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Autore: Patta97    20/10/2013    5 recensioni
- Io... mi sto per sposare - affermò Sherlock.
John guardò il proprio capo come se questi fosse impazzito. - Con… Con chi? – chiese, confuso.
- Con te, ovviamente.

Sherlock Holmes è un irlandese a capo della Consulting Company, mentre John Watson è il suo assistente, aspirante consulente. Il permesso di soggiorno di Sherlock scade e si ritrova costretto a ricattare John per sposarlo.
Note: ispirato al film "The proposal" con Sandra Bullock e Ryan Reynolds
Genere: Comico, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Buonaseeera.
Premetto che, chi mi conoscesse già, sa che io e le long non andiamo d'accordo. Insomma, un giorno mi va di parlare delle pale eoliche e l'altro di hamburger vegani, la mia ispirazione è stabile quanto un grillo che batte i denti (metafora profonda, lo so) e ho il brutto vizio di lasciare le cose a metà. Ma, questa volta, dopo quasi un anno che non scrivo long, ho deciso di cimentarmi in questa, ispirata, come scritto nella descrizione, al film "The proposal", che so a memoria e che mi fa sganasciare dalle risate.
Ora, piccoli chiarimenti: cause di forza maggiore, Sherlock ha 30 anni, è irlandese ed è a capo della Consulting Company; John ha 35 anni, è scozzese (perché non gallese o inglese? because of reasons.) e, dopo aver fallito la carriera da medico, ha deciso di seguire il suo più grande sogno: diventare consulente investigativo! 
Okay, non sembra allettante vista così, ma ho visto prompt ancora più folli in giro (se prendiamo vari fandom e varie lingue), quindi sono perdonata. Spero.
Vi lascio a leggere, se vi va. Un bacio abnorme, buonanotte, vado a ripassare Cesare e Sallustio *ingoia insetticida con fare melodrammatico e depresso*,
Chiara 
 
 
 
 
 
 
 
 
 1. The proposal
 
 
- Sei un maledettissimo psicopatico! Non puoi… Non puoi licenziarmi! Io so, so perché lo stai facendo. Pensi non lo sappia?!
 
- Sì che lo penso e ho ragione…
 
- Ti vuoi solo fare bello agli occhi di Lestrade, perché sei intimorito da me!
 
- Oh, questa è interessante.
 
- Ma sai che ti dico?! Sei solo un dannatissimo mostro senza uno straccio di vita fuori da questo posto. E solo perché hai inventato questo schifoso lavoro credi di poter guardare tutti noi dall’alto in basso! Provo quasi compassione per te, perché vuoi sapere cosa avrai sul tuo letto di morte?! Niente e nessuno.
 
- Hai finito? Bene, allora ascolta con attenzione, Anderson. Non ti ho licenziato perché mi sento intimorito da te, no. Ti ho licenziato perché sei pigro, stupido, incompetente e passi più tempo a tradire tua moglie con Donovan di quanto tu non ne trascorra in ufficio. E se osi dire un’altra parola, John sarà costretto a sbatterti fuori a calci mentre tutti rideranno di te.
 
Anderson lo guardò allibito e ritornò con finta spavalderia nel proprio ufficio a raccogliere le sue cose. Uno sguardo gelido dell’altro e tutti ritornarono a lavoro nei rispettivi cubicoli.
 
- Signor Holmes, come cercavo di dirle prima…
 
- Parla, John.
 
- Lestrade la voleva nel suo ufficio.
 
Sherlock sbuffò, infastidito, imboccando il corridoio a destra.
- Vieni a chiamarmi tra cinque minuti con una scusa qualsiasi.
 
