in riva al mare, lo sguardo fisso verso l'esplosione del tramonto. Lo raggiunsi lentamente e mi sedetti accanto a lui, sulla sabbia grezza della costa di Troia.
"Atena Glaucopide", disse Achille, spostando lo sguardo su di me.
"Achille Pelide", risposi.
Poi, entrambi tornammo a concentrarci sulle violente pennellate del tramonto miste al fumo delle pire. Colori che riflettevano lo scontro di poco prima.
"Sono passati giorni dall'ultima volta che abbiamo parlato", constatò.
"Per questo sono qui, figlio di Peleo".
Lo udii sogghignare piano, poi parlò:
"Mi dispiace, mia signora, ma non ho cambiato idea riguardo all'argomento delle nostre ultime discussioni".
"La mia intenzione non era di parlare di questo, infatti".
"Allora a cosa devo l'onore della tua visita, mia signora?".
Sospirai. "A volte bisogna raccontare, parlare".
"Mi trovi d'accordo".
"Oggi in battaglia ho colpito Afrodite", cominciai, e le parole mi uscirono incontrollate come un fiume in piena. Achille si voltò a guardarmi incuriosito, le sopracciglia agrottate. "E Ares. E ho messo in fuga Apollo. In realtà è stato Diomede figlio di Tideo a colpirli, ma io guidavo il suo carro. Io. Anche se siamo sempre state opposte, Afrodite è come una sorella per me. In pochi giorni mi sono resi nemici quasi tutti gli dei, quelli che avevo sempre considerato la mia famiglia. Solo Hera è rimasta dalla mia parte. Mi chiedo se rivedrò mai più l'Olimpo, se mio padre mi riaccoglierà mai. Vorrei poter tornare da tutti loro, anche solo una volta. Nella mia vita ho avuto contrasti con molte divinità, ma ora è come se nulla di questo importasse più. Al tempo stesso, però, non posso abbandonare il campo di battaglia. Ho promesso che vi avrei aiutati, e il mio ruolo, il mio dovere è questo. Ma non smetto di farmi domande. Poco fa ho visto il Principe Ettore dire addio a sua moglie prima della battaglia, e ho capito che c'è qualcosa che mi manca. Non saprei spiegarlo. C'è qualcosa che non ho mai conosciuto, e che ho bisogno di conoscere. Davvero l'amore è così importante?". Feci una pausa. "Ti porgo le mie scuse, figlio di Peleo. Non avrei dovuto dirti tutto questo. 
So che non è proprio di una divinità parlare così di se stessa, ma anche una dea, delle volte, ha bisogno di riflettere sulle proprie azioni. Anzi, io lo faccio piuttosto spesso. Troppo, forse".
"So bene che un dio riflette esattamente come un essere umano, anzi, molto di più", mi rispose lui a voce bassa. "Vorrei farlo anche io. Temo di fermarmi troppo poco a pensare. Ho il dubbio di stare sbagliando. Negli ultimi giorni ho cercato di dedicarmi al pensiero più che a ogni altra cosa, ma ogni riflessione mi riportava sempre, inesorabilmente alla guerra". Scosse la testa. "Hai chiesto se l'amore è davvero così importante, figlia di Zeus? Purtroppo non sono la persona più adatta per risponderti. Ho una moglie, a Ftia, ma non sono sicuro di amarla. Penso che amare sia una parola molto complicata, e forse è meglio non usarla mai. Prendi Patroclo, mio cugino: l'affetto che nutro per lui è di gran lunga superiore rispetto a quello che provo per mia moglie, e penso sia il sentimento più forte che provo. Ma non avrei un nome da darvi. A me basta che esista. Non so se davvero l'amore è così necessario, ma non penso che sia una questione da porsi. Se si è soddisfatti della propria vita, vuol dire che la si sta vivendo nel modo giusto per se stessi amore o non amore. Ma se si ha la sensazione che qualcosa manchi, allora la risposta è chiara".
Non seppi rispondere e rimasi in silenzio a guardarlo. Quell'uomo non poteva essere lo stesso che da giorni aveva deciso di non combattere a causa di un capriccio. Lo scrutavo senza dire una parola, e i miei pensieri, poco alla volta e contro la mia volontà, iniziarono a viaggiare lungo il corso dei suoi neuroni. Per la prima volta, alla luce infuocata di quel tramonto, non vidi l'eroe, non vidi il semidio: vidi la persona. Vidi la complessità della psiche, vidi i contrasti e le armonie, l'imperfetta perfezione della mente umana, quello che avevo sperato di trovare quando mi ero seduta accanto a lui.
Ma subito tornai in me e riacquistai lucidità.
"Ti ho offesa con la mia risposta, mia signora?", chiese Achille guardandomi negli occhi. "Ti delusa ancora di più di quanto non abbia già fatto?".
"No", risposi. "No. Niente affatto".
Il tramonto faceva risplendere dei fuochi nell'oceano dei suoi occhi, e lo rendeva simile ad una rilucente statua di bronzo. Se qualcuno ci avesse visti dall'esterno avrebbe detto che lui era una divinità, e io una donna qualsiasi.
"Passa una notte tranquilla, Pelide", gli augurai alzandomi. Gli rivolsi quello che avrebbe potuto assomigliare ad un sorriso timido e mi allontanai da lui di qualche passo, verso il bosco delle civette.
"Atena Glaucopide!". Al suono della mia voce mi voltai di nuovo a guardarlo. Aveva sul viso un'espressione preoccupata. "Davvero non ti ho offesa?".
Questa volta gli rivolsi un sorriso sincero, sincero in ogni particella, e non ebbi bisogno di rispondergli.
Il bosco mi aspettava. Potevo sentire i richiami delle civette fin dalla spiaggia, striduli suoni nel buio.


NDA:
La lunghezza di questi capitoli cresce con andamento esponenziale, aiuto.


   
 
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