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Autore: bipolarry    20/10/2013    1 recensioni
Lasciai che il mio braccio si appoggiasse attorno alla sua vita per stringerlo più vicino a me, alzai leggermente il mento per lasciargli un bacio appena dietro l’orecchio, e decisi che avrei potuto riaddormentarmi. Era la mia metà speculare, il mio riflesso, e se fossi stato abbastanza narcisista sarebbe stato la mia morte.
Genere: Angst, Drammatico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Brendon Urie, Ryan Ross
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Would You Kiss Me Or Just Leave Me?





Scivolai accanto a lui sull’altro lato del letto, riuscii a respirare in modo regolare solo dopo qualche minuto, quando avevo ritrovato stabilità mi girai a guardarlo, appoggiai la testa sulla sua spalla e vidi il suo petto alzarsi e abbassarsi  in modo irregolare, “dovresti smetterla si fumare, guardati, sei stanco.” Le mie ultime parole si mischiarono con una risatina, nonostante non riuscissi a vederlo in faccia sapevo che aveva alzato gli occhi, “avanti, se ogni volta devo lasciarti senza respiro mi sentirò in colpa.” Dissi ancora provocandolo, tutto quello che fece fu schioccare la lingua e dire, “sei estenuante, Ryan Ross” e sentii la sua risata. Con le dita iniziai a creare disegni immaginari sul suo braccio, finché non le feci scivolare sulle costole, avanti e indietro, mi persi nel suo corpo quasi perdendo interesse in quello che facevo, lasciai che il mio braccio si appoggiasse attorno alla sua vita per stringerlo più vicino a me, alzai leggermente il mento per lasciargli un bacio appena dietro l’orecchio, e decisi che avrei potuto riaddormentarmi.  Era la mia metà speculare, il mio riflesso, e se fossi stato abbastanza narcisista sarebbe stato la mia morte.
 
Tutti cambiano. Gli uomini, gli animali, l’ambiente, le cose, i sentimenti; e tutti non fanno che adeguarsi ai cambiamenti. È un’arte, quella di adattarsi e di accettare i cambiamenti, che non tutti hanno, devo avere pazienza, me lo ripeto, devo avere pazienza.
Pazienza.
Volevo davvero sputare. Avevo un sapore di ruggine in bocca che mi dava il vomito.
Ingoio.
Le mie nocche urtarono tre volte sulla porta di legno, aspetto una risposta finché non sentii una voce in lontananza: “È aperto!”
Busso, altre tre volte. Stessa risposta, “È aperto, è aperto” non importava, volevo vedere la sua faccia, lui, la sua reazione, i suoi occhi che guardavano prima a destra, poi a sinistra, in cerca di una via di fuga, e c’eravamo ancora una volta, io il cacciatore, lui la preda, lui cerca di fuggire, io vinco sempre.
Busso ancora. Una, due, tre volte.
Sentivo i suoi passi avvicinarsi alla porta.
Ero teso.
Chiudo gli occhi. Inspiro.
Alzai lo sguardo per godermi la visione.
Aveva il telefono poggiato tra la spalla e l’orecchio. Le labbra che erano piegate in un sorriso ampio che scopriva i denti perfetti si chiusero in una linea retta. Gelida. Abbassò le spalle, disarmato. Il telefono cadde. Lo ignora.
Sfoggiai il migliore dei miei sorrisi sadici, maligni. Amavo vederlo spaventato.
Gli avrei dato cinque secondi prima di chiudermi la porta in faccia ed altri tre prima di riaprire e dire qualcosa di patetico.
Cinque. Quattro. Tre. Due. Uno.
Chiuse la porta. Probabilmente avrebbe raccolto il telefono e fatto un respiro profondo per calmarsi.
Tre. Due. Uno.
Riaprì.
“Dove cazzo sei stato, per tre mesi Ryan, tre fottuti mesi.” Fece una pausa. “Cristo, che hai fatto alla faccia?”
Ed eccola, la frase patetica.
Avevo quasi dimenticato di avere la faccia distrutta.
Il mio sorriso si trasformò in una risata, ricca, divertita.
Era lì, a ricordarmi quanto fossimo diversi, quanto in questi tre anni le cose erano cambiate ma noi inspiegabilmente eravamo sempre gli stessi.
Tese il braccio per toccarmi il viso ma per qualche strano istinto di sopravvivenza mi tirai indietro. Si accigliò, lasciò la mano a mezz’aria, indeciso su come comportarsi. Prima che potesse muoversi gli bloccai il polso e restammo a fissarci, in silenzio, sentivo il suo cuore accelerare sotto le mie dita. Paura. Aveva ancora paura di me. Quando lo lasciai quasi sussultò, rimase accanto alla porta e mi fece segno di entrare.
Rientravo in casa nostra, nella sua vita, rientravo nella mia vita.
“Cosa ti è successo?” disse passandomi una birra.
“Alla mia faccia? Oh niente, mi hanno picchiato.”
Si scostò un ciuffo di capelli dietro l’orecchio, in modo compulsivo, lo fece altre quattro volte nei quindici secondi successivi.
