Apro gli occhi. Sono viva,
respiro. Mi porto una mano sulla pancia. Non sento nessun liquido
simile al
sangue. No, infatti. La mia mano è pulita. Era solo un
sogno. Manca una
settimana alla Mietitura. Non so descrivere le mie sensazioni. Ansia?
No, non può
essere quella. La mia famiglia non ha mai dovuto chiedere cibo extra
dai
Pacificatori. Il mio nome c’è appena cinque volte.
Quindi, come classificare
una sensazione del genere? Inquietudine. Come se stesse per succedere
qualcosa.
Ma non mi viene proprio in mente niente. Mi alzo dal letto e apro la
finestra
della mia camera. Inspiro l’aria salmastra della spiaggia.
Qui si trova la mia
casa: proprio davanti al mare. Che ore saranno? Forse le sei. Non amo
svegliarmi tardi. Preferisco poter osservare il panorama che mi si para
davanti. Ma soprattutto, voglio vederlo pescare. Ed eccolo,
è sempre lì:
Finnick Odair. Il Sopravvissuto ai 65esimi Hunger Games. Vive nel
Villagio dei
Vincitori, un fantastico quartiere provvisto di ogni lusso.
È posizionato sul
promontorio. Immagino che da lì ci sia un’ottima
visuale. Ma Finnick viene
sempre a pescare davanti casa mia. Ogni mattina. E a me piace
guardarlo. Il
perché, non lo so. Non ci ho mai parlato, in
realtà. Né intendo farlo. So solo
che è un mistero. Nonostante conosca la sua storia a
memoria. Qui al Distretto
4 è una sorta di leggenda. Un tributo che ha fatto la
storia, ecco. Lo vedevo
ogni giorno in tv. Uccideva, pescava, e poi ancora uccideva. Ma mai un
lampo di
gioia o di soddisfazione nell’uccidere gli altri tributi,
anzi. Per avere avuto
all’epoca solo quattordici anni, nel suo sguardo si poteva
leggere una sorta di
compassione, mentre inforcava i suoi avversari con il suo famoso
tridente. E
una volta tornato qui… Niente. Lui non aveva sorriso, anzi.
Sembrava quasi
dispiaciuto di essere tornato. Poi, con il tempo, è tornato
normale: il ragazzo
di quattordici anni che amava fare castelli di sabbia e ridere con i
suoi amici
è l’incarnazione di questo Finnick diciannovenne.
Ma cè sempre un’ombra, su di
lui. Qualcosa che sembra non essersene ancora andato. E
quest’ombra, è messa in
luca proprio ora, su questa spiaggia. So che di tanto in tanto va a
Capitol
City. E ogni volta che torna, si mette a distribuire gioielli e pietre
preziose
ai bambini dei pescatori più poveri, i quali ci giocano come
fossero semplici
balocchi. Non tiene mai niente per sé. È proprio
un mistero. Lo guardo ogni
mattina, appena sveglia. È quasi confortante averlo
lì, nonostante lui non si
accorga del mio sguardo sulla sua nuca bionda. Mi fa sentire meno sola.
Certo,
ho sempre mia madre e i miei fratelli più grandi, ma non mi
capiscono quanto
vorrei. Fare amicizia, poi, è fuori discussione: io sono
“ quella strana”. In
realtà, non faccio niente di male: essenzialmente, dico solo
quello che penso.
Sempre. La sincerità è la mia stranezza. Ma non
ci posso fare niente. Non
riuscirei mai ad essere falsa con qualcuno. O a mentire su qualcosa. Va
contro
la mia natura. Tiro un sospiro mentre mi infilo velocemente i pantaloni
e la
camicia. Dopo la mia colazione, Finnick se ne andrà e io
sarò libera di
scendere per prendere la mia barchetta e controllare se i polipi sono
caduti
nelle mie trappole. Il concetto è semplice: metto delle
anfore vuote dentro l’acqua,
così che si possano poggiare sul fondo. Ad esse vi lego un
filo con una piccola
boa, così da sapere esattamente dove le ho posizionate. I
polipi ne fanno il
proprio rifugio e vi si infilano dentro. Poi, la mattina, mi basta solo
andare
a vedere se le ancore sono piene o no. Ad ogni modo, i polipi sono
molto
difficili da prendere. Me li pagheranno molto bene al mercato. Dopo
essermi
data un’ultima occhiata allo specchio, il mio sguardo si va a
riposare sulla
spiaggia. Non c’è nessuno. Come è
possibile? Finnick se ne va sempre dopo la
colazione. Oggi se ne è andato via prima. La cosa mi lascia
un po’ delusa.
