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Autore: TaliaAckerman    20/10/2013    6 recensioni
[Revisione in corso]
Il secondo atto della mia personale saga dedicata a Fheriea.
Dal terzo capitolo:
- "Chi hanno mandato?- mormorò Sephirt dopo essersi portata il calice di liquido rossastro alle labbra. – Chi sono i due maghi?
- Nessuno di cui preoccuparsi realmente. Probabilmente due che dovremmo avere difficoltà a riconoscere. Una ragazzo e una ragazza, lei è quasi una bambina da quanto l’infiltrato mi ha riferito. Credo che ormai l’abbiate capito: non devono riuscire a trovarle.
- E come mai avete convocato noi qui? – chiese Mal, anche se ormai entrambi avevano già intuito la risposta.
Theor rispose con voce ferma: - Ho un incarico da affidarvi"
Se volete sapere come continua il secondo ciclo di Fheriea, leggete ^^
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'II ciclo di Fheriea'
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PROLOGO
 
 
 
 




Il mio nome è Dubhne.
Sono nata a est dello Stato dei Re, al confine con la nazione di Tharia. È lì che ho trascorso assieme ai miei genitori i primi sette anni della mia vita. Vivevamo in una piccola casupola vicino al villaggio di Célia e mio padre era un semplicissimo contadino: un lavoro piuttosto difficile per questi tempi. Anche se allora ero troppo ingenua per comprenderlo, le continue alluvioni avevano danneggiato enormemente i pochi appezzamenti di terreno coltivabile, pecore e bestiame erano stati duramente colpiti da epidemie e dalla malaria.
È stato a causa di tutto questo che, quando ho compiuto sette anni, i miei genitori hanno deciso di allontanarmi. Dicevano di aver trovato un modo per sfamarmi e tenermi al sicuro, ma in realtà non so se l'abbiano fatto per il mio o per il loro bene. Non lo so.
Ad ogni modo, un giorno a casa nostra è apparso un uomo, che si è presentato come il signor Tomson, il proprietario di una sartoria nella vicina città di Célia, che mi ha riferito di essere appena diventata una sua dipendente. Ho quindi dovuto separarmi dai miei genitori e seguire il signor Tomson verso Célia il giorno stesso come sua apprendista.
Le giornate di lavoro erano dure, il cibo misero, e tutti gli altri apprendisti della sartoria avevano tutti almeno tre anni in più di me. Mi disprezzavano, mi prendevano in giro, una volta sono persino stata picchiata.
Se non mi sono lasciata morire di fame è stato solo merito di Alesha. Alesha era l'apprendista più anziana della sartoria e aveva quattordici anni. Mi ha aiutata, tenuto compagnia e sostenuta. È stata lei a convincere gli altri sarti a starmi alla larga e lasciarmi in pace. Le devo tutto.
Sono rimasta a lavorare in quella bottega per quasi un anno e mezzo. Mi ero quasi abituata al clima deprimente che si respirava là dentro, e grazie all'affetto di Alesha e alle numerose visite dei miei genitori sono riuscita a tirare avanti.
 
Ma poi è successo.
Mia madre è morta. E Alesha è stata trasferita in una filiale del signor Tomson nell'Ariador.
Da quel momento, mio padre ha cominciato a venirmi a trovare sempre più di rado, e gli altri sarti hanno ripreso a prendermi di mira. È stato allora che ho detto basta. Sono scappata.
In una notte ho raggiunto il bosco vicino a Célia, e il giorno dopo già ero arrivata ad un'altra città. Bisogna anche dire che sono stata fortunata: il signor Tomson non ha mandato nessuno a cercarmi. Questo dimostra quanto fossi insignificante per lui.
Mi dispiace molto per mio padre. È da anni ormai che non lo vedo. Non so neanche se sia ancora vivo. In cuor mio, spero sinceramente che stia bene.

Ho viaggiato a piedi per qualche giorno senza sapere dove andare. All'inizio avevo l'idea di raggiungere Alesha nell'Ariador, ma poi mi sono resa conto che si sarebbe trattato di un'impresa impossibile. Ho avuto paura, tanta paura. Paura di morire di fame, o di essere sbranata da qualche animale selvatico. Di cercare asilo in una delle vicine cittadine vicine non se ne parlava nemmeno, ero troppo spaventata.
 
