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Autore: Loreparda    18/10/2013    12 recensioni
Cinque sono i sensi di cui è dotata una persona.
C’è il tatto per toccare, per accarezzare.
C’è l’udito per ascoltare, per cogliere le melodie.
C’è l’olfatto per odorare, per avvertire i profumi.
C’è il gusto per assaporare i sapori, per baciare.
C’è la vista per osservare, per ammirare il mondo.
Ma, le orecchie e il naso possono sentire cose sgradevoli, le mani possono essere usate per picchiare,la bocca per ferire, gli occhi non vedere.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 Honey you should know,
that I could never go on without you.
Green eyes, green eyes,
honey you are a rock upon which I stand.
La pioggia fitta si infrangeva sul vetro della macchina producendo un rumore incessante.
Mi ritrassi contro il sedile dopo lo scoppio di un tuono che mi fece rabbrividire.
Sfregai vigorosamente i palmi sudati delle mani sul tessuto ruvido dei pantaloni blu.
Blu notte li aveva definiti la mamma e a me non era rimasto che immaginarmeli.
Non avrei saputo spiegare il colore che si era figurato nella mia mente e probabilmente non assomigliava nemmeno a quello che era il blu per tutti gli altri, ma corrispondeva alla mia concezione di notte e non poteva essere altrimenti.
Il progressivo rallentamento della corsa della macchina mi fece intuire che, molto probabilmente, eravamo giunti a destinazione e, come a confermare la mia tesi, mio padre scese dall’auto per poi, qualche secondo dopo, aprire lo sportello dal mio lato.
-Dai che ti accompagno fin sotto alla tettoia o ti bagni tutto!- esclamò cercando di sovrastare il frastuono originato dal temporale che via via si faceva sempre più violento.
Poco valsero le mie proteste contro la sua insistenza e non mi restò che accettare il braccio che mi porgeva per raggiungere in fretta un riparo.
Rischiai più volte di perdere l’equilibrio a causa del suolo scivoloso, ma il supporto di mio padre mi impedì di finire a gambe all’aria.
-Tieni!- riprese quello allungandomi con una mano il guinzaglio di Lace che mi affiancò pazientemente strusciando il muso sulle mie gambe e solleticandomi appena.
-Appena hai finito, chiamami che ti vengo a prendere. Non tarderò perché sono qui in zona per delle commissioni.- spiegò affabile e, a giudicare dal tono di voce, sembrava irritato.
Sicuramente la mamma gli aveva imposto mille cose da fare.
-Certo papà.- risposi con naturalezza e ci stringemmo in un abbraccio imbarazzato.
Restai impalato ad ascoltare il rumore dei suoi passi che si andavano ad infrangere nelle pozzanghere.
Poi, una folata di vento intensa mi riscosse e impugnando saldamente il bastone mi avviai verso la scuola di musica.
Lace mi guidava mentre ero impegnato ad evitare gli ostacoli e a contare i miei passi così da non sbagliare strada.
Esattamente al sessantunesimo passo, la punta del bastone si scontrò con una parete.
Allungai una mano tastando il muro e piuttosto velocemente trovai la maniglia che spinsi per poi essere investito dall’aria calda proveniente dall’interno del  locale.
Il profumo alla menta e la melodia di una canzone mi confermarono di essere arrivato nel punto giusto.
 Affidandomi alla guida di Lace arrivai ad un bancone dove la receptionist subito mi assalì.
-Buongiorno signore. Le lezioni tarderanno di qualche minuto perché il suo nuovo istruttore ancora non è arrivato.- spiegò con la voce squillante che  quasi infranse i miei timpani frastornandomi.
Fu impossibile per me non riconoscere quell’accenno di pena nel suo tono e mi irritai all’istante indurendo la mascella e pietrificandomi.
Anche Lace, al mio fianco, fu condizionata dal mio cambio di umore e avvertii la sua agitazione.
Per non risultare scortese, tuttavia, le accennai il solito falso sorriso e ringraziandola mi avviai verso al mia aula privata dove, da più di sette anni a quella parte, mi rifugiavo per qualche ora o, se possibile, per più di mezza giornata.
Salii con sicurezza le scale che portavano al piano superiore e risposi con noncuranza ai saluti degli altri allievi prima di nascondermi tra quelle quattro mura che custodivano quasi tutti i miei momenti di felicità.
