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Autore: Glenda    09/04/2008    5 recensioni
Un ritorno...dopo una lunga assenza...e Reid non ha mai saputo accettare quell'abbandono...(spoiler: si colloca dopo molti mesi dall'inizio della terza stagione)
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Jason Gideon, Spencer Reid
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Dal quaderno dei deliri di Glenda:

 

Aveva immaginato qualcosa del genere.

Non c’era nulla di imprevedibile.

Era stato lontano più di un anno.

Non una lettera, non una chiamata.

Dunque, non c’era niente che non andasse.

Quel senso di imbarazzo, di lontananza, come quando si deve riprendere un dialogo a lungo interrotto, era naturale.

E lui, del resto, lo conosceva bene.

Era così, tutte le volte che sentiva Steven al telefono.

Ma lo sguardo di Reid - quello sguardo distante, estraneo - lo sguardo con cui lo aveva accolto, senza dire una parola, era un muro alto centinaia di metri. Un muro dietro cui quel ragazzo si era sempre nascosto, riparandosi dalle ferite delle sua sensibilità...ma che non era mai stato invalicabile, per lui.

Per Lui...c’era sempre stata una porta, o anche solo un pertugio, attraverso cui Spencer gli permetteva di affacciarsi, di fare parte della sua vita.

E adesso, invece, quella barriera sembrava così spessa, così solida, come i bastioni di una fortezza.

Permetteva  ancora a qualcuno di attraversare quella parete?

Esistevano persone a cui consentiva di entrare nella sua mente, nella sua affettività, senza rinchiudersi nella sua assoluta, deserta solitudine?

I suoi occhi erano così diversi. Così distanti da tutto. Da tutti.

Dove era andato a finire lo sguardo di Spencer che lo aveva colpito dal giorno che lo aveva incontrato: quello sguardo che, pur nella sua insicura elusività, sembrava sempre dire: “ho bisogno di qualcuno che mi comprenda”?

L’idea che non ci fossero più passaggi per stare davvero vicino a Reid...e il solo sospetto che fosse stato lui a sbattersi per sempre quella porta alle spalle...gli facevano paura.

La sua schiena non era più abbastanza forti da sopportare una responsabilità come quella.

 

Hotch appoggiò la mano sulla spalla di Spencer.

“Tutto bene...?”

Il ragazzo stava in piedi vicino alla macchinetta del caffé, fingendo di scegliere una bevanda e rimanendo col dito a mezz’aria sul codice.

“Benone” fece lui, con quella sua espressione talmente finta che fece scappare ad Aron un sorriso.

Non era proprio bravo a recitare.

Nella sala accanto, Gideon stava parlando con Morgan e JJ di semplice quotidianità. Loro gli raccontavano della Strauss, di ciò che era successo dopo che lui se ne era andato, di Rossi. E lui ascoltava, senza dire niente di sé, di cosa aveva fatto in quel lungo anno. Eppure, c’era una tensione che si tagliava a fette nell’aria, ed era proprio il viso di Jason ad emanarla: Hotch lo avvertiva con chiarezza. Chissà perché era tornato. E chissà da quanto lo aveva fatto...quanto aveva aspettato prima di decidersi a venire da loro. Doveva essergli costato molto. Tornare dalla gente che si è lasciata così, senza una parola, era un po’ come doversi mettere a confronto con la durevolezza dell’affetto altrui. E essere pronto anche a sentirsi dire che non c’è più posto.

“Vorrei...andare a casa” disse all’improvviso Reid.

“Forse dovresti aspettare”

Il ragazzo scrollò le spalle.

“Preferisco di no”

“Aspettalo” insisté Hotch “E parlargli con calma, da solo...”

“Chi ti dice che io voglia parlargli?”

Aron fece un mezzo sorriso

“So fare il mio lavoro”

Reid si liberò della sua mano sulla spalla.

“Hai sbagliato profilo” disse seccamente.

Fece un paio di passi, poi si fermò.

“Scusami. Hai ragione, io...” scosse la testa senza voltarsi indietro “Mi dispiace. Voglio andare a casa, ora...”

E si incamminò a capo basso verso l’uscita.

 

Mi hanno accolto con un calore che non mi era nemmeno sognato di desiderare - pensava Gideon. Perché, perché allora aveva la sensazione che andasse tutto storto?

Andiamo, lo sai bene, Jason - gli rispose una vocina fastidiosa dentro di sé - non sei pur sempre un profiler?

Era vero, lo sapeva.

Sapeva che quella dolcezza non serviva a cacciare il suo dolore, non lo rendeva di nuovo uno di loro, un loro compagno, un loro amico. Quella dolcezza lo aveva fatto restare solo l’uomo che era stato via per tanto tempo, ed era tornato da un lungo viaggio.

La dolcezza non lasciava posto all’espiazione.

“Reid...”

Lui si bloccò, e rimase lì, con le chiavi di casa in mano, il braccio a mezz’aria.

Non si aspettava di certo di trovarsi Gideon accanto alla porta.

Resse lo sguardo solo un attimo, poi infilò la chiave nella toppa, senza rispondere.

“Reid...” si avvicinò Gideon, appoggiandogli la mano sul polso “Ascolta...”