“Chi è stato?” Cercava di mantenere la calma ma era terrorizzato, gli tremavano le mani.
“Nessuno.” Mi ero seduto sul divano del salone, era tutto esattamente come tre mesi fa. Non aveva cambiato nulla da quando ero andato via.
“Ryan.”
“Dovevo dei soldi a delle persone.”
Si sedette accanto a me e iniziò a tamponarmi il viso con un asciugamano bagnato.
“Perché non mi hai chiamato?”
L’unica cosa su cui riuscivo a focalizzare lo sguardo erano i suoi lineamenti. Gli occhi castani che avevo imparato a leggere come un libro aperto, le guance pallide e lisce, le labbra piene che arrossivano non appena il freddo arrivava in città. Non appena le mie labbra sfioravano le sue. Sfioravano. Si univano. Si muovevano insieme.
Mi guarda aspettando una risposta.
Ho dimenticato la domanda.
Qualcosa riguardo la mia faccia.
Oh già, perché non ho chiamato.
“Che importanza ha, adesso sono qui.” Alzo le spalle, e la sua risposta è un semplice sospiro.
“Non puoi sparire così, per tre mesi.” Disse dopo un minuto di silenzio.
Si scostò un’altra ciocca di capelli dietro l’orecchio. Non l’avevo mai visto così serio.
“Brendon,” la mia voce sembra più allarmata di quanto non volessi, “faccio quello che voglio. Non devi prenderti cura di me, non devi preoccuparti di dove io sia, se abbia mangiato o se abbia un posto in cui dormire. Non è niente che ti riguarda.” Concludo con un sospiro.
Ci avevo messo ventiquattro anni per liberarmi della mia famiglia, non avevo mai avuto bisogno di qualcuno che si occupasse di me. Non che ne fossero mai stati in grado, ad ogni modo avevo guadagnato la libertà di essere solo, l’indipendenza e il lusso di poter scegliere da solo cosa fosse meglio per me.
Tutto quello che ottenni come risposta fu uno sguardo vuoto, come se fosse stato distratto. “Bren,” riuscii a dire dopo un po’, “non credo di –” non riuscivo a focalizzare quello che vedevo. Mi tremavano le mani, avevo le lacrime agli occhi, tutto andava a rilento, ogni secondo ne durava cinque, ogni minuto durava ore. Sentii la sua mano sulla mia fronte, con l’altra mi accarezzava la guancia, avrei voluto apprezzare quel momento molto più a lungo, avrei voluto che un momento come quello si fosse potuto estendere nel tempo, invece, contro ogni mia aspettativa, mi sentii ancora più debole e persi conoscenza. Lui non c’era più. Io non c’ero più.
 
Riaprii gli occhi in preda alla nausea. Facevo fatica a respirare, ero steso con la faccia affondata nel cuscino. “Mhm..” sospirai, finché non sentii la sua mano sulla mia spalla.
“Come stai?”
Beh come puoi vedere sto benissimo, mai stato meglio.
“Credo di dover vomitare.”
“Ah. Non qui.”
Grazie per l’aiuto Brendon, davvero. Grazie.
Tentai di alzarmi combattendo la nausea, se l’avessi ignorata sarebbe sparita. È così che funziona, se ignori che qualcosa esista, essa cesserà di esistere.
“Hai qualcosa da bere?” chiesi, nonostante stessi per collassare un’altra volta ero ancora troppo sobrio.
“Ryan! Guardati. Non –”
“Okay, perfetto, un no mi andava benissimo come risposta, non c’è bisogno di parlare così tanto.”
“Ryan.”
Non riuscivo a credere che riuscisse a pronunciare il mio nome in tanti modi diversi. Quando mi chiedeva di restare, quando era preoccupato, quando facevamo sesso, quando era incazzato, quando era deluso, quando era confuso con il suono della sua risata, aveva decine e decine di modi di pronunciare il mio nome. Questo era il peggiore, era quello deluso, accompagnato da uno sguardo di pietà. E così gli facevo pietà. Esattamente ciò che ci si aspetta dalla persona che dovrebbe amarti. Pietà.
“Qualunque discorso sulla morale, sulla cosa giusta da fare, sulla mia salute non mi interessa, poche ore e l’avrò dimenticato. Non sprecare il tuo tempo.”
Si accigliò, come se avessi appena stroncato il suo discorso e fosse rimasto senza più nulla da dire. Ma era troppo difficile perfino per me lasciarlo senza parole.
“Dove sei stato questi tre mesi?”
Oh. Se solo riuscissi a ricordarmelo.
“In giro. Qui e lì. Da amici.”
Inventa Ryan, inventa.
“Ry. Tu non hai amici.”
Touchè.
Quel tono sarcastico ad ogni modo non mi piaceva.
“Conoscenti. Persone che mi dovevano dei favori.”
Alzo le spalle come se non ci vedessi niente di male, la pura verità, niente di più vero. Ero ancora in piedi, di fronte a lui che seduto con le gambe incrociate sul divano sembrava ancora più piccolo.