Ed è a questo punto che è arrivato lui. Il mio salvatore. L'uomo che mi ha ridato speranza.
Mi ha trovata a Chexla, mentre girovagavo per il mercato alla ricerca di qualcosa da mangiare.
Il suo nome era Archie Farlow. Un uomo alto e di aspetto gradevole, con una faccia simpatica. Mi ha chiesto il mio nome e che cosa ci facessi tutta sola nel mezzo di una città grande come Chexla. Non sono riuscita a rispondere e sono scappata via; rievocare tutti i ricordi degli ultimi periodi sarebbe stato troppo doloroso.
Quella notte ho dormito per strada. Non avevo voglia di tornare dei boschi, avevo un disperato bisogno di sentirmi
normale.
L'indomani ho di nuovo incontrato l'uomo del mercato. Mi ha salutata come una vecchia amica e mi ha avvicinato con gentilezza. Questa volta non ho potuto rifiutare. Mi ha accompagnata fino al bordo di una fontana, dove mi ha fatta sedere. Mi ha di nuovo chiesto chi fossi.
E io gli ho risposto. Non ho tutt'ora capito perché, ma sentivo di potermi fidare di quell'uomo. Così gli ho raccontato di me, dei miei genitori e la mia casa. Gli ho raccontato del giorno in cui avevo conosciuto il signor Tomson, e poi ancora Alesha, Shosanna, Dills e i suoi amici. Non ho tenuto nascosta neppure la mia fuga: tutti quegli eventi, quelli lieti così come quelli dolorosi, premevano per venire esternati dopo tutti quei mesi in cui li avevo tenuti solo per me.
Alla fine del mio racconto, l'uomo si è presentato come Archie Farlow, e mi ha chiesto se volevo venire a casa con lui. Mi ha anche detto che aveva due figli più o meno della mia età, che avremmo potuto fare amicizia.
- I soldi non ci mancano di certo - mi ha detto sorridendo.

Sinceramente non ho ancora ben capito come un uomo dignitoso, benestante e padre di famiglia possa chiedere ad una ragazzina fuggiasca e sporca, che per di più neppure conosce, di entrare a far parte della sua famiglia.
Ma allora non mi importava. Avrei fatto qualsiasi cosa pur di non dover tornare nei boschi.
E così ho accettato.

Per me è stato l'inizio di una nuova vita. Archie e sua moglie erano persone gentili, che mi hanno voluto bene fin dal primo momento. E i loro figli Richard e Camm... due vulcani in eruzione, sempre allegri e simpatici come nessun altro io abbia mai conosciuto.
 
Ho vissuto con la famiglia Farlow per quasi nove anni anni, probabilmente il periodo più felice della mia miserabile vita.
Insieme ai due figli di Archie, avevo sviluppato un curioso interesse per la scherma, in cui mi sono dimostrata in breve tempo molto dotata. Io e i due ragazzi ci esercitavamo tutti i giorni con spade di legno. Allora però ero spensierata, ogni taglio o ammaccatura era una stimolante prova da superare e i duelli innocue ed emozionanti sfide.

 
Solo che un giorno qualcuno si è accorto della mia dote.
Un mercante di schiavi, o meglio di Combattenti, che ogni anno partecipava ai Giochi Bellici di Città dei Re. La sfortuna ha voluto che un giorno, mentre era di stanza a Chexla, quest'uomo passasse davanti a casa nostra mentre ero impegnata in un divertente duello con Richard, il maggiore dei figli di Archie.
Io non l'avevo notato, ma il giorno dopo Archie si è presentato a me con un'espressione scura in volto. Mi ha portata in disparte e mi ha spiegato tutto: il mercante di schiavi (Malcom Shist, un nome che odierò per il resto della mia vita), non aveva potuto fare a meno di notare le mie capacità di guerriera, e gli aveva offerto una grande somma di denaro in cambio di me. Come se fossi una merce di scambio.
Che dire, all'inizio ho pensato che Archie mi avesse voluto parlare per dirmi che aveva sonoramente rifiutato. Ma invece, quest'ultimo mi ha riferito esattamente il contrario: cioè che, sebbene molto dispiaciuto, in tempi di crisi come quelli non aveva saputo resistere ad un'offerta così generosa, e che quindi lo scambio era già stato effettuato. E in quel momento mi è sembrato che il mondo mi crollasse addosso. Una scena già vista, in un certo senso. Era la seconda volta in effetti che una persona che amavo mi abbandonava per ragioni economiche, e per di più senza il mio consenso, nelle mani di un perfetto sconosciuto. Ma questo era ancora il danno minore.

I Giochi Bellici di Città dei Re, sono una sorta di feroce competizione, dove i più grandi Combattenti di Fheriea si sfidano in duelli mortali. Una sorta di torneo, dove la posta in gioco è la propria vita.
 