Il ragazzo abbassò la testa, rimase un istante in silenzio.

Poi ritirò il braccio, scrollando via la mano di Gideon bruscamente.

“NO” esclamò, secco “Ascolta TU”

Lo fissò dritto negli occhi, e Gideon si rese conto di aver appena valicato un limite da cui nessuno dei due sarebbe potuto tornare indietro.

“Ascolta tu” ripetè, sbattendo un pugno contro la porta.

“Io credo di averti ascoltato anche troppo. Ti ho ascoltato sempre, tutte le volte, come se la tua voce fosse l’unica importante, come se una tua parola valesse sempre la pena di essere conservata con cura. Ti ho ascoltato talmente a lungo, e talmente spesso, da fare di te il mio punto di riferimento. Un punto di riferimento così importante, che quando te ne sei andato ho dovuto lottare per rimanere in piedi, per non perdere la strada. Ma tu, invece, hai mai ascoltato me? No, certo. Io non parlo molto, vero? Non sono bravo ad esprimere i miei sentimenti. Ma tu sei Gideon, il grande profiler, non ti è così difficile leggere la testa della gente!” agitò le mani in aria, in quel modo così suo e al tempo stesso con una rabbia così estranea al Reid che conosceva “Beh, se avessi cercato di leggere la mia, una buona volta, avresti saputo cosa avrebbe voluto dire per me...! Cosa avrebbe voluto dire la tua stra maledetta lettera, cosa avrebbe voluto dire negarmi il diritto a dirti anche solo una parola! Pensi che sia un presuntuoso, vero? Un presuntuoso a pensare che ti avrei convinto: che se mi avessi parlato, saresti rimasto! Oppure avevi paura proprio di questo: di lasciarti convincere?“ si calmò un poco, e spostò gli occhi verso un punto indefinito alla sua destra - dopo averli tenuti - per tutto il tempo - fissi in quelli di Jason “Ma io non avrei cercato di convincerti, Gideon. Non lo penso, almeno. Ciò che credo...è che ti avrei detto una sola cosa. Che prima di riflettere sull’opportunità di continuare a fare o meno il profiler, forse avresti dovuto riflettere sul significato di voler bene a qualcuno...” fece una pausa, nella quale Gideon cercò di trovare di nuovo il contatto coi suoi occhi, ma inutilmente. Adesso, Reid teneva la testa bassa, lo sguardo nascosto sotto i lunghi capelli. Sembrava immensamente triste. “...quando vuoi bene a qualcuno...una madre, un amico, un figlio...e induci quella persona a fidarsi di te, a credere che tu gli sarai accanto, che può chiudere gli occhi e buttarsi, perché tu lo prenderai...in quel momento, tu ti assumi una responsabilità. Ed è una responsabilità più grande dei tuoi drammi sul lavoro, dei problemi esistenziali, delle domande sull’esistenza o meno del lieto fine. La responsabilità che ti prendi per un altro, è più grande di quella che ci si prende per se stessi...perché...Perché se vieni meno alla tua responsabilità verso una persona che si fida...questo gesto...è peggio di ucciderla!”

Non se lo aspettava.

Non si aspettava da Reid parole tanto forti.

E...e sì, sapeva di avergli fatto male...ma non fino a quel punto.

Non fino al punto di risvegliare nel quieto e razionale Spencer una reazione tanto intensa.

Era stupito. Turbato. Ma non si sentiva ferito. Quelle sue frasi...erano quanto di più lontano da una ferita che lui riuscisse a immaginare. Quelle frasi tanto brusche e dirette...erano qualcosa di molto più simile...a una carezza...

“Reid, io sono stato...”

“Un BASTARDO!” esclamò Reid, stringendo i pugni “Un CODARDO E UN EGOISTA! E ora...”

Lo fissò di nuovo negli occhi: erano così lucidi - notò Gideon - che doveva star facendo un bello sforzo per trattenere tutte quelle lacrime.

“...E ora te ne vieni qui, sotto casa mia, con quell’aria da ‘per piacere perdonami’ e mi chiedi di ascoltarti!!! Sai che ti dico? VAI AL DIAVOLO, GIDEON!”

Un sorriso luminoso comparve sul volto di Jason. E per la prima volta nella vita si sentì così profondamente amato, che quell’affetto da solo sarebbe bastato a riempire il resto della sua esistenza. Nessuno lo aveva mai fatto sentire tanto indispensabile. Nessuno gli aveva mai detto “hai la responsabilità di me”. Ora era pronto ad essere accolto. Ora era pronto a farsi perdonare.

Prima che il ragazzo potesse finire di gridare la sua imprecazione - così strana e stonata, se venuta da Reid - Gideon gli fu davanti, lo afferrò per le spalle e lo strinse a sé.

Spencer...

Disse solo. Come se nel pronunciare il suo nome - il nome con cui lo aveva chiamato solo una volta, su quella lettera - potesse trasmettergli tutto l’affetto che provava, e la riconoscenza che gli doveva.

Reid rimase spiazzato per un attimo. Sbattè le ciglia, stordito, mentre sentiva la lana del maglione di Gideon sui palmi delle mani.

Ora, tutte le cose sarebbero andate a posto.

“Jason...bentornato!”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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