“Davvero? E queste persone che ti dovevano dei favori sono le stesse che ti hanno picchiato? Sai davvero come sceglierti la compagnia.”
Un leggero sorriso che non aveva nulla a che fare con il divertimento affiorò sulle sue labbra.
Non avevo via d’uscita. Voleva sapere cosa fosse successo, io tra le mani avevo poco e niente, vaghi ricordi. Decisamente confusi. Mi ritrovai a sostenere il suo sguardo, e aveva vinto lui, non potevo mentirgli ancora.
Sospirai, staccai i miei occhi dai suoi per concentrarmi sulle mie scarpe, incapace di osservare la sua reazione.
“Non so chi mi abbia picchiato. Non so dove sono stato. Dopo quella sera non avevo il coraggio di ritornare qui.” Se solo pensavo a quella sera di tre mesi fa, quella che mi aveva fatto lasciare la mia vita con lui, che mi aveva portato ad avere la faccia distrutta, sentivo la nausea riaffiorare. “Ho girato per i locali fino alla mattina e sono finito a dormire sui divani delle persone che conoscevo la sera stessa, bastava dire il mio nome e avevo una garanzia, avevo intere case a disposizione ed è andato tutto bene, per quasi tutti i tre mesi ho vissuto in giro, giorno dopo giorno, poi –” poi. Poi come avrei potuto dirglielo? Senza rendermene conto avevo trattenuto il respiro, ero in tensione. “Poi, Bren –” Contro ogni mia aspettativa mi interruppe.
“Poi hai ricominciato, non è vero?”
Riesco a trovare il coraggio di alzare lo sguardo.
“Si.”
Cala il silenzio. Un silenzio che non aveva niente di confortevole, ma non era nemmeno imbarazzato, era un silenzio di riflessione, stava pensando. Probabilmente stava scegliendo il modo migliore per mandarmi a fanculo.
“Ho trovato queste nella tua giacca.” Dice. Solo in quel momento mi accorgo di non avere più la giacca addosso, deve avermela sfilata quando sono svenuto. Caccia dalla sua tasca tre bustine trasparenti. Cristalli di metanfetamina. Cocaina. Un po’ d’erba. Beh, merda.
“Tu non capisci. Non posso smettere, non posso.” Dico. Era tornato quello sguardo pietoso nei suoi occhi. “Dio Brendon basta, basta guardarmi in quel modo! Pensi che non lo sappia? Smettila, non ho bisogno della tua pietà, non ho bisogno di te!” avevo l’affanno come se avessi corso per kilometri, mi dovetti sedere finché il mio respiro non tornò regolare. “Tu non capisci.”
Tutto quello che fece fu accarezzarmi la guancia, pietà, pietà, pietà.
Lentamente voltò il mio viso verso il suo. “A chi devi quei soldi, Ryan?”
“Non devi preoccuparti per me.”
“Rispondi alla mia domanda.” La sua presa sul mio mento si faceva sempre più stretta. Non potevo voltarmi, ero costretto a guardarlo negli occhi, il che rendeva molto più difficile mentirgli.
“Bren, mi fai male.” Cercai di staccarmi dalla sua presa senza alcun risultato.
“A chi devi quei soldi?”
“B–”
“A chi devi quei soldi?”
“Pete. Pete, è stato Pete a darmi la roba.”
Finalmente lasciò la presa. Sospirò.
“Quanto gli devi?”
“Troppo.”
“Ryan, sei un musicista multimilionario, non c’è niente che possa essere troppo per te.”
“Si è preso tutto.” Non avevo più niente, nemmeno un centesimo, niente. E non potevo smettere, no, no non potevo smettere, non avevo più niente e non potevo andare avanti così ma questo era il modo in cui vivevo, alcune persone sono programmate per vivere in un certo modo, e io ero programmato per vivere da egoista solitario ed egocentrico, era nella mia natura, e non puoi cambiare la natura di un essere umano, è qualcosa che non ho scelto io, non mi è stato insegnato, non ho potuto scegliere, è così e basta.
“Di cosa stai parlando?”
“Di chi.” Mormorai.
“Cosa sta succedendo?”
Troppe cose.
Se avesse un’intera vita per stare con me glie le racconterei.  Ma se ignorare qualcosa la rende inesistente, omettere qualcosa ti rende un bugiardo.
E poi, la realizzazione sul suo volto, come se fosse stato improvvisamente catapultato nella realtà. Benvenuto nel mondo.
“Non è possibile.” Mormora. “Non è possibile.” Il tono della voce si alza. “Come ci è riuscito? Cazzo, come cazzo ci è riuscito?” ormai stava gridando.
