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Autore: DK in a Madow    14/10/2013    3 recensioni
- Scusami Robert.
Il cantante sorrise dolcemente. Nonostante dovessero essere gli altri a dover capire il suo stato, con Jimmy era diverso; lo capiva, scavava nel profondo del suo cuore con poco, con uno sguardo, e per lui era difficile essergli indifferente.
- Non preoccuparti, Pagey. – disse con voce profonda – Vieni qui, parliamo.
Il chitarrista si grattò il mento prima di andare a sedersi a terra, di fronte all’amico, le spalle poggiate sul muro sotto il davanzale. La finestra era di nuovo aperta e il profumo di pioggia così intenso che gli sembrò di poterla sentire cadere dentro di sé. Chiuse per un attimo gli occhi e quando li riaprì li puntò in quelli dell’altro.
- Sì, parliamo, ma non farmi la predica, te ne prego.

***
Angst e sentimentale che sfociano nello slash seguendo, ovviamente, la linea tracciata da decine di OS uguali a questa.
Niente di originale, ecco.
Detto questo, buona lettura.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jimmy Page, Robert Plant, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Ai soli non si addice l'intimità della famiglia
magari solo un po' d'amore quando ne hanno voglia
un attimo di smarrimento, un improvviso senso d'allegria
allenarsi a sorridere per nascondere la fatica
soli, vivere da soli.

(I Soli – Giorgio Gaber)

Chi mi riparlerà
di domani luminosi
dove i muti canteranno
e taceranno i noiosi

quando riascolterò
il vento tra le foglie
sussurrare i silenzi
che la sera raccoglie.

(Il Cantico dei Drogati – Fabrizio De Andrè)

As I turn to you, you smiled at me
How could we say no?

(Achilles Last Stand – Led Zeppelin)

Sometimes,
baby,
nothin’ I could do.






Monaco, Musicland Studios, 8 Novembre 1976



Era da più di un quarto d’ora che fissava le pozzanghere sull’asfalto. Queste continuavano a riempirsi e straripare, creando anelli di arcobaleno ai bordi della strada, mentre il cielo pioveva giù a dirotto, grigio, terribilmente simile a quello di Londra. In quel giorno in cui il sole sembrava davvero si fosse rifiutato di sorgere, anche gli alberi che crescevano nei dintorni sembravano aver perso i loro colori in quei piccoli laghi di periferia. Le sue iridi smeraldine ci erano annegate, annebbiate da un senso di pace che solo il suo piccolo inferno personale era capace di donargli. Avvicinò due dita alle labbra, afferrò il filtro ormai annerito dell’ennesima sigaretta e lo lanciò oltre il davanzale. Guardò l’orologio al polso. Le quattordici e trenta. Cazzo, pensò, solo cinque minuti fa erano le undici. Poi qualcosa nella sua mente gli ricordò che per lui le ore bruciavano in pochi minuti, così si passò una mano tra i capelli con fare goffo, come un bambino imbarazzato che ha scoperto di aver bagnato il letto durante la notte. Chiuse la finestra e si voltò verso la stanza, combattendo contro il senso di vertigine provocato dal movimento brusco, poggiando una mano sulla parete alle sue spalle. Di fronte a lui, tutto era pronto, come sempre; le chitarre perfettamente accordate così come la batteria, le tastiere tirate a lucido, i microfoni regolati.

Eppure qualcosa non andava. Qualcosa non era “come sempre”.

Jimmy si avvicinò silenzioso all’asta che reggeva il microfono che quel pomeriggio avrebbe usato Robert e, forse per abitudine, forse per distrazione, la regolò ad un metro e settanta circa, in modo che lui non dovesse piegarsi in avanti o sforzarsi allungando il collo in alto. Come al solito. Improvvisamente un fulmine di lucidità interruppe il suo stato di nebbia e quiete, facendo scoppiare nel suo petto un tuono d’angoscia che gli spezzò il respiro riducendolo ad un soffio.