Mi accomodai sul solito divano in pelle che si arricciava sempre sotto il mio peso, poggiai il bastone sul tavolino e presi ad accarezzare il muso di Lace che non disdegnò quelle coccole.
Mordicchiai un’unghia e mi torsi le mani dall’ansia.
Ero da subito entrato in sintonia con Mr. Glander quando, da bambino, i miei mi accompagnarono alla sua lezione di chitarra.
Era un tipo schietto ma affettuoso, sapeva farti ridere e due secondi dopo piangere, era simpatico ma anche irritante.
Un tipo particolare che non mi riservava favoritismi solo per la mia cecità e questo non aveva non potuto contribuire all’opinione positiva che mi ero fatto di lui. Scossi la testa maledicendolo per non aver prestato attenzione mentre attraversava distratto un incrocio giusto per andare al negozio di dischi.
La diagnosi del medico era stata categorica: quattro mesi di assoluto riposo senza potersi nemmeno alzare dal letto.
Questo stava a significare che per i prossimi due mesi ancora non sarebbe tornato per le mie lezioni e, dato che il primo maestro mandatomi in sua sostituzione era dovuto partire, la scuola di musica si era adoperata affinché ne avessi uno nuovo.
Ad essere sincero, la cosa non mi entusiasmava più di tanto anche perché non avevo mai amato conoscere gente nuova e rischiare di non sentirmi a mio agio. Iniziai a strimpellare degli accordi con la vecchia chitarra mentre la mia mente vagava libera.
Le mie fantasie furono interrotte dall’abbaiare di Lace e l’aprirsi della porta.
Voltai il capo in direzione del rumore e allertai tutti i sensi per essere pronto a presentarmi.
Dei passi lenti risuonarono nella stanza.
Restai in silenzio in attesa che chiunque fosse si presentasse ma nessuno si presentò e anche i passi si arrestarono.
Mi immobilizzai sul divano, i pugni stretti intorno alla chitarra e il calore confortante di Lace vicino alle gambe.
-Chi sei?- chiesi a testa alta con voce fredda e sicuro di me.
Un respiro si smorzò da qualche parte dinanzi a me e seppi così che quello sconosciuto stava per parlare.
-Sono Chris, il sostituto di Mr. Glander.- ribatté una voce con voce strascicata come se fosse annoiato da tutta quella situazione.
Il ringhio di Lace mi fece sobbalzare e tastai l’aria un paio di volte prima di arrivare a posare la mano sul suo muso per calmarlo.
-Gli animali non dovrebbero entrare qui. Non ne va della rispettabilità dell’istituto?- domandò pochi istanti dopo Chris che nel frattempo  si era spostato dall’altra parte dell’aula.
-Ho il permesso per portarlo qua.- ribattei stizzito come punto sul vivo.
Lo sentii sbuffare e ridacchiare alle mie spalle e mi irrigidii ancora di più.
Mi appuntai mentalmente di chiamare il professor Glander pregandolo affinché tornasse presto a farmi lezioni.
-Non essere teso, pivellino. Hai con te il libro di teoria?- mi riprese quello divertito dalla mia stizza.
-No.- risposi conciso saltando tutti i convenevoli e senza perdere tempo a spiegare che con il signor Glander avevamo da tempo messo da parte il libro.
-Cominciamo bene.- sibilò quello senza premurarsi di abbassare il tono di voce e subito dopo sbuffò.
Lo sentii trafficare alle mie spalle con qualcosa e poi i suoi passi si fecero vicini fino a che non si arrestò alle mie spalle.
-Per  oggi prendi il mio libro e leggimi le note.- ordinò in maniera autoritaria.
-Non posso.- ribattei secco sempre dandogli le spalle.
-Qui sono io l’insegnante. E se dico che tu devi fare qualcosa non hai scelta. Tu esegui e basta!- rispose arrabbiato e scocciato.
-Non posso!- ripetei di nuovo con toni di voce pacati.
-Allora non ci siamo capiti, prendi il libro e leggi!- disse alzando la voce e poggiando il libro sulla mia spalla.
Afferrai stizzito il libro e ruotai le spalle per essere sicuro che potesse guardarmi in volto.
-Io. Non. Posso.-  scandii bene le parole con gli occhi sgranati.