Mio padre era riuscito a prendersi tutto quello che avevo, un giorno mi sono ritrovato senza un centesimo sulla carta, sono andato in banca e ogni cosa che avevo era magicamente sparita, ovviamente non avrebbe mai permesso che suo figlio gay potesse possedere dei soldi, potesse avere una certa fama, potesse procurarsi le sue fottutissime droghe con i suoi fottutissimi soldi, no, suo figlio non meritava di essere amato da qualcuno, di ottenere quello che voleva e di sentirsi soddisfatto, perché se solo lui avesse voluto, non mi avrebbe fatto mancare niente, e invece sono qui a sudare freddo perché sono in astinenza, tornando a casa dall’unica persona che possa mai aver nutrito un vago sentimento di amore nei miei confronti, ed ancora una volta gli devo tutto, nonostante mi stia uccidendo. “Brendon, non possiamo fare più niente –”
“Chiama il tuo avvocato!”
Non ero sicuro che fosse serio, e questa non è certo la situazione migliore per fare dell’umorismo. “Brendon,” ripeto, cercando di restare il più calmo possibile, “come credi che possa pagarlo l’avvocato? Eh?” stava diventando difficile mantenere un tono composto.
“Io – io non lo so, voglio solo che tu esca da questa situazione, voglio che torni a stare qui. Con me.” Si accigliò come se non fosse sicuro di quello che aveva appena detto.
“Sai a volte non basta volere che un problema venga risolto, a volte devi fare qualcosa.”
“E tu cosa vuoi fare?”
“Non lo so.” Sospiro. “Non sarei qui se l’avessi saputo.” Lo sapevamo entrambi che non ero mai stato in grado di badare a me stesso e che lui teneva a me più di quanto lo facessi io.
“Andiamocene.” Disse dopo un po’. Ed era serio. Era maledettamente serio.
“Cosa?” A volte pensavo che non ragionasse, che dicesse tutto quello che gli passava per la mente senza filtrare alcun pensiero, era pieno di idee folli, diceva si a tutte quelle cose a cui un uomo sano di mente avrebbe detto di no.
“Andiamocene” ripeté. “Andiamo via, dove vuoi tu, scegli un posto e resteremo lì.”
Lo fissai. Mi avvicinai inspirando, era il modo migliore per mantenere la calma. “Bren, Bren, questa faccia” indicai la mia faccia, “questa faccia è su tutti i giornali, album con questa faccia” continuai ad indicare la mia faccia “quegli album sono in tutti i negozi, non posso sparire, non posso far finta di non essere mai esistito e non posso fuggire da un casino come questo.” Non era da me fuggire dai problemi, non era da me chiedere scusa, chiedere un permesso, preoccuparmi per qualcuno, preoccuparmi per me stesso. “Cristo, perché non pensi prima di parlare?”
Non avevo mai smesso di guardarlo negli occhi e fu in quel momento che capii di averlo ferito, diventarono liquidi e iniziarono a tremare. Sapevo che non avrebbe mai iniziato a piangere di fronte a me, quindi non mi preoccupai di fargli delle scuse. “Tu non capisci.” Non so quante volte gliel’avevo detto, ma sentivo il bisogno di fargli capire questa cosa riguardava me, non lui, io ero il centro, lui era solo una delle persone che avrebbe sentito il peso delle conseguenze delle mie azioni, niente di più, e comunque non era un mio problema, non gli avevo mai chiesto di far parte della mia vita, è stata una sua scelta e la vita è fatta di scelte sbagliate, io ero solo una delle tante.
Quella notte non tornò a casa, ero relativamente preoccupato, sapeva badare a sé stesso nonostante la sua ingenuità, continuai a ripetermelo. Fui svegliato dal suono del campanello, mi trascinai fino alla porta, diedi uno sguardo all’orologio della cucina, le nove e mezza, non mi preoccupai nemmeno di chiedere chi fosse, aprii e senza guardare chi stava per entrare girai le spalle e feci per tornare a dormire, ero sicuro che fosse Brendon, invece sentii una voce altrettanto familiare.
“Non sono i migliori dei tuoi giorni, Ross.”
Mi girai e lo vidi con la spalla appoggiata allo stipite della porta, le braccia incrociate, aveva sempre avuto quel colorito mediterraneo, i capelli scuri, gli occhi scuri, una sfacciataggine che sarebbe bastata per tre persone. Ma per qualche strana ragione continuava ad essere il mio migliore amico.
“Gabe.” Dissi, cercando di suonare il meno sorpreso possibile.
“Ryan.” Mi salutò con un cenno della testa.
“Come mai –” ma ovviamente sapeva cosa stavo per chiedergli.
“Brendon ha bussato alla mia porta alle tre del mattino, stava davvero male, credo abbia vomitato sul mio tappeto, figurati io ero impegnato con tre ragazze e non ho potuto chiedergli niente” disse alzando le spalle, come se non fosse nulla di cui preoccuparsi.
“Dov’è ora?” sembravo più preoccupato di quanto non volessi dare a vedere.
“In macchina, continua a dormire e spero solo che non abbia vomitato anche lì.” Sorrise come se la cosa fosse divertente.
Non gli lasciai il tempo di finire la frase che ero già fuori la porta.
“Dammi le chiavi, vado a prenderlo,” dissi, era ancora appoggiato allo stipite, “puoi entrare, fa come se fossi a casa tua, deve esserci del Whisky da qualche parte”  Non si offrì nemmeno di aiutarmi a portarlo su, rimase lì a fissarmi, finché non si convinse ad entrare.
