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Autore: C h i a r a    15/10/2013    3 recensioni
ispirato alla canzone stay by HURTS.
We say goodbye in the pouring rain
And I break down as you walk away.
Stay, stay.
'Cause all my life I felt this way
But I could never find the words to say
Stay, stay.
Genere: Malinconico, Sentimentale, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sbatto le palpebre per scrollare le ciglia dalle gocce di pioggia. Sono bagnato dalla testa ai piedi. Avrei dovuto portare un ombrello. Lei se ne va con il suo, ma se ne va anche con il mio cuore. Non so come sia potuto succedere, ma se ne sta andando. Avrei dovuto dirle di rimanere, di restare con me, di non lasciarmi sotto la pioggia. Vedo ancora la sua sagoma sotto la luce del lampione, le urlo
«Resta!»
Ormai è troppo tardi. È troppo lontana per sentirmi, o finge di esserlo. L’unica cosa di cui sono certo è che non c’è un minimo di tentennamento, non si gira, continua dritta lungo il marciapiede, senza voltarsi. Non riesco a muovermi, ma mi trascino sul muretto che divide la strada dall’argine del fiume. Le macchine passano davanti a me, qualcuno guarda e vede un uomo zuppo, seduto sull’argine, con lo sguardo perso nel vuoto. Qualcuno penserà che sono pazzo, ma non è così. Sono solo ferito. Mortalmente ferito.
Ho aspettato tutta la vita per dirle quello che provavo, ma ormai è troppo tardi. Avrei dovuto dirle che la amavo, che quando ero con lei tutto sembrava andare per il verso giusto, ma è semplicemente troppo tardi. E pensare che c’ho provato. C’ho provato così tanto a dirle che avevo bisogno di lei, ma non ci sono mai riuscito? Perché? Perché non ho mai espresso a parole quello che provavo? E adesso eccomi senza di lei, ma che posso fare?
Penso al periodo prima di conoscerla. Ero solo, come adesso. Forse peggio, perché lo sono stato per tutta la mia vita, o forse meglio perché non avevo provato cosa significasse aver qualcuno al tuo fianco, non sapevo cosa mi perdevo. Ora lo so. Prima di lei, non avevo nulla verso il quale andare, nulla sul quale appoggiare. Ero in una depressione soffocante, così vicino al rinunciare a tutto, a mollare. Poi arrivò lei. Mi ricordo come ci siamo incontrati.