 
Tic-tac, tic-tac, tic-tac: questo era il suono che echeggiava incessantemente nel mio cervello, mentre i miei piedi salivano, alternandosi, la lucida scalinata in marmo di un imponente edificio in stile gotico.
Avrei voluto godere della vista delle pinnacoli, delle guglie e delle statue che ornavano le torri slanciate verso il cielo, ma la consapevolezza del mio ritardo mi impedì di osservare quell'inestimabile patrimonio artistico riadattato in scuola.
Superai l'entrata e le mie narici si inebriarono del pungente odore di menta; mi avvicinai al bancone della reception, stando attento a sfregare le scarpe bagnate sull'apposito tappeto e accennai un saluto alla segretaria con un rapido movimento della testa.
Le suole delle mie Nike sono più asciutte dei boxer. Constatai con ironia, togliendomi il cappuccio della felpa oramai grondante d'acqua.
-Terza a sinistra, primo piano.- mi informò prontamente la ragazza, in riposta ad un mio sguardo interrogativo. -Aspetta da un po'.- non mancò di farmi notare con un tono di rimprovero e un'espressione impietosita.
Annuii e mi affrettai in direzione del piano superiore: altre scale, altra corsa.
Con il respiro affannato e i battiti del cuore accelerati, giunsi di fronte alla porta dell'aula indicatami.
Inspirai ed espirai un paio di volte, poggiai la mano sulla maniglia d'ottone e la spinsi verso il basso.
La lancetta di un metrometro scandiva il tempo ad intervalli regolari, rappresentando l'unico elemento rumoroso in un luogo altrimenti silenzioso.
Vagai con lo sguardo all'interno della stanza in cui mi trovavo, abbracciando il candido bianco presente in qualsiasi angolo, dal soffiato, alle tre pareti e al pavimento.
La parete opposta al punto in cui mi trovavo, invece, era sostituita da un'ampia superficie vetrata, al fine di filtrare, attraverso le tende in parte tirate, raggi di sole sufficienti ad illuminare e diffondere un piacevole tepore all'interno dell'ambiente.
In una giornata non piovosa come questa. Ebbi l'accuratezza di aggiungere mentalmente.
Riguardo all'arredamento, esso era costitutivo da un divano a due posti, rivestito in pelle e situato parallelamente alla finestra.
Un accordo, strimpellato alla chitarra, mi riscosse da più o meno futili pensieri (Avevo con me un ombrello per il ritorno?) e mi riportò alla realtà.
Analizzai il ragazzo, seduto composto e con la schiena curva sullo strumento: fisico asciutto, ricci capelli neri ed abbigliamento sportivo composto da jeans e felpa.
Nel tentativo di avvicinarmi, urtai la porta, che si chiuse in un tonfo, e il musicista si accorse della mia presenza.
-Chi è?- chiese, infatti, sicuro di sé.
-Sono Chris, il sostituto di Mr. Glander.- riassunsi coinciso, dimostrando sin da subito di non essere un amante dei giri di parole.
Il ringhio di un cane, che non avevo notato fino a quel momento, interruppe la nostra presentazione e mi costrinse a spostarmi più lontano possibile dai due.
-Gli animali non dovrebbero entrare qui. Non ne va della rispettabilità dell’istituto?- chiesi infuriato.
In verità, non mi interessava della reputazione della scuola, ma della mia: avevo sempre avuto una fobia per i cani, esseri capaci solamente di sporcare e disturbare.
-Ho il permesso per portarlo qua.- precisò con tono acido.
Non trova una ragazza con cui giocare al dottore e si consola facendo il veterinario al cagnolino? Risi della mia silenziosa battuta.
-Non essere teso, pivellino. Hai con te il libro di teoria?- andai dritti al punto, desideroso di porre fine al più presto alla lezione che avevo accettato di tenere perché me lo aveva chiesto...
-No.- la sua risposta negativa bloccò i miei pensieri sul perché mi trovavo lì.
- Cominciamo bene. - mormorai a voce non troppo bassa, terminando la frase con un sospiro esasperato.
Tolsi lo zaino dalle mie spalle, cercando al suo interno tra spartiti stropicciati e penne dall'inchiostro esaurito, finché non scovai l'oggetto della mia ricerca: un vecchio libro dalle pagine ingiallite e le pagine ricche di appunti.