Faceva più caldo di quanto pensassi e Brendon era più pesante del previsto, ma abitare al piano terra aveva i suoi vantaggi. Lo reggevo dalla vita e avevo il suo braccio appoggiato dietro al collo, ogni tanto mormorava parole sconnesse e risatine, quando rientrai in casa Gabe era seduto sul divano e aveva decisamente trovato il Whisky. Si alzò e con un movimento della mano mi salutò e andò via.
Trascinai Brendon rapidamente fino alla camera da letto e lo lasciai lì, aveva bisogno di riposare e smaltire qualunque cosa avesse preso. Un pensiero continuava a vagare nella mia mente, corsi verso la porta e gridai “Gabe!” Abbassò il finestrino per sentire cosa avessi da dire, non so perché ma prima di parlare mi guardai intorno per vedere se ci fosse qualcuno nei paraggi, nessuno. “Tu, tu e Pete.. vi sentite ancora?” non so perché ma mi sentivo quasi colpevole a chiederglielo.
“Certo.” Fu tutto quello che disse.
“Hai qualcosa per me?”
“Ryan, questo non è il momento giusto.”
“Sto impazzendo, devi darmi qualcosa. Gabe. Ho bisogno di quella roba. Adesso.” Devo averlo detto in modo davvero disperato perché in quel momento accettò.
“Ho qualcosa di mio, Pete non deve saperne niente, rimarrà tra noi.” Guardava avanti senza mai incrociare il mio sguardo.
“Sei ancora il mio migliore amico, grazie.”
“Quando vuoi.” E mi guardò in faccia per la prima volta, fece un leggero sorriso “Ci vediamo oggi da me. E tratta meglio quel ragazzo, non è la prima volta che passa la notte sul mio divano.” E mi lasciò facendomi un occhiolino.
Non sapevo bene cosa intendesse, né ero certo di volerlo sapere, ma non mi sarei preso cura di Brendon. Anche se probabilmente era ciò che avevo appena fatto.
Quando tornai in casa lo trovai che dormiva ancora, tremava ed era pallido. Tutto quello che feci fu mettere delle altre coperte. Solo dopo dieci minuti iniziai a sentirmi in colpa, rientrai nella stanza, mi piegai verso di lui e gli diedi un bacio sulla tempia, annusai i suoi capelli e mi sedetti sul bordo del letto, accarezzandogli il collo e i capelli. Non avevo mai provato sentimenti di alcun genere nei confronti delle persone o di me stesso, ma evidentemente con lui era diverso, non mi sarei preso cura di lui perché non era il mio compito, ma mi importava di lui, e che tu lo voglia o meno, finisci sempre per prenderti cura delle persone di cui ti importa. Ad ogni modo avrei negato di essere rimasto qui a controllare il suo stato.
Andai in cucina reclamando il mio Whisky, avevo le mani sudate e continuavano a tremare, dovevo andare da Gabe il prima possibile. Presi un bicchiere dal tavolo ma non appena versai il liquido dorato, mi scivolò dalle mani e cadde lasciando centinaia di schegge sul pavimento. “Merda.” Mormorai. Mi abbassai per raccogliere i pezzi di vetro, e appena alzai lo sguardo trovai Brendon che mi fissava, si guardava intorno confuso.
“Come ci sono arrivato qui?” chiese.
“Ieri notte a quanto pare sei andato da Gabe, e lui ti ha riportato qui stamattina, hai dormito sul suo divano, in macchina, e hai anche vomitato sul suo tappeto.” Lo guardai, sembrava non ricordarsi nulla. “Mi ha aiutato a portarti su.” Mentii.
“Dovrei andare da lui per scusarmi, non credevo che sarebbe andata così –” disse grattandosi il collo.
Lo interruppi. “Devo andare da lui stasera, vieni con me, va bene?”
“uh-uhm” Annuì.
Mezz’ora dopo eravamo in macchina, il silenzio imbarazzante mi stava soffocando, accesi la radio. Riconobbi la canzone dalle prime note. Tonight, Tonight degli Smashing Pumpkins.
 
And out lives are forever changed,
We will never be the same,
The more you change the less you feel,
Believe, believe in me, believe.
 
Amavo quella canzone quando ero piccolo, mormoravo alcune parole e ogni tanto davo uno sguardo a Brendon, aveva la testa appoggiata al finestrino e guardava fuori.
“Quante volte sei stato da Gabe in questi tre mesi?” non ero sicuro di voler iniziare una conversazione del genere.
“Non lo so, non le ho contate.”
“Mi dispiace di essermene andato, ieri sera quando non sei tornato ho avuto paura. No, voglio dire, non ho avuto paura, ero preoccupato. Non sapevo dov’eri e se ti fosse successo qualcosa e a quel punto ho capito che tu devi esserti sentito così per tre mesi e.. e mi è dispiaciuto. Per te.” Era la frase più lunga che gli avevo detto negli ultimi due giorni. Ed era sincera. E avevo avuto paura.
“Pensavo che tu non ti preoccupassi per me.”