- D’accordo, signor Holmes.
John ritornò al proprio cubicolo, fissando attento l’orologio per non chiamare il proprio capo nemmeno un secondo dopo rispetto quanto stabilito. Ma squillò il telefono.
- Pronto? Ufficio del signor Holmes. Oh, ciao, Harry. Sì, so che la nonna compie ottant’anni questo weekend. Sì, credo di poter venire, se Holmes non mi sommerge di lavoro. Non sono il suo tirapiedi! Ho solo bisogno di quella promozione, questo lo sai anche tu... Ascoltami. È da quando sono bambino che sogno di fare il detective e, se le prediche di papà riguardo la Facoltà di Medicina non sono riuscite a fermarmi, non ce la farà nemmeno un sociopatico iperattivo con manie sadiche. Oh, per l’amor di Dio! Devo andare a chiamarlo, mi aveva detto cinque minuti! Ti richiamo, Harry e… No! Non sono il suo tirapiedi!
Rimise a posto il telefono e quasi volò per i corridoi, bussando infine alla porta di legno lucido con la targa “DI G. Lestrade”.
- Scusatemi, ma il signor Holmes è richiesto…
 
- Vieni qui, John. Ecco quello che ti dicevo, Lestrade. Non può essere come dici tu, perché io mi sto per sposare.
 
John guardò il proprio capo come se questi fosse impazzito.
- Con… Con chi? – chiese, confuso.
 
- Con te, ovviamente – affermò Sherlock con un sorriso stiracchiato e falso, quasi arpionando le spalle dell’altro con un braccio.
 
- Oh. Certo – asserì John, fingendo disinvoltura di fronte a Lestrade, che li guardava come si guarderebbe un mostro particolarmente strambo e brutto.
- Questo è meraviglioso e… inaspettato. Soprattutto dopo tuoi precedenti, ecco… pareri sulle relazioni sentimentali – disse il DI, cauto, come se temesse di offendere l’assistente consulente. - Ma se prima non mettete in regola tutto, il problema rimane, Sherlock.
 
- Ma non sono mica un alieno! Vengo dall’Irlanda, non dalla Luna!
 
- Lo so questo, anche se non ne sono del tutto convinto…
 
Sherlock sbuffò e si avvicinò alla scrivania, lasciando la presa sulle spalle di John, il quale sospettò si sarebbe ritrovato un livido dove prima stavano serrate le dita del suo capo.
 
- …Ma se non legalizzate, dovrai lasciare il paese e darò il tuo posto ad Anderson.
 
- Ma l’ho appena licenziato!
 
- Sherlock. Ho deciso così: sposatevi e tutto ritorna alla normalità.
 
- Va bene. D’accordo. Adesso io e John andremo all’ufficio immigrazione e risolveremo la cosa, alla svelta – concluse e uscì dall’ufficio come una furia.
 
- È stato un piacere, signore – mormorò John, filando via sotto il cipiglio un po’ divertito e un po’ compassionevole di Lestrade.
Trovò Sherlock già seduto comodamente nel proprio ufficio, le mani giunte e poggiate alle labbra.
Ci volle un po’ prima che si accorgesse di lui, impalato di fronte alla scrivania di vetro.
- Oh, John. Ci hanno chiamato per un caso?
 
- Non esattamente, no.
 
- E allora che vuoi?
 
- Lei ha appena riferito all’Ispettore Lestrade che noi due stiamo per sposarci.
 
- Problemi?
 
- In effetti sì, ne avrei qualcuno.
 
- Capisco: “non sei gay”.
 
- Già.
 
- Questo non è rilevante. Ti stavi conservando per qualcuna?
 
- Mi piace pensarlo, sì.
 
- A me piace pensare questo: se non accetti, verrai licenziato. Non da me, ovviamente, sarò già via. Ma Anderson prenderebbe le redini di questo posto e, prima di mandare a monte tutto questo lavoro dal basso della sua idiozia, ti licenzierebbe perché ce l’ha con te quanto con me dopo la scenetta di poco fa. Quindi tu accetterai, altrimenti i tuoi sogni di fare il piccolo detective svaniranno. E tutti quei casi ai limiti dell’assurdo, tutte quelle scartoffie e tutte quelle notti a correre dall’altra parte di Londra per venire a porgermi il cellulare o la penna… saranno state inutili.
 