-Per oggi prendi il mio libro e leggimi le note.- gli ordinai, porgendoglielo.
-Non posso.-
-Qui sono io l’insegnante. E se dico che tu devi fare qualcosa non hai scelta. Tu esegui e basta!-
-Non posso!-
-Allora non ci siamo capiti, prendi il libro e leggi!- lo costrinsi, infastidito dalla sua ostinazione.
Il ragazzo si voltò, permettendomi di osservare i tratti del suo viso.
-Io. Non. Posso.-  Ripeté per la terza volta, sgranando gli occhi.
E allora vidi.
 
***

-Mantieni la nota fino alla prossima battuta.- Seduto al mio fianco Chris mi guidava mentre eseguivo “Green eyes” dei Coldplay.
Lasciai che le mie dita pizzicassero le corde della chitarra e con il piede sinistro tenni il tempo della melodia.
La sua mano si posò sulla mia facendomi sussultare e posizionò in modo corretto le mie dita.
Quando si staccò da me, mi ritrovai ad anelare di poter avvertire ancora quel tocco, di poter sentire i suoi polpastrelli ruvidi sfiorare la mia pelle.
-Così va meglio!- esclamò a bassa voce e avvertii il suo respiro vicino, troppo vicino, tanto da riuscire a lambire il mio collo lasciato scoperto dal maglione.
Rabbrividii cercando subito dopo di camuffare ogni emozione che potesse apparire evidente.
Provai ad ignorare inutilmente l’odore di tabacco mischiato alla vaniglia che traspariva dai suoi abiti.
Quell’odore così acre e allo stesso tempo tenue che si insinuava in me stordendomi e alterando le mie sensazioni.
Intuendo che tutti  quei pensieri non avrebbero fatto altro che distrarmi, mi concentrai solo sulla canzone e sugli arrangiamenti imparati in quella settimana.
-Honey you should know, that I could never go on without you…- La voce roca di Chris giunse alle mie orecchie e trattenni il fiato meravigliato.
Nel  modo in cui io pizzicavo le corde dello strumento producendo la melodia, lui cantando pizzicava le corde della mia anima rendendomi prigioniero.
Mi imposi di non sbagliare nemmeno una nota così da non infrangere la solennità di quel momento. 
Mossi impercettibilmente la gamba arrivando a sfiorare la sua e provocandomi un’ulteriore scarica di piacere.
In un istante vidi passare davanti ai miei occhi  vari momenti delle lezioni che avevamo avuto in quel primo mese.
I primi approcci burrascosi, lui testardo come un mulo, io determinato a non dargliela vinta.
Le sue urla contro di me ogni volta che sbagliavo un accordo, Lace che nel mezzo della lezione lo attaccava abbagliando tutte le volte che si faceva troppo vicino a me.
La decisione di non portare più Lace a lezione per la sua felicità.
Lui impacciato quando se ne usciva con frasi come “Hai visto cosa c’è scritto qui?” o “Guarda lo spartito e suona!”.
Lui che mascherava subito la sua goffaggine con l’arroganza e l’indifferenza.
E io sempre più succube di lui, del suo carattere e dei suoi comportanti.
Io che non riuscivo più a farmi valere e lasciavo correre tutto trovando sempre un qualcosa che lo giustificasse. 
Io che non pensavo ad altro da circa un mese, da quando in quel maledetto giorno era entrato con strafottenza nell’aula e nella mia vita.
-Green eyes, green eyes….- continuò lui sempre con quella voce roca che raschiava il mio cuore stordendomi tutto.
Occhi verdi.
Quante volte protetto dal calore delle coperte mi ero ritrovato a pensare a lui?
Al colore dei suoi capelli, della sua pelle, dei suoi occhi?
Quante volte? 
Troppe.  Troppe per i miei gusti. Troppe volte in cui mi sentivo così destabilizzato da lui che ogni altro pensiero mi sembrava futile.
E me lo ero immaginato in diversi modi.
Castano con gli occhi neri. Mulatto con i capelli a spazzola. Riccio con i piercing sul sopracciglio destro. Con gli occhi azzurri, marroni, grigi. Biondo ma di quel biondo che sembra quasi bianco.
Colori e forme immaginarie che la gente intorno a me nominava sempre lasciando a me il compito di figurarmele.
Ma ogni cosa su di lui appariva banale.