Scendo le scale e apro l’armadio della cucina. Con la coda
dell’occhio, vedo
mamma dormire sul divano. Increspo le labbra in uno strano sorriso.
Tenerezza,
forse. Non saprei proprio. Tiro fuori dall’armadio una
scatola di biscotti e ne
mangio un paio. Alexander si è dato molto da fare per avere
quei biscotti. Ha
dovuto vendere un kilo di sardine fresche fresche. Ma ne è
valsa la pena. Alexander,
poi, è un genio con gli affari. Mio fratello ha
vent’anni, ed è proprio un bel
ragazzo: alto, moro e con due occhi azzurri come il mare. Niente a che
vedere
con me: troppo minuta per la mia età, due occhi
smeraldi e capelli
castani tendendi al rosso. Non sono proprio una classica bellezza del
Distretto
4. Niente a che vedere con le sorelle di Finnick Odair, ecco. Mi infilo
un
giacchetto e apro la porta di casa. Spero solo di non aver svegliato
nessuno.
Ma di solito non succede mai. Mi volto di scatto per osservare il
panorama in
tutto il suo splendore: il mare è calmo e pacato, ma
sull’acqua vi sono piccoli
riflessi dorati di un sole appena sorto. Scendo la duna di sabbia e mi
avventuro nella vegetazione bassa e rigogliosa. Il mio viaggio non dura
tanto:
in men che non si dica sono sulla spiaggia. Ed eccola! La mia barchetta
rossa.
Me l’aveva regalata mio padre. Vi aveva fatto dipingere “ In tranquillo esse quisque gubernator
potest”. Ignoro il significato di
quelle parole. E le ignorerò per sempre. Mio padre era
vissuto tra il lusso e
lo sfarzo: mio nonno era il Sindaco del Distretto 4. Aveva studiato
opere
immortali, alcune di esse anche scritte in questa strana lingua. Ma
ormai non
ha più importanza. Mi aveva promesso che mi avrebbe svelato
il contenuto della
frase una volta compiuti sedici anni. Bhe, ho sedici anni. E lui
è annegato.
Apro il lucchetto della catena che lega la barca a una specie di anello
di
ferro legato a un palo posizionato lì da prima che nascessi.
L’aveva costruito
mio nonno. La confusione dei pensieri nella mia testa non mi rende
attenta e
sussulto, quando sento alle mie spalle:
“ Hey, tu!
Mi volto di scatto,
con un piccollo urlo. C’è Finnick. Finnick Odair.
Non so cosa rispondergli. Mi guarda con fare sfacciato, un
po’ troppo
compiaciuto forse. Io, dal canto mio, mi limito ad osservarlo
imbarazzata.
“ Sei tu la
ragazza che ogni mattina mi fissa, dico bene?” mi domanda.
Ok, questo è troppo. Sento l’umiliazione e
l’imbarazzo crescere dentro di me
ogni secondo di più. Mollo tutto: la barca, la catena, le
chiavi, e, a passo di
marcia, provo a tornarmene a casa, provando a fermare le lacrime di
vergogna. Lui
mi blocca, mettendosi davanti a me. È veloce, molto veloce.
Mi prende le
braccia. Io abbasso lo sguardo. Ma cosa diamine vuole? Mortificarmi?
C’è
riuscito.
“
Hey… va tutto bene, ok? Perché fai
così?” mi domanda. Scuoto la testa.
Sono incapace anche di parlare, tanto sono imbarazzata. Forse
è il momento più
umiliante della mia vita.
“ Volevo
solo sapere chi eri, me lo chiedevo sempre…”
ammette lui.
Lascia le mie braccia. Riesco ad emettere un sospiro e trovo il
coraggio di
guardarlo negli occhi. Ha degli occhi verdi, con lievi sfumature di
castano
dorato. Guardando più attentamente, riesco anche a
distinguere delle
macchioline grigie che circondano l’iride. Mi sorride, ma non
vedo scherno nei
suoi lineamenti, né ira. Sì, posso
percepire… curiosità.