John lo osservò allibito e impotente.
- Ma ci potrà essere qualcosa da fare! Suo fratello. Suo fratello Mycroft fa parte del Governo. Non può sistemare le cose?
 
- Mio fratello sa fare tre cose nella vita, John. Mangiare torte, scatenare guerre e avere il visto sempre fresco di stampa. Come vedi, togliermi dai guai non è di sua competenza, non più.
 
- Capisco. Antiche rivalità tra fratelli.
 
- No, non capisci. E non mi aspetto che tu ci riesca. Adesso andiamo.
 
- E dove?!
 
- Ma mi ascolti? All’ufficio immigrazione, John.
 
*
 
Appena entrati nell’edificio, John rabbrividì di fronte alla fila chilometrica che serpeggiava fino allo sportello. Questo prima di vedere che Sherlock la stava superando senza degnarla di uno sguardo per andarsi a piazzare di fronte all’impiegato, con lui che gli arrancava dietro tentando di farsi il più piccolo possibile.
L’uomo dietro il vetro sporco non fece una piega.
- Mi dica.
 
- Ho bisogno che mi compili questo visto di fidanzamento.
 
L’altro diede un’occhiata pigra al foglio per poi alzare lo sopracciglia, stupito, e lanciare un’occhiata a Sherlock. - Signor… Holmes?
Questi annuì, spiccio.
- Mi segua, prego – disse, uscendo da una porticina e guidando i due attraverso i corridoi stretti e le porte anonime. Si fermarono davanti a una di queste.
- Accomodatevi. Il signor Stamford arriverà a momenti – li informò, per poi tornare da dove era venuto.
 
John, cercando di mantenere la calma, si sedette su una della due sedie di alluminio di fronte alla scrivania in formica, occupata in ogni centimetro da scartoffie varie, tranne che per due spazietti utilizzati da un computer portatile e una lampada nera.
Sherlock, invece, rimase in piedi a scrutare tutto con uno sguardo di sufficienza.
 
- Buon pomeriggio – salutò l’impiegato, facendo il suo ingresso nella stanzetta claustrofobica e sedendosi sbrigativo dietro alla scrivania. – Scusate per l’attesa, ma oggi siamo davvero pieni.
 
- Non si preoccupi, la capisco – John sorrise debolmente.
 
- Benissimo. Avrei una domanda da farvi. State commettendo una frode per evitare che il signor Holmes venga espulso perdendo il proprio posto di lavoro come consulente investigatore alla Consulting Company?
 
Seguì una pausa carica di silenzio e tensione, dopo la quale, fortunatamente, Sherlock decise di calarsi in una parte gioviale - e finta.
- È ridicolo, davvero! Dov’è che l’ha sentita questa?
 
- Vedete, c’è stata…
 
- Oh, capisco. Una soffiata telefonica a nome di un certo Anderson?
 
- Esattamente.
 
- Le chiedo scusa per il comportamento di questo mio ex-collaboratore. Ma adesso, chiarito che questa non è altro che una bugia, potremmo passare alla procedura standard, dato che lei ha parecchio da fare oggi.
 
L’ufficiale sorrise, alzandosi con l’indice gli occhiali rotondi sul viso paffuto. – Si sieda, signor Holmes.
 
Sherlock si irrigidì. – Veramente io…
 
- Sarà ben che lieto di accettare il suo invito, sì – finì John, tirando l’altro per un lembo del cappotto finché non si fu seduto accanto a lui, rigido.
 
- Perfetto. Adesso vi illustrerò come si svolgerà il tutto…
 
- Mi sono informato. Prima ci metterà in due stanze separate e ci farà domande l’uno dell’altro che solo in una coppia si possono sapere. Poi andrà fino in fondo, controllando tabulati telefonici e consultando vicini di casa e amici… Piuttosto noioso e