E la mia scelta ricadde su un Chris magrolino con i capelli castani tutti scarmigliati, le labbra carnose e gli occhi verdi. Occhi verdi e grandi. Occhi verdi e grandi e magnetici.
Occhi che immaginai riuscissero a scrutarmi anche l’anima mettendomi a nudo.
Occhi che, il solo pensiero che potessero poggiarsi sulla mia figura, mi rendevano vulnerabile.
Per non parlare del movimento delle sue labbra che nella mia testa appariva sensuale e provocante.
Labbra carnose che si distendevano quando era arrabbiato, che si arricciavano quando qualcosa non tornava.
Labbra che immaginai pronunciassero il mio nome in un sussurro.
Labbra che immaginai potessero accarezzare me, la mia pelle, le mie labbra.
E così, nascosto nel buio della stanza mi ritrovavo a gemere e a darmi piacere da solo.
-Honey you are a rock upon which I stand.- Chris nel frattempo continuava cantare incurante di quello che si stava scatenando in me.
Incurante di come le emozioni si scontrassero con potenza tra di loro affinché riuscissero a venir fuori, ad essere esposte al mondo intero.
Miele. Miele dolce che attira le api. Che attirava me in quella ragnatela senza darmi alcuna via di fuga.
Me prigioniero, me impotente dinanzi a tutto ciò, me completamente vittima del suo fascino.
L’unico appiglio per non crollare.
L’unica luce che rischiarava quel tunnel cupo, freddo e tenebroso che si identificava con la mia vita.
L’unico raggio di sole che mi dava una speranza, che mi spingeva ad alzarmi la mattina dal letto e a raggiungere la scuola di musica con un sorriso sulle labbra, le farfalle nello stomaco e le mani sudate e tremanti per l’emozione.
Ma la vita delle volte fotte.
O forse non solo delle volte, ma sempre.
E tu ti illudi che qualcosa possa andare come tu vuoi.
E ti ritrovi a sperare che per una volta non incontrerai difficoltà, che tutti gli sforzi fatti fino a quel momento possano essere ripagati.
E in silenzio preghi che le cose vadano realmente così.
E invochi il tuo Dio, chiunque esso sia, affinché colga le tue suppliche almeno per quella volta.
E ti illudi ancora. Ogni gesto, ogni parola, ogni silenzio: pura illusione.
Ed io mi illudevo, mi lasciavo abbindolare da Chris.
La prima volta che mi tenne la porta aperta invitandomi ad entrare per primo, quando mi chiese se volessi una tazza di tea, quando rise dopo una mia imprecazione.
La sua risata spensierata che era musica per le mie orecchie.
E da lì era stato breve il passo che mi aveva portato a perdere la testa.
Non c’era voluto molto prima che mi ritrovassi a non capirci più niente e ad avere sempre la mente occupata da lui.
Quel “ciao” farfugliato al termine delle lezioni, le pacche sulla spalla quando riuscivo a portare a termine la canzone da lui assegnatami.
I titoli delle canzoni che sembravano nascondere dei messaggi illusori.
E intanto costruivo castelli per aria, vedevo cose dove non c’erano, dove non erano mai esisti e mai lo sarebbe state. 
E quell’illusione era diventata la mia forza vitale, quell’illusione mi spinse ad azzardare.
Stonai sulle ultime note ma non me ne preoccupai più di tanto.
Lasciai che la chitarra scivolasse via dalle mie gambe atterrando rumorosamente accanto ai miei piedi.
Sporsi una mano in avanti trovando subito la sua spalla e senza pensarci due volte, alla cieca, avvicinai il mio volto al suo.
Zittii ogni sua imprecazione sul nascere e posai le mie labbra sulle sue trovandole calde e morbide proprio come nelle mie fantasie.
Con l’altra mano afferrai il suo collo stringendolo a me e premetti ancora di più come se da quel contatto dipendesse tutta la mia vita.
E in quei pochi istanti mi sentii rinascere, restai lì pieno di vita credendo che fosse la cosa giusta da fare.
Ma tutti i momenti belli sono destinati a finire, ad appassire come dei fiori senza la luce del sole e l’acqua.
Ripresosi dallo stupore iniziale posò le mani sul mio petto spingendomi via, lontano da lui.