“Questo non l’ho mai detto.” Dissi.
“No, ma l’hai pensato.”
Non avevo idea di come ci fosse riuscito ma aveva appena ucciso l’unica conversazione in cui confessavo di preoccuparmi per lui. Ci fu il silenzio un’altra volta.
 
That life can change,
that you're not stuck in vain,
we're not the same, we're different tonight,
tonight, so bright, tonight.
 
“Cosa siamo diventanti?” Disse dopo dieci minuti di silenzio. Non avevo assolutamente idea di cosa stesse parlando.
“uhm..?” fu tutto quello che riuscii a dire.
“Non eravamo così, non c’era mai stato un silenzio imbarazzante tra noi, non siamo mai fuggiti dai nostri problemi e non ho mai dovuto dormire sul divano del tuo migliore amico perché avevo paura che non tornassi più e che mi sarei ritrovato a vivere da solo. Avremmo potuto essere tante cose, avremmo potuto fare tante cose, avremmo potuto vivere tutto questo in un modo migliore, avremmo potuto essere davvero felici” continuava a guardare fuori dal finestrino, stavolta avevo l’impressione che ci avesse pensato bene prima di parlare.
“Non importa quello che avremmo potuto essere, quello che avremmo potuto fare, o avere, quello che importa è cosa sei, cosa hai fatto e quello che hai. Noi abbiamo questo, siamo la conseguenza delle nostre azioni, noi siamo questo.” Dico alzando le spalle.
“Noi non siamo questo.”
“E cosa siamo?”
“Quello che eravamo.”
Ci misi un po’ a capire il suo punto di vista.
Ad ogni modo smettemmo di parlare. E stavolta nessuno ricominciò.
 
We’ll crucify the insicere tonight,
we’ll make things right, we’ll feel it all tonight,
we’ll find a way to offer up the night tonight,
the indescribable moments of your life tonight,
the impossible is possible tonight,
believe in me as I believe in you, tonight.


Arrivammo da Gabe, aveva una ragazza appoggiata alla sua spalla che gli diceva qualcosa nell’orecchio e sorrideva, era decisamente ubriaca, non l’avevo mai vista prima, esattamente come tutte le sue conquiste, le vedevi una volta e poi non le vedevi più.
“Brendon è voluto venire qui per parlarti” dico.
“Uhm.. entrate” si scrollò la ragazza di dosso con un solo gesto, lei mise il broncio e andò via.
Li lasciai parlare, la casa era piena di persone che non avevo mai visto, ma che evidentemente mi conoscevano, per la maggior parte ragazze. La casa era almeno tre volte più grande della nostra, era piena di oggetti di design, e altre cose inutili e appariscenti. In compenso aveva una vista bellissima, era al sedicesimo piano e affacciandoti al balcone potevi vedere tutta la città. Brendon mi raggiunse lì fuori dopo un po’.
“Confermo di aver vomitato sul suo tappeto.” Disse.
Sorrisi, “Tel’avevo detto. Hai fatto un bel casino l’altra sera.”
“Già.”
“Hai una sigaretta?” Chiesi non avendo idea di dove fossero le mie.
“uh, uhm” annuì e mi passò quella che aveva tra le labbra. “È l’ultima, tienila.”
“Dividiamola.” Offrii. E accettò. Restammo in silenzio, e ogni volta che le nostre dita si sfioravano perdevo un battito, mi sembrava di essere tornato alla sera in cui ci conoscemmo, era frustrante allo stesso modo. Avrei voluto dirgli tante di quelle cose che non sapevo da dove cominciare.
Fu lui a cominciare, e sperai che non l’avesse mai fatto.
“Lasciamoci.”
No. Assolutamente no. Non potevo restare solo, non volevo che mi lasciasse, per nessun motivo, ero abituato a stare da solo ma adesso sapevo cosa significava sentirsi amati e no, non c’era modo che tutto tornasse come prima. “Mi stai lasciando?” ed era la domanda più stupida che potessi fare.
“Direi di si.”
“Non lasciarmi.”
Suonava patetico perfino a me, ma era esattamente quello che stavo pensando, e per una volta avevo capito come ci sentiva ad essere lui, a parlare senza pensare, perché non hai il tempo, devi trovare un modo veloce per convincere qualcuno a restare e dici tutto quello che ti passa per la mente, sperando che funzioni, ed era quello che stavo pensando in quel momento, doveva esserci un modo per farlo restare.
Sorrise.
“Non è così facile.”
“Non lasciarmi.” Ripetei, stavolta era più disperato.
“Ryan –”
“Non lasciarmi.” Avevo quella frase nella mente, non volevo che mi lasciasse e doveva saperlo.
Lasciò cadere la sigaretta per sedici piani, poi si girò a guardarmi.
“Lasciami.”
“Cosa?” Non l’avrei lasciato, per nessun motivo, no, era esattamente quello che gli avevo chiesto.
Continuava a sorridere, e più sorrideva più mi faceva incazzare.
“Io non ce la faccio, stare con te è impossibile, ma non posso lasciarti, quindi fallo tu.”