L'indomani ho dovuto abbandonare la famiglia Farlow per andare incontro al mio destino. Malcom Shist era un uomo muscoloso, molto abbronzato, probabilmente proveniente dallo stato dell'Haryar. La sua faccia pareva un pallone di cuoio, qua e là spezzata da profonde cicatrici. E fin dal primo momento la sua vista mi è stata odiosa.
Il saluto ad Archie è stato il più doloroso. Lui era stata l'unica persona che mi avesse mai davvero dato speranza, che mi avesse amato come un padre e mi avesse accudita in modo tanto premuroso. Non è riuscito a guardarmi in viso mentre gli dicevo addio, ma quando l'ho abbracciato spero che abbia capito. Che io l'ho perdonato, nonostante tutte le pene che avrei patito in seguito.
Poi sono partita con Malcom e la sua squadra alla volta di Città dei Re. Ed è stato in quel momento che ho definitivamente abbandonato i tempi dell'infanzia.
 


Città dei Re è la città più immensa che io abbia mai visto. Il palazzi, le abitazioni, le piazze, non sono come a Célia o a Chexla. Qui ogni cosa è immensa, monumentale, le sculture superano i cinque metri di altezza e le strade sono ampie e spaziose come poche nell'intera Fheriea. È stracolma di visitatori e pellegrini per tutto l'anno, e ognuno di loro può essere lì per la motivazione che preferisce: i monumenti più imponenti, i palazzi più maestosi, le biblioteche più antiche. Saltimbanchi, mangiafuoco e acrobati intrattengono la folla agli angoli delle vie e nelle piazze mentre ricche matrone aristocratiche passano accanto a mendicanti addormentati, a volte lasciando loro qualche spicciolo.
Ma per me quella città aveva un solo significato: morte.
 
Per me e i miei compagni, tutti ragazzi e ragazze compresi tra i dieci e i quarant'anni è iniziato il periodo dell'allenamento. Ogni anno i Giochi si svolgono ad inizio estate, ed io sono giunta per la prima volta a Città dei Re che era inverno inoltrato.
La prima combattente che ho conosciuto è stata Claris, una ragazza di diciannove anni con la passione per i pugnali. Era nella squadra di Shist da tre anni ed era sempre riuscita a spuntarla, in ogni singolo combattimento. A diciott'anni anni era addirittura arrivata in semifinale e la fortuna aveva voluto che il suo avversario fosse un suo lontano cugino da parte di madre, che sebbene nettamente superiore a lei, aveva deciso di risparmiarla.
Non siamo mai state propriamente amiche, non come me e Alesha almeno, ma mi ha aiutata a superare i primi difficilissimi mesi da Combattente. Gli allenamenti cominciavano la mattina presto, sempre prima dell'alba, e terminavano quando il sole era già tramontato da un pezzo. Nell'arco di una giornata ci esercitavamo nel combattimento corpo a corpo, nel lancio dei pugnali e nel duelli con le spade e sciabole.
Come ho notato ben presto a mie spese, in mezzo a quei ragazzi addestrati il mio talento di spadaccina non era più che una semplice, piccolissima qualità. Le spade non erano come quelle di legno cui ero abituata, no, erano pesanti, lunghe quasi un metro, con else imponenti e lame affilate come rasoi. Si doveva fare attenzione anche solo a maneggiarle, bastava un piccolo istante di distrazione e ZAF, la lama ti incideva un bel taglio sulle ginocchia.
Ho scoperto invece di essere decisamente abile con la scimitarra dalla larga lama, certamente un'arma meno elegante e letale della spada ma più facile da utilizzare. Infatti, la lunghezza è leggermente ridotta, ma la larghezza raggiunge a volte anche il doppio di quella di una spada. Non c'è certo bisogno di essere dei campioni per ferire l'avversario: basta un stoccata ben assestata o un colpo andato per sbaglio a segno in un braccio, per aprire una ferita ampia e profonda. E poi le sciabole non sono fatte solamente per essere incrociate (arte in cui io sono piuttosto negata); con le sciabole si gioca tutto di gambe, stoccate e colpi laterali. È l'arma che fa per me, adatta al mio metodo violento e un preciso di combattere.
 
Un giorno Shist ci ha portati a visitare l'Arena, il luogo dove si svolgono i Giochi Bellici. Mai ho visto una costruzione così grandiosa. Un edificio a forma di anfiteatro, con mura alte almeno venti-trenta metri, e immense gradinate per far sedere gli spettatori. Il diametro della zona centrale misura circa quindici metri, e il terreno è ricoperto di terra battuta.
E' così che devono vederci i cittadini, i turisti, i grandi nobili locali: un interessante spettacolo da gustare nell'arco di venti, spettacolari giorni.
Vedere quel luogo mi ha fatto venire un groppo alla gola, come se rendesse per la prima volta reale la mia partecipazione a quel terribile torneo. Un nodo che non si è più sciolto fino all'inizio dei Giochi.
 