E non ebbi nemmeno il modo di difendermi, tant’è che venni scaraventato via dalla sedia su cui mi trovavo e caddi rovinosamente a terra.
Ero passato dalle stelle alle stalle in meno di un paio di secondi.
Prima mi sentivo padrone nel mondo, poco dopo ero lì, inerme, disteso a terra senza alcuna protezione.
-Che cazzo fai? Frocio di merda!- La sua voce furibonda giunse alle mie orecchie e trapassò il mio cuore ferendomi a morte.
Dei passi veloci accanto al mio corpo e poi l’eco della porta che si chiuse con un tonfo che fece tremare le finestre.
Ed io lì.
Immobile, con il cuore a pezzi ed un dolore indescrivibile che mi attanagliava le membra.
Solo, abbandonato, dimenticato dal mondo, da Chris.
E i singhiozzi arrivarono in breve tempo squassandomi il petto, le mani che tastavano il pavimento in cerca di un appiglio.
Un tunnel buio e senza uscita nel cuore e nella mente.

Cos’è un bacio?
La prima volta che mi posi questa problema risale all’età di sei o sette anni, quando sorpresi mia sorella Emma e il suo “compagno di ricerca” in atteggiamenti tutt’altro che amichevoli sul divano del salotto.
Ricordo di essere corso senza farmi scoprire da mia mamma e di averle chiesto preoccupato perché quei due si stessero scambiando la saliva.
Ricordo anche, ora con un sorriso, l’espressione infuriata di Emma dopo che nostra madre irruppe nella stanza e cacciò di casa, minacciandolo con il mattarello che stava usando per stendere la pasta della pizza, colui con il quale mia sorella stava studiando, presumo, anatomia.
Eppure, nonostante siano passati quasi vent’anni da quel pomeriggio, non sono ancora in grado di dare una risposta completa a questa domanda.
Un bacio appare visivamente come un fugace contatto di labbra, ma interiormente questo sfioramento assume le sembianze di un tornado.
Un tornado di emozioni, ecco cosa mi travolse durante il fatto.
Seduto su una panchina dalla vernice scrostata e le travi in parte rotte da qualche vandalo, ripensai all’avvenimento che mi aveva portato a fuggire al parco in una giornata piovosa.
Ma piove sempre in questa maledetta città? Mi domandai, restando comunque sotto le gocce d’acqua che si fanno sempre più insistenti.
Fermo, congelato, incapace di compiere il minimo movimento.
Avevo la sensazione di aver esaurito le energie, anzi che mi fossero state prosciugate.
Prosciugate da un dissennatore, come nella celebre saga d Harry Potter.
Ma a darmi il bacio capace di impossessarsi dell’anima del mal capitato non era stato un personaggio nato dalla fantasia di J.K. Rowling, bensì Guy.
Guy dall’aspetto così giovanile e fragile, ma dalla testardaggine e dalla risolutezza capaci di farmi infuriare e contemporaneamente provare stima nei suoi confronti.
Guy che sussultava al mio saluto, al suono della mia voce, al contatto nelle nostre mani.
Guy a cui avevo gridato “Che cazzo fai? Frocio di merda!” e  avevo lasciato a leccarsi le ferite come un cane trascurato dal padrone.
Lui, proprio lui, che non avrebbe mai abbandonato Lace per un secondo e che però aveva preferito non portare più  a lezione, per me.
Guy che circa un’ora fa aveva avvicinato il suo volto al mio, guidato dall’istinto, e aveva premuto le sue labbra gustose, morbide, inesperte sulle mie, sicuramente meno delicate.
Guy per il quale avevo creduto di provare qualcosa che si avvicinava all’affetto, ma che si era trasformato in disgusto…
Due mani dalle dita affusolate e la manicure fresca di estetista mi oscurarono improvvisamente la vista.
Nero, buio, vuoto, questo doveva vedere Guy, tutti i secondi, i minuti, i giorni della sua vita.
-No!- Gridai, alzandomi bruscamente dalla panchina e scollando la testa a destra e sinistra nel tentativo di cacciare dalla testa l’immagine del bacio. -No, no, no!-
-Amore, tutto bene? Non ti sei fermato a salutarmi alla fine della lezione.- Chiese la ragazza a cui appartenevano le mani, un’espressione sconcertata dipinta sul viso.