- Che cazzo sto a fare. – sussurrò a se stesso mentre le sue dita si raccoglievano nel palmo scricchiolando sinistre, in un pugno di rabbia che a stento riusciva a controllare. Una goccia di sudore attraversò fredda la sua tempia sinistra, le sue mani che tornarono ad armeggiare con l’asta, abbassandola il tanto che bastava per poter cantare da seduti, per poi rifugiarsi nelle tasche vuote. Prese a misurare la stanza a grandi passi fino a quando questi non presero a moltiplicarsi, rimbombando nel corridoio. Erano arrivati e Jimmy prese a passarsi nervosamente le mani tra i capelli, cercando di metterli in ordine alla meno peggio; poi qualcosa lo bloccò, notando che le voci pacate dei tre si avvicinavano accompagnate da uno strano rumore, come lo stridio di gomma su un pavimento di marmo. Il chitarrista non fece nemmeno in tempo a dare un senso a quel rumore che la porta dello studio si aprì cigolando piano. La testa di John si affacciò incerta e quando lo vide gli rivolse un sorriso cordiale.

- Hey, Jimmy! – lo salutò con un sussurro, ricevendo come risposta solo un’alzata di mano. Dopodiché si voltò alle sue spalle, la voce di Robert che arrivava da un punto impreciso dietro le sue spalle insieme a quella di Bonzo: - Entrate, dai! Jim è già qui.

- E bravo Pagey! – esclamò Bonzo, ma la sua voce era fintamente entusiasta.

- Sul serio? – la voce di Robert era sorpresa, velata d’ansia e questo Jimmy lo percepì perfettamente, mentre Jonesy spalancava completamente la porta. Si fece da parte nel corridoio e, subito dopo, Bonzo apparve stringendo tra le mani la spalliera di una sedia a rotelle sulla quale Robert sedeva leggermente piegato di lato, il volto pallido e un cielo spento nei suoi occhi.

No.

Non è Robert. E nemmeno io sono esattamente “io”. Eppure l’ho visto, gli sono stato accanto in quei giorni sfacciatamente luminosi di Malibù. Lo vedevo, abbandonato su un letto, il ventre fasciato, un taccuino sulle lenzuola mentre mi dettava le sue parole, le mie dita come foglie di gelsomino che raccoglievano la dolce brezza notturna dei suoi sussurri. C’era il mare, lo ricordo, e Robert cercava di ridere mentre diceva che per quest’anno avrebbe rinunciato volentieri a nuotare. Rideva una risata che non era sua, mentre io mi nascondevo nei miei silenzi e le corde della mia chitarra, illudendomi che presto tutto sarebbe tornato al suo posto. Era una farsa, costruita per la mia anima ancora ingenua. Perché, Cristo, io un’anima ce l’ho. La sento qui, all’altezza del petto, che spinge contro la gola e gli occhi per uscire fuori, credo …

- Ciao Jim! – il sorriso di Robert era una candela sul punto di spegnersi di fronte all’immobilità sconvolta di Jimmy. Lo vide scuotere la testa, gli occhi che si strinsero in una smorfia di rifiuto sotto i capelli corvini, per poi sentirlo passare di fianco a sé con le mani sul capo, scomparendo alle sue spalle, nel corridoio. Sentì il suo pugno colpire in pieno l’unica porta sul corridoio, quella del bagno, seguita dal rumore della maniglia abbassata, il tonfo della porta che si chiude. Il cantante si voltò a guardare Bonzo alle sue spalle, in una tacita richiesta di cortesia.

- Vado a recuperarlo. – disse gonfiando le guance, sotto lo sguardo preoccupato di Jonesy e quello ansioso di Robert. Con pochi passi fu davanti alla porta, abbassò la maniglia e quando fu dentro lo trovò seduto a terra, rannicchiato in un angolo, le ginocchia strette nei jeans e tra le sue stesse braccia, il volto puntato verso il muro di fronte incorniciato dai riccioli perfetti. Non piangeva, si limitava a tremare come in preda alla febbre. Bonzo si grattò la testa imbarazzato. Che casino, pensò. Robert su una sedia a rotelle, Pagey e l’ero, lui e una bottiglia (e tante altre) di alcool, Jonesy fermo a guardare. La situazione era letteralmente andata a puttane e in quel bagno piccolo e lercio si chiese dove sarebbero andati a finire, perché gli occhi di Robert avessero supplicato proprio a lui di riafferrare James e perché quest’ultimo avesse insistito con la storia dell’album; lui e Robert stavano male, per la prima volta erano insieme anche nel dolore, così fragili da spezzarsi l’uno nelle braccia dell’altro, eppure volevano andare avanti.

- Torna da loro, Bonzo. – sussurrò gelido.

Il batterista sbuffò, scaricando la rabbia con un pugno sulla porta.