“
Sì, sono io. Mi dispiace davvero, non succederà
più” dichiaro
allontanandomi verso la barca.
“ Aspetta,
aspetta! Non mi dava fastidio, ok? Cioè, puoi continuare a
guardarmi tutte le volte che vuoi!” esclama raggiungendomi.
Gli scocco un’occhiata
carica di rimprovero. Ma chi si crede di essere? Il significato
implicito delle
sue parole non è proprio dei migliori.
“ Ok, forse
così suona molto da ‘ragazzo presuntuoso e pieno
di sé’…
“
Esatto” dichiaro scansandolo e continuando a dirigermi verso
la barca.
Lui non mi segue subito. Sento che è rimasto indietro e il
suo sguardo mi
formicola sulla testa.
“ Come ti
chiami?” mi domanda.
“ Annie.
“ Piacere
Annie. Finnick” mi dice raggiungendomi e tendendomi la mano,
mentre recupero nella sabbia le chiavi. L’afferro in modo
molto sbrigativo.
“ Bene.
Adesso scusami davvero, ma devo andare a vedere i polipi hanno
abboccato!” esclamo spingendo la barca verso il mare. Lui mi
aiuta.
“ Ah, il
classico metodo delle anfore oppure punti a qualcosa di più
elaborato?” mi chiede premendo le sue mani sulla mia barca.
“ Le
anfore. Gli altri trucchetti non funzionano bene come questo”
affermo pensandoci su. È vero che non ne avevo sperimentati
tantissimi… Ma con
le anfore era molto più facile la cosa.
“
Già, penso proprio che tu abbia ragione. Senti…
ti dispiace se vengo
con te?” mi domanda. Ormai la barca tocca l’acqua.
Ci fermiamo. Lo scruto
attentamente. Sì, la barca dovrebbe poter reggere anche il
suo peso, è
sicuramente meno massiccio di Alexander. Ma lo voglio lì con
me? Mica tanto. La
sua presenza mi agita parecchio per motivi a me sconosciuti. Forse
questo
disagio è dovuto al fatto che l’ho visto
ammazzare, scuartare e massacrare
almeno dieci tributi dei 65esimi Hunger Games. Ma il suo volto dice
altro. No,
non è un pericolo per me, glielo leggo negli occhi. E io
sono brava a capire le
persone.
“
Perché?” gli chiedo. Tanto per conferma. Lui mi
indica qualcosa
posizionato a qualche metro di distanza. Una canna da pesca.
“ Mi serve
qualcosa da portare a mia madre. Ce l’hai
l’occorrente per
pulire il pesce, là dentro?” mi domanda.
“
E’ ovvio” sussurro un po’ infastidita
dalla sua domanda stupida. Lui
sorride e corre a prendere la canna. Mi aiuta a spingere la barca e
aspetta che
io sia salita prima di mettersi dentro pure lui. Sto per prendere i
remi, ma
lui insieme: vuole remare lui. E io, in tutta sincerità, ne
sono contenta. È sempre
una faticaccia, soprattutto per chi ha due spalline piccole come le
mie.
Arriviamo alla prima boa. Tiro su l’anfora. È
vuota.
“
Annie… quanti anni hai?” mi chiede nel frattempo.
“
Sedici…” rispondo io mentre ricalo giù
l’anfora.
“ Io invece
ne ho…
“
Diciannove. So tutto di te, Finnick!” replico indicandogli
con il dito
l’altra boa.
“ Oh, spero
proprio di no!” afferma lui ridendo. Ha una bella risata.
Argentina, squillante. Un bel suono, insomma. Sorrido anche io al suono
di
quella risata.
“ Allora,
se sai tutto di me, possiamo anche concentrarci su di te,
no?”
mi domanda. Concentrarci su di me.
“ Mi
dispiace, Finnick, ma ne resterai molto deluso. La mia vita non
è
molto interessante” gli confesso.
“ Oh, fammi
indovinare allora, vediamo se ci prendo!” esclama lui mentre
prendo la seconda boa.
“ Sei la
più piccola della tua famiglia…” mi
dice improvvisamente.
Annuisco. Nel frattempo, vedo dentro l’anfora.
C’è un polipo. Lo estraggo
rapidamente e gli sbatto la testa contro un lato della barca.
“
… ma te la sai cavare benissimo anche da sola, senza
l’aiuto di
nessuno più grande di te!” conclude alla vista di
questa scena.