Corpo esile e snello, curve al posto giusto, fasciate da jeans taglia 38 e maglione con scollatura a V.
Capelli lunghi e lisci dello stesso colore del cioccolato e occhi della medesima colorazione.
Labbra carnose e dipinte di rosso, in contrasto con i piccoli denti bianchi.
Margot, nonché la segretaria della scuola di musica.
-Non posso più farlo.- le comunicai, omettendo il soggetto.
-Non puoi più fare, cosa?- cercò di capire lei, invitandomi a risedermi sulla panchina e posizionandosi sulle mie ginocchia, le gambe strette attorno ai miei fianchi e il suo viso a pochi centimetri dal mio.
-Guy.- specificai, riferendomi al ragazzo a cui avevo accettato di insegnare perché lei, compassionevole, me lo aveva chiesto.
Si sa, la carne è debole e il completo di pizzo nero che lei indossava quella sera poco casto.
-Cosa è successo questa volta? Ha sbagliato un accordo, dimenticato il libro o, peggio, portato il cane?- ipotizzò Margot, sollevando gli occhi al cielo, pronta a sorbirsi uno dei discorsi con cui la annoiavo quotidianamente.
-Non ho intenzione di sprecare il mio talento dietro ad un bambino privo di talento.- tagliai corto io, evitando il suo sguardo indagatore.
-Sono sicura che non è niente di gra…- le impedii di pronunciare l’ultima sillaba della parola dandole un bacio.
Un bacio pieno di passione, di sentimento e forse di amore.
L’abbaiare di un cane mi costrinse ad aprire gli occhi ed intravidi una figura familiare, che probabilmente aveva udito la conversazione e ora si stava dirigendo verso una strada affollata.
Fui combattuto tra il seguirlo e il restare con Margot.
Feci la mia scelta, perché, si sa, la carne è debole.

 
***
 
La pioggia scorreva su di me.
I vestiti ormai zuppi si attaccavano alla mia pelle, i capelli interamente bagnati si erano afflosciati sul mio volto.
Con le dita tremanti afferrai il guinzaglio di Lace e lo legai alla ringhiera del ponte.
Lo sentii scodinzolare contro la mia gamba come se quello fosse l’ennesimo gioco della sua vita.
Il mio fido amico a quattro zampe che era stato per me una guida in tutti quegli anni e che anche quella volta aveva capito tutto dall’inizio.
Quando fui sicuro di aver fatto un nodo abbastanza decente, accarezzai il muso di Lace augurandogli buona fortuna e ripresi a camminare lungo il marciapiede sorreggendomi al freddo metallo della ringhiera.
Quando mi fui allontanato di qualche metro, presi un bel respiro e con passo incerto scesi dal marciapiede.
Il cuore batteva come fosse impazzito, il rumore assordante della pioggia riempiva le mie orecchie.
Ma niente mi distrasse dalla decisione maturata nel corso della notte e continuai imperterrito ad intromettermi nel traffico londinese.
Camminavo in punta di piedi muovendomi tra i frammenti del mio cuore distrutto, attento a non ferirmi ulteriormente visto che ormai non c’era più alcuna via di ritorno.
Alzai il volto verso il cielo in modo che la pioggia potesse lavare via i segni del dolore dal mio volto.
I clacson dei vari mezzi che mi sfrecciavano intorno diventavano sempre più caotici e frequenti.
Le imprecazioni  degli automobilisti mi rimbalzavano, i guaiti disperati di Lace sembravano così distanti.
E aprii le braccia rivolgendole al cielo e presi ad urlare reso folle dal mio amore non corrisposto.
I singhiozzi alternati alla risata isterica, le mani tra i capelli, la lingua stretta tra i denti.
E poi ancora Lace che abbagliava forsennatamente, gli automobilisti che mi gridavano contro di levarmi dalla strada e il cielo che piangeva con me tutto il mio dolore.
Me e il mio dolore.
Il mio dolore e nient’altro che io, solo e abbandonato al mio destino.
Io, folle e prigioniero d’amore.
E infine il rumore degli pneumatici sull’asfalto bagnato.
Un suono di un clacson più pronunciato degli altri.
L’abbagliare disperato di Lace.
Le grida di una signora.
I  bruschi tentativi  per frenare.
E poi, il silenzio.

 
Grazie a Little liar_. <3
   
 
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