E allora è iniziato l'incubo vero e proprio. Ci sono voluti due giorni prima che io prendessi parte al primo combattimento. Allora ero spaventata all'idea di uccidere ancor più di quella di venire uccisa, e temevo l'Arena più di ogni altra cosa al mondo.
Qualche giorno prima che la competizione iniziasse, Shist ci ha portati in un magazzino sotterraneo, dove abbiamo scelto l'arma che ci avrebbe accompagnati durante l'intera durata del torneo. Questa è una delle rigide regole dei Giochi: “Ad ogni concorrente è consentito avere a disposizione solamente un'arma, che viene da esso scelta cinque giorni prima l'inaugurazione dei Giochi Bellici; nel caso l'arma in questione venisse distrutta o gravemente danneggiata, il concorrente verrà squalificato”.
 
Prima del mio debutto nel combattimento poi, non c'è più stato il tempo di pensare.
Sentivo la voce del cronista che presentava il mio avversario alla folla, gli applausi scroscianti del pubblico, l'ingresso del primo concorrente - un certo Goresh Fais - come in un sogno.
E poi è toccato a me.
- Dalla squadra di Malcom Shist, Dubhne!- ha annunciato il commentatore.

Forse qualcuno ha applaudito sentendo il mio nome, ma io non sono riuscita a sentirlo. Mi sono alzata con le gambe molli, e l'ultima cosa che ho pensato prima di entrare nell'Arena è stata di star per morire.
La luce mi ha quasi accecata quando ho messo piede nell'area di combattimento. Davanti a me c'era il robusto e agguerrito ragazzo contro cui avrei dovuto combattere, attorno a noi centinaia di persone che ci fissavano. L'atmosfera nel pubblico pareva rilassata, come se le nostre vite non fossero una posta in gioco particolarmente interessante, e dagli spalti si levava un fastidioso brusio.
Poi, il cronista ha gridato:- Che abbia inizio la battaglia!
La folla è esplosa, e io non ho capito più niente. Il mio avversario di è lanciato contro di me brandendo la propria ascia, e io non ho potuto far altro che schivare. Non volevo combattere, non potevo combattere. Al secondo attacco del ragazzo ho cominciato a correre, senza sapere cosa fare. Gli spettatori hanno fischiato, sprezzanti, ma a me non importava. Stavo  cercando di trovare il modo per sopravvivere, nient'altro aveva importanza.
Quando poi però l'ascia del mio avversario mi ha colpita alla spalla portandosi via una striscia di pelle, è accaduta una cosa. Il dolore ha risvegliato in me qualcosa: ero lì per combattere, non per rimanere a piangere in un angolo. Se non mi fossi svegliata sarei morta.
E ho cominciato a contrattaccare. Tutta la rabbia e la paura, unite alla mia abilità con la sciabola, mi hanno permesso di prevalere fin dal principio sull'avversario, e dopo un combattimento lungo e appassionante sono riuscita a strappargli di bocca le parole: mi arrendo!
La folla urlava, e il commentatore stava blaterando qualcosa, ma io non ascoltavo. Io non sentivo. Ho fatto per allontanarmi dal corpo sanguinante del mio nemico, quando ho cambiato idea. Con un unico, veloce movimento, gli ho trapassato il petto da parte a parte.
Ed è stato come se qualcuno avesse improvvisamente riattivato l'audio nella mia vita: ogni singola persona nell'Arena urlava e scandiva il mio nome, e il cronista decantava ai quattro venti quanto strabiliante si fosse rivelata la mia prestazione.
Quella volta qualcosa è cambiato in me. D'un tratto, non ho più provato ribrezzo a stare a contatto con il sangue, non ho avuto più paura di uccidere. Perché uccidere d'ora in poi sarebbe stato il mio lavoro.
 
E da quel giorno, sono diventata... la Ragazza del Sangue.







NOTE DELL'AUTRICE: ehi eccomi qui gente! Avevo promesso che sarei tornata ^^ Lo so, più che un prologo questo è una sorta di riassunto del primo libro, ma era giusto per gli ipotetici lettori che si fossero ritrovati qui senza aver letto "La Ragazza del Sangue". In ogni caso spero che la nuova storia vi intrighi; recensite in tanti, please xD
Talia_Federer

  
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