“No.”
“Allora amami. Fa qualcosa.”
Stasera era la serata frasi struggenti o cosa?
“Cosa c’è che non va? Ora, in noi, cos’è che non va bene?”
“C’è che da quando sei tornato non è lo stesso, c’è che –” ma in quel momento fu interrotto.
“Ryan, devo parlarti.” Era Gabe, lasciai Brendon da solo ed rientrai in casa senza dire una parola.
 
Non sapevo se dire tutto a Brendon sarebbe stata la scelta giusta. Ad ogni modo qualunque cosa avessi scelto non sarebbe stata la scelta giusta, io non avevo mai fatto la scelta giusta. Avevo aspettato una settimana e nessun momento mi sembrava giusto per ritornare sull’argomento.
Una mattina era a lavoro e avevo la casa per me, chiamai Gabe. Gli chiesi come avrei potuto dire tutto a Brendon.
“Digli che devi parlargli e poi gli dici tutto.”
“Non so come farei senza i tuoi consigli.” Sentii la sua risata, ci salutammo dicendoci che ci saremo visti quella sera e riagganciò.
Brendon tornò a casa poco dopo, e decisi che ascoltare i consigli stupidi di Gabe per una volta non mi avrebbe fatto male. Non gli lasciai nemmeno il tempo di entrare.
“Devo parlarti.”
Rimase interdetto, si tolse la giacca e aveva quello sguardo pieno di panico e indifferenza che tutti hanno dopo la frase devo parlarti.
“Va bene. Dimmi.”
Rimase in piedi, in mezzo alla stanza, in imbarazzo.
“Ricordi due settimane fa? A casa di Gabe? Eravamo fuori al balcone e tu stavi parlando e lui ha detto che doveva parlarmi e io sono andato via?”
Annuì.
“Okay, adesso ti ricordi due settimane fa? Quando sono entrato da quella porta?” indico la porta alle sue spalle, “Te lo ricordi? Qualcuno mi aveva picchiato, e cazzo ero strafatto, mi hai chiesto chi fosse stato e io non ne avevo idea, a malapena ricordavo chi fossi tu, e dove fosse casa nostra, te lo ricordi?” era fondamentale che lui ricordasse.
“Si, si me lo ricordo.” Era spaventato.
“Bene, l’altra sera Gabe mi ha detto che, che dopo –”
“Calmati.” Disse. Il che mi era praticamente impossibile ma ci provai. Inspirai. Mi avvicinai di più a lui. Abbassai la voce.
“Quando me ne sono andato, tre mesi fa –”
“Non te ne sei andato.”
“Mi hai cacciato, okay? Ma non è questo il punto. Sono stato da Pete, perché Pete mi dava la roba ed era comodo, è stato comodo finché un giorno non sono tornato a casa, e con casa intendo casa, casa mia, quella dove qualcuno come i miei genitori avrebbe dovuto crescermi, ecco, sono tornato lì, ed ero davvero fatto, e volevo tornare qui, con te ma, ma dovevo prima dire a chi abitava in quella casa che quella non era più la mia casa, che la mia casa era questa, perché ti senti a casa solo se sei con qualcuno a cui importa di te, e sapevo che a te importava, non a loro. Quindi la mia casa era con te, e loro dovevano saperlo. Così mi presento alla loro porta e lo dico, giuro che mia madre stava per svenire,” la sua espressione cambiò, era completamente incredulo, “allora a quel punto l’ho detto –” mi interruppe.
“No. Non l’hai fatto.” Mormorò.
“Lasciami finire. L’ho detto a mio padre e dio, mi ha picchiato, ho ventiquattro anni, e mi ha picchiato e, a quanto pare devo essere svenuto perché Gabe mi ha trovato nel giardino sul retro privo di sensi, era stato Pete a mandarlo, gli dovevo davvero un sacco di soldi e voleva accertarsi che non sparissi.” Feci un respiro profondo, come se fosse finita lì, ma poi ricominciai. “Questo è quello che è successo, o almeno questo è quello che Gabe mi ha detto che gli ho detto, capisci? Subito dopo essermi ripreso, devo avergli raccontato tutto, ma ero ancora fatto quindi non so quanto di tutta questa storia sia vero, non lo so, davvero, io –”
“Ryan, sei fatto? Adesso, intendo.”
“No, no, oh dio no, è per quella roba che mi hai cacciato, no, non sono fatto, cazzo no, è il Whisky.” Indico la bottiglia ormai vuota sul bancone della cucina. “È il Whisky.” Ripeto. Più per convincere me stesso che lui.
È Gabe, sono i consigli stupidi di Gabe, volevo dire, ma mi costringo a stare zitto. E dio, era troppo vicino a me, mi era mancato in questi mesi e adesso era lì, avanti a me, e sapevo che le cose sarebbero tornate come prima, lo sapevo.
“Cosa ne hai fatto della roba che ti ha dato Gabe l’altra sera?”
Lo fisso. “Come fai a –”
“Dimmi cosa ne hai fatto.”
Decisi di essere sincero considerando che non avevo nulla da perdere.