- Mi chiedo quando tu tornerai da noi. – cercò di trattenere la voce, credeva che un suono più forte avrebbe schiacciato Jimmy contro il pavimento tanto era inconsistente. Eppure gli rivolse gli occhi, asciutti come lingue assetate.

- Quando sarà tardi, Bonz.

Al batterista non restò altro da dire o da fare se non lasciare le braccia cadere sui fianchi: - Vaffanculo, Page. Vaffanculo! – ruggì, calciando la porta – Sai che c’è? Io e Jonesy torniamo domani. Nel frattempo, vedi di tirare fuori i coglioni, Page, lì dentro c’è qualcuno che ha bisogno di te e non di un fantasma. – e così dicendo, scomparve nel corridoio, salvo poi riapparire ancora, diretto verso l’uscita seguito da Jonesy. Questo diede un’occhiata fugace e stanca nel bagno, ma Jimmy non la notò nemmeno, intento a seguire le linee contorte dei suoi dubbi, gli occhi nuovamente puntati sulle crepe del muro di fronte a sé. Quando sentì la porta dell’uscita sbattere furiosa, sobbalzò come se avesse ricevuto uno schiaffo in piena faccia, ricordando che nell’altra stanza c’era un uomo che lo aspettava, che gli chiedeva di stargli accanto. Perché camminare soli è già difficile; non avere la forza per farlo è doloroso. Allora si alzò, traballando sulle ginocchia ossute, e si diresse nella sala d’incisione. Robert era di fronte alla finestra, la testa dritta, i capelli sulle spalle, meravigliosi come sempre; si voltò lentamente, il profilo perfetto che si stagliava contro la luce grigiastra proveniente dalla finestra.

- Scusami Robert.

Il cantante sorrise dolcemente. Nonostante dovessero essere gli altri a dover capire il suo stato, con Jimmy era diverso; lo capiva, scavava nel profondo del suo cuore con poco, con uno sguardo, e per lui era difficile essergli indifferente.

- Non preoccuparti, Pagey. – disse con voce profonda – Vieni qui, parliamo.

Il chitarrista si grattò il mento prima di andare a sedersi a terra, di fronte all’amico, le spalle poggiate sul muro sotto il davanzale. La finestra era di nuovo aperta e il profumo di pioggia così intenso che gli sembrò di poterla sentire cadere dentro di sé. Chiuse per un attimo gli occhi e quando li riaprì li puntò in quelli dell’altro.

- Sì, parliamo, ma non farmi la predica, te ne prego.

- Sai che non sono il tipo che fa prediche, James. – disse, incrociando le braccia sul petto – La condizione in cui mi trovo me la sono cercata tanto quanto te con quella merda. Sono l’ultimo che può venire a sparare sentenze.

- Non dire stronzate. – sussurrò l’altro sollevando le ginocchia e poggiandoci sopra i gomiti - È stato un incidente …

- Che potevo evitare. Nessuno mi obbligava a correre con un pazzo. Specialmente con la mia famiglia e Scarlet a bordo. Credi che io possa mai perdonarmi il male di quell’incidente? – chiese, sporgendosi in avanti, ma subito dovette incollare la schiena alla sedia per via di una fitta che bruciava all’altezza dell’osso sacro. Inspirò profondamente, sotto lo sguardo preoccupato di Jimmy.

- Tutto bene? – chiese, gli occhi spalancati e il volto pallido quanto quello di Robert.

- Tra un po’ passa. – disse questo, cercando una posizione comoda sullo schienale imbottito – In fondo è il giusto prezzo da pagare, il mio. – aggiunse guardando l’altro negli occhi in un modo così profondo che quasi gli sembrò di entrargli dentro.

- Il dolore è solo dolore, Robert. E non è mai giusto. – sospirò Jimmy, scuotendo la testa, staccando lo sguardo – Specialmente per una creatura come te. Il tuo splendore non merita di essere spezzato.

- Splendore? – rise sarcastico il biondo – La mia è una fiaccola così debole che non riesce nemmeno a illuminare chi mi sta accanto. – sussurrò poi, portandosi le mani e lo sguardo al grembo – Non riesco nemmeno a scacciare le ombre di chi amo.

Jimmy non rispose. Si limitò a sospirare, mordendosi l’unghia dell’indice con fare nervoso. Sapeva bene cosa volesse dire Robert e un vortice di sensi di colpa gli vorticò nello stomaco, unito a una sorta di calore che gli invase il petto. Robert era capace di sminuirsi pur di non mortificarlo, sapeva mettersi in secondo piano anche quando era doveroso che ricevesse ogni attenzione. Riusciva ad annullare se stesso, di calarsi anche lui nelle tenebre, di far allungare quelle ombre su entrambi per poi cadere giù, insieme, come una roccia; sarebbe rimasto con lui, anche se questo significava perdere tutto, anche se stesso.

- Non mortificarti. Non ne vale la pena. – sussurrò Jimmy, cercando di trattenere un groppo all’altezza della gola – Non farlo.

- Potrei dirti la stessa cosa, Jimmy. – e questo si ritrovò la mano grande e perfetta dell’altro sulla propria guancia – Se solo riuscissi a capire cosa ti spaventa, piccola anima tormentata.

- Smettila, Robert. – sputò freddo il chitarrista, stringendo gli occhi, rifugiandosi nel buio come sempre, l’importante era fuggire dalla luce e il calore di quella mano che lo carezzava come se fosse la più bella delle creature.

- No, Jimmy, no. – sussurrò – Devo capire perché una meraviglia come te deve arrivare a tanto, usando quelle mani divine per farsi del male. – continuò tentando nuovamente di sporgersi in avanti, ignorando il dolore bruciante al bacino.

- È proprio questo il punto, Plant. – disse l’altro esasperato – Non siamo dei, non siamo infiniti. Siamo solo una serie di limiti che continuiamo ad abbellire senza saperli sfondare.

- Ti sbagli, Pagey. – disse dolcemente il biondo – Siamo umani è vero, e abbiamo dei limiti di cui potremo al massimo spostare il confine, ma in noi il divino c’è. Ci deve essere per forza, nelle tue dita sulla chitarra, non faccio altro che percepirlo, sentirlo vibrare nel petto quell’infinito che riesci a produrre quando suoni sul palco. E poi lo leggo nei tuoi occhi. Quel sublime che c’è in te si apre davanti a me e danza col mio ogni volta che schiudi le labbra per sorridermi.

Parlò tutto d’un fiato, come qualcuno che teneva quelle parole incastrate nel cuore da troppo tempo, un fiume di sentimenti che non riusciva più a scorrere tra gli argini. Sotto le sue dita, le labbra di Jimmy tremavano fredde, le palpebre chiuse come tende su quelle finestre dalla quale lui riusciva a scorgere il più bello dei giardini. Ormai erano due specchi, si riflettevano uno dentro l’altro all’infinito fino a perdersi; soffrivano l’uno per l’altro, colpevolizzandosi a vicenda. Ma per Robert era diverso. Lui era pronto a raccogliere la fragilità di Jimmy, ad accettarla come un dono, farlo al posto suo, troppo orgoglioso per provarci, troppo testardo per accarezzarla e continuando, invece, a nasconderla.

- Non c’è niente di sbagliato nell’essere fragili, Jimmy. Tutti abbiamo bisogno di qualcuno. – tornò a parlare Robert, la voce incrinata per via del dolore che diventava più insistente, ma per lui era più importante essere vicino all’altro, toccarlo per quel che gli era possibile. Dovette comunque tornare alla sua posizione, sorpreso dall’improvviso gesto di Jimmy che, inginocchiandosi, rifugiò la testa sul suo ventre, come un bambino in cerca del grembo materno per trovare conforto. Così a Robert non restò altro da fare se non lasciare scivolare le dita tra i suoi capelli, mentre quelle di Jimmy si chiudevano a pugno sulle sue cosce.

- Vorrei avere la tua forza, saperla usare come fai tu. – disse, il suono della sua voce soffocato per via delle sue labbra premute contro la maglia del cantante.

- Ce l’hai Pagey, ce l’hai. – disse l’altro cercando di rassicurarlo – Ma prima devi accettare il fatto che non basti a te stesso e che avrai sempre bisogno di qualcuno. – sussurrò, prendendogli il viso tra le mani e costringendolo a guardarlo nuovamente negli occhi – E, fidati, quella merda non serve.

Jimmy non rispose. Si limitò a mordersi il labbro inferiore e ad abbassare lo sguardo con fare colpevole, per poi dire: - Dovrei essere io a sostenerti in questo momento, non il contrario.

- Lascia perdere queste fottute formalità, Page! – disse Robert alzando la voce – Anche io ho bisogno di te, ma non posso riaverti se prima non ritrovi te stesso. – aggiunse carezzandogli le guance coi pollici – Abbracciami, se può servire. Chiudi gli occhi e piangi. Arrenditi, smettila di combattere e lasciati andare. Io sono qui, Jimmy, ci sono sempre, anche quando a volte non posso fare nulla. Tu non mandarmi via e io ci sarò.

Quelle parole esplosero nel petto di Jimmy, mandandogli il cuore in gola e lo stomaco in uno stormo di farfalle, e così si abbandonò di nuovo contro il grembo di Robert.

Pianse.

Pianse tutte quelle lacrime che non sapeva nemmeno perché gli si fossero accumulate sull’anima come granelli di polvere; pianse i suoi fallimenti, come padre e come uomo, pianse il sogno di una famiglia che non era in grado di costruirsi; pianse il successo e tutte le critiche che aveva portato, gli amici che aveva perso e quelli che non riusciva a tenersi stretto; pianse l’amore che provava per un uomo che non era se stesso, pianse il fatto di trovarsi sul suo grembo a frignare come un ragazzino mentre le sue mani gli carezzavano la testa con premura; pianse la Musica e il fatto che non si fosse accontentato di lei per scacciare i demoni.

Fuori, continuava a piovere, ma l’unico rumore che Robert riuscì a sentire era quello delle lacrime di Jimmy che gli bagnavano l’addome; sapeva che il cammino da fare era ancora lungo, ma non importava. Avrebbe aspettato il ritorno di Jimmy fino all’ultimo giorno se fosse stato necessario, scontando ogni giorno le proprie pene e le sue. Aspettò che si calmasse e quando i singhiozzi furono finiti, tornò a parlare.

- Quanto è caro il prezzo da pagare, eh Jimmy?

Il moro girò la testa, poggiandola sull’inguine dell’altro, le ultime lacrime che continuavano a rigargli il volto arrossato.

- Troppo. E credo che siamo ancora in debito col destino, Robert. – sussurrò con voce roca.

Il cantante sospirò, gli occhi persi oltre la finestra. Aveva smesso di piovere.

- Tornerà a splendere, vero? – chiese, la speranza che gli spezzava la voce. Jimmy sollevò la testa, chiedendosi a cosa si stesse riferendo. Poi vide che guardava il cielo ancora cupo, attraversato solo da un pallido arcobaleno.

- Sì. – disse, tornando a guardare Robert – Tornerà. E se così non fosse …

- … io e te ci saremo ancora. – concluse il biondo al posto suo – Lo so. – sorrise.

- Hai sbagliato le parole! – disse Jimmy piegando le labbra in un sorriso sghembo, rivelando tra i denti spazi che prima non c’erano. Robert rabbrividì, ma riuscì comunque a mascherare quell’inquietudine.

- È che certe cose non c’è bisogno di dirle, Pagey. – disse dolcemente, carezzandogli il collo col dorso della mano, per poi risalire e afferrargli il mento con le dita, facendo avvicinare i loro visi.

No, Jimmy. Non te lo dico. So che adori le cose sdolcinate, ma io no. Io preferisco la concretezza, sono così pragmatico che alle parole preferisco sempre i fatti. E dirti che stai male non serve a niente, lo sai. E dirti che sto soffrendo è inutile, sai anche quello. Lo capisco da come mi guardi, i tuoi occhi sono più bravi a parlare della tua lingua. So che hai bisogno di me ed io sono pronto a farti ritrovare. Aspetterò, ma questo te l’ho detto. Scaccerai via questa tristezza, sei abbastanza forte, ma devi capirlo da solo. Io sarò comunque qui, lanterna per il tuo viaggio da eremita. Io non ti lascio …

Persero ogni parola, abbandonandosi all’umido silenzio delle loro labbra che si univano, dei loro sapori che si confondevano, del loro calore che si scambiava. Non più uomini, non più umani. Solo due persone, anime in procinto di unirsi, sentimenti letti tra le righe e sorrisi accennati, cuori sfuggiti al tempo e corpi staccati dallo spazio.

Solo un bacio e un “io non ti lascio” detto sottovoce.



















Angolo della pazza.
Holà.
Sì, sono tornata alla carica con un classicone di questa sezione: le Jimbert depresse.
Ehm, non ho niente da dire, forse perché scrivere questa storia mi ha resa così triste che non riesco nemmeno ad aggiungere un commento.
Quindi fate voi, se vi va.
Un abbraccio,
Franny

   
 
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