Camminavo per le vie di San Pietroburgo, solo, senza una meta, com’ero solito fare in quel periodo. Semplicemente camminavo, speravo di incrociare qualcuno che mi desse una ragione di vivere la mia vita. Senza una ragione, guidato dall’istinto, decisi di svoltare l’angolo ed entrare nel primo negozio che avrei trovato. Trovai una panetteria. Entrai e vidi questa splendida ragazza di là dal bancone. Aveva i tipici lineamenti russi, pelle candida, occhi ghiaccio e capelli biondissimi. Nonostante l’aspetto fosse un po’ glaciale, c’era qualcosa in lei, nei suoi lineamenti, nei suoi gesti, nelle sue parole, di caloroso. La prima immagine a cui la collegai fu un focolare in pieno Dicembre. Comprai qualche pagnotta di pane, e lei mi servì con gentilezza, col sorriso stampato sul volto, mentre io la osservavo, sapendo che sarei dovuto uscire, che probabilmente non l’avrei più rivista, perciò divorai la sua bellezza, me la godetti finché potei. Purtroppo giunse il momento di uscire dalla panetteria e quando uscii, insieme al freddo della primavera russa mi colpì la depressione che gravava su di me prima di entrare. Lì dentro i miei problemi erano svaniti, anche se per pochi minuti. Tornai a casa, e passai la giornata davanti al focolare di casa mia, mangiando pane e nient’altro, pensando alla ragazza della panetteria. Quel pane mi sembrò il più buono che io avessi mai mangiato. Se fosse stata l’idea che la ragazza o un suo parente l’avesse impastato e cucinato, o se fosse realmente squisito, questo non lo saprei dire. Quando andai a dormire sognai la ragazza del pane. Insomma,diventò un’ossessione per me. Per diversi giorni cercai di rifare la stessa strada che avevo fatto la prima volta. Ma non ci riuscii mai, ero andato ad istinto, senza prestare attenzione a quel che facevo. Così rinunciai, accettai il fatto che non l’avrei più rivista. Feci la mia solita passeggiata istintiva, senza curarmi di dove andavo, e girato un angolo, trovai la panetteria. Entrai e presi le stesse pagnotte dell’altra volta. Così feci per un mese, ogni giorno. Lei mi accoglieva sempre col suo sorriso radioso, e ogni volta dimenticavo i miei problemi, che tornavano sempre più opprimenti appena uscito. Il trentunesimo giorno, sulla busta del pane ci scrisse qualcosa, quando me la consegnò vidi un nome ed un indirizzo. La guardai con sguardo interrogativo, ma lei mi fece segno di tacere con il dito. Sussurrò
«Mi invii una lettera, le preferisco alle nuove tecnologie.»
«Anch’io.»
Le risposi, sussurrando. Così iniziammo una corrispondenza epistolare.
Nelle nostre lettere ci raccontavamo le nostre vite, i nostri problemi, ma mentre lei parlava  anche dei suoi sentimenti nei miei confronti, io ero sempre vago, non trovando le parole che potessero descrivere appieno l’amore che provavo per lei. Iniziammo a frequentarci, di nascosto. Suo padre era un uomo di mentalità molto chiusa, aveva già trovato un’uomo con cui sposare la figlia, perciò voleva che fosse una cosa segreta, almeno per l’inizio. Ci incontravamo in una bar abbastanza malfamato, in un quartiere di periferia. Lì parlavamo, ci scambiavamo baci appassionati, vivevamo la nostra storia d’amore proibito. Ma ancora non riuscivo ad esprimermi. Quando mi chiedeva cosa provavo verso di lei, le mie risposte erano sempre vaghe e confuse. Lei qualche volta si spazientiva, ma un po’ di baci bastavano a farle cambiare idea. Mi parlava di suo padre, che le faceva sempre più pressioni per sposare quest’altro uomo. Lei insisteva, rispondendo di no. Fino a stasera. È per questo che mi ha lasciato. Per questo se n’è andata. Ha detto che se doveva mettersi contro la volontà del padre, rischiare di perdere tutto ciò che aveva, voleva essere sicura che ne valesse la pena. Mi ha chiesto di esternare i miei sentimenti senza giri di parole, senza divagazioni, senza insicurezze. Non ci sono riuscito. Non ce l’ho fatta. Ho tentennato, e lei se n’è andata. Ora non so che fare.

Ecco, un lampo di idea. La mia vita senza lei non ha senso. Allora perché continuare? Sono qui, seduto su un muretto, dall’altra parte un leggero salto e poi il corso crudele e imperterrito del fiume Neva. Basterebbe una piccola spinta all’indietro e tutto sarebbe finito. Ci impiegherei un po’ prima di affogare, l’istinto di sopravvivenza potrebbe spingermi a combattere, ma so perfettamente che vincerà la forza, o la temperatura gelida dell’acqua. L’acqua vince sempre. Poggio i palmi al muretto. Piego i gomiti. Chiudo gli occhi. I muscoli sono tesi, pronti a dare la spinta che mi farebbe cadere all’indietro.
«3... 2... 1...»
Sento dei passi affannati sulle pozzanghere, ma non apro gli occhi. I passi si fermano davanti a me, e delle dita mi battono sul ginocchio. Aspetto qualche instante prima di aprire gli occhi, mi aspetto di trovarla davanti a me. Apro. E trovo una bimba. Potrebbe essere nostra figlia, ha i suoi occhi ghiaccio e i suoi capelli biondi, ma ha il mio naso a patata e la mia bocca sottile. Ha indosso un impermeabile rosso e un cappellino abbinato. In mano ha un fiore, ormai zuppo, è una margherita. Una semplice e comunissima margherita. Me la tende, io la prendo e la ringrazio. La bambina corre via, provocando una marea di schizzi ad ogni passo, gira l’angolo e scompare.
Questa bambina, questo fiore, mi danno speranza. Mi fanno capire che nulla è perduto. Mi alzo dal muretto, e riprendo per la mia strada, camminando senza meta e senza scopo, semplicemente seguendo il mio istinto.

  
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