“ Certo che
sì, Finnick!” dichiaro contenta di aver catturato
la mia
preda. Lo guardo attentamente. Sembra che mi stia studiando.
“ Tu non
hai amici” sussurra. Resto di sasso. Ma come…?
“ E hai
sofferto tanto. È per questo. Hai difficoltà ad
aprirti con le persone,
ma quando lo fai, gli dimostri chi sei veramente, senza censure. La
gente,
allora, si spaventa. Non è facile adattarsi al cambiamento
che fai. Quindi
scappano tutti. È normale, sai? Lo fanno anche con
me” ammette alzando le
spalle. Non riesco a rispondergli. Come diamine fa a sapere…
mi ha capita
meglio lui in dieci minuti che le persone che mi conoscono da una vita.
Non è
possibile. Al mio sguardo stupito, mi risponde con un sorriso radioso.
“ Quando
hai sofferto tanto, impari a riconoscere la sofferenza
altrui!”mi
spiega velocemente Finnick. Abbasso lo sguardo.
“ Ti
riferisci agli Hunger Games?” chiedo in uno sprazzo di
coraggio.
Lui molla i remi ed afferra la canna da pesca.
“ Gli
Hunger Games… e non solo” dichiara gettando in
mare l’amo già
provvisto di esca. Il modo in cui l’ha detto mi fa capire che
la conversazione
è momentaneamente finita. Aspettiamo qualche minuto. In
questo lasso di tempo,
però, non riesco a smettere di fissarlo come una matta.
Scruta l’acqua
attentamente, rilassato però. Si vede che è un
pescatore esperto. Ma ci vuole
una buona dose di fortuna. Appena formulo questo pensiero, ecco che
qualcosa
abbocca all’amo. Certo, che stupida: un essere umano che
riesce a vincere gli
Hunger Games a quattordici anni deve essere per forza fortunatissimo.
Prendo
velocemente il materiale per pulirlo da uno dei cassetti della mia
piccola
barchetta e glielo porgo. È una scatolina metallica,
provvista di un coltello,
una grattugia per levare le squame e una piccola tavola di legno. Le
sue mani
lavorano velocemente: si vede che è abituato. E poi arriva
quel fantastico
momento: Finnick taglia la testa al pesce. Rabbrividisco un
po’. Lui sembra
accorgersene.
“ Ti
dà fastidio?” mi chiede.
“
Sì, em… lascio sempre che siano i miei fratelli a
farlo. Non mi piace
il gesto, non so. Mi spaventa” gli spiego. Spero solo che non
mi abbia preso
per una pazza scatenata.
“ No, eh?
Però non hai paura di allontanarti così tanto da
casa con un
potenziale assassino” afferma improvvisamente. Sento il suo
tono farsi più
cupo. Metto su un sorrisetto nervoso.
“ Tu non mi
farai del male.
“ Come lo
sai? Dici di sapere tutto su di me. Allora sai anche che ho
inforcato esattamente… dieci persone con il mio tridente.
Non sei spaventata?
“ Per
niente. So capire bene le persone.
“ E di me
cosa hai capito?” mi domanda.
“ Che ti
senti molto solo, Finnick” gli rispondo d’un fiato.
Lui smette
di pulire il pesce. Mi guarda negli occhi. Cosa vedo nelle sue pupille?
Paura?
Sgomento? Meraviglia? Non saprei.
“ Sai
Annie… ci hai preso. Ci hai proprio preso”
dichiara ributtandosi
nel suo lavoro. Provo a concentrarmi sull’acqua, ma i
pensieri galoppano
lontani. In silenzio, ritorniamo sulla spiaggia. Mi aiuta a scendere
dalla
barca e la riposizioniamo dove stava prima. Ho messo in una busta il
mio bel
polipo: ci potrò comprare anche il latte, se tutto va bene.
Sto chiudendo il
lucchetto, quando sento:
“
Annie…
Alzo gli occhi.
Finnick Odair mi sorride dolcemente. Cerco di non
arrossire.
“ Dimmi.
“ Grazie per oggi.
E, anche se non potrò più parlare con te, mi ha
fatto
davvero piacere conoscerti” mi dice. Non riesco ad afferrare
il senso delle sue
parole, ma, prima di averle razionalizzate, lui si volta e se ne va.