“L’ho venduta. Mi servivano i soldi.”
Era strano vederlo rilassato perché mi ero messo a vendere cocaina.
“Mi sei mancato.”
“Si.. anche tu.”
“Mi –” stavolta fui io a non lasciargli finire la frase. Lo avvinai a me tirandolo per la maglietta finché non ci fu distanza tra di noi. Le mie labbra incontrarono le sue per la prima volta dopo mesi, non avevo mai dimenticato il suo sapore eppure in quel momento sembrava nuovo, sentivo le sue dita che accarezzavano la mia nuca, con la lingua tracciai il contorno del suo labbro inferiore, lo sentii sorridere contro la mia bocca, il palmo della mia mano era appoggiato sul suo petto e l’altro braccio gli stringeva la vita, la sua schiena si inarcò leggermente, sentivo il suo cuore accelerare sotto la mia mano, “Ryan” sospirò, il suo respiro caldo contro le mie labbra, tentai di zittirlo baciandolo ancora, funzionò. La mia presa sulla sua vita diventò più forte, non era ancora abbastanza vicino, senza mai staccarmi da lui riuscii a metterlo con le spalle al muro, era bloccato, incollato a me, incapace di fuggire. La mia mano scivolò dal suo petto alla clavicola, fino ad arrivare ad accarezzare la sua nuca, inspirai riempiendomi i polmoni del suo odore di alcol e sigarette, tentò ancora di parlare, si accigliò quando per impedirglielo catturai il suo labbro inferiore tra i miei denti. Sussultò, tese le spalle, un suono di disapprovazione uscì dalle sue labbra, “Ryan” contro la mia volontà decisi di lasciarlo parlare, e staccarmi da lui per quei pochi secondi fu la cosa più difficile che avessi mai fatto. Poggiai la mia fronte sulla sua e lo guardai negli occhi, le sue ciglia sfioravano la mia guancia, “Ry, non posso.” Mi sentii catapultato in un’altra realtà.
“Di cosa stai parlando.” Non era nemmeno una domanda, feci un passo indietro per guardarlo meglio negli occhi.
“Quando sei andato via ho capito molte cose, una di queste è che non voglio più restare da solo.” Disse così a bassa voce che a stento riuscii a sentirlo.
“Io non sono andato via, sei stato tu a mandarmi via.” Dissi senza aspettarmi una replica.
“Beh, ho fatto una cazzata.” Era ancora bloccato tra me e il muro, il che mi dava una certa sicurezza. Come se in qualche modo potessi avere il controllo della situazione.
“Non ti capisco, non volevi che me ne andassi, ma vuoi che vada via ora?” feci fatica a trattenere l’istinto di gridare.
Sapevo che era spaventato, aveva paura dei cambiamenti, delle situazioni che non sapeva gestire, di perdere il controllo della situazione, ed era esattamente ciò che gli avevo costretto a fare.
Inoltre, non sapeva prendere una decisione.
“Cosa vuoi?” continuai.
Aprì la bocca per dire qualcosa ma non uscì nessun suono.
“Cosa vuoi?” Ripetei, “Prendi una decisione, resta, và via, dimenticati di me, non lasciarmi.” Lo guardai negli occhi, aveva le pupille dilatate, avevo la sua completa attenzione, gli occhi spalancati, ciocche di capelli neri che gli cadevano sulla fronte, faceva fatica ad ingoiare, e poi parlò.
“Và via. Vattene. Non voglio più vederti.” Disse, e intanto la sua voce tremava, i suoi occhi diventarono liquidi mentre si sforzava di guardare verso l’alto per evitare che le lacrime sfuggissero al suo controllo. Mi mancò l’aria, ma prima che potessi replicare si avvicinò al mio viso e mi baciò un’altra volta, il mio istinto protettivo mi diceva di non lasciarlo andare, di tenerlo con me, in quel momento, per sempre. La mia presa attorno la sua vita si fece sempre più stretta, era sempre più vicino, combattevamo per prendere aria, aveva le unghie affondate nella mia nuca, e iniziava a fare male, le nostre labbra si staccarono con uno schiocco, inspirò, appoggiò la sua fronte sulla mia e mi guardò negli occhi, “và via, và via, và via.” Era ancora incatenato al mio collo, e la mia presa non aveva intenzione di allentarsi, lo guardai negli occhi “và via.” Sussurrò un’altra volta. Ignorai le sue parole e trovai ancora le sue labbra. 



*angolo dello squilibrio mentale,
ugh premetto che sta roba è stata scritta più di un anno fa, il ryden e il larry sono le mie otp e mi fanno del male e mi portano a scrivere ste robe.
Ovviamente Gabe è quel figo di Gabe Saporta e Pete è quel tipaccio di Pete Wentz. (Rido, Pete nelle mie au è uno spacciatore ^^)
Comunque, l'ho riletta un po' alla cazzo quindi se c'è qualche errore let me know.
Non mi viene altro da dire, grazie per aver apprezzato quest'altra cacchetta, vi voglio tanto bene e niente,
tanto love, *

chris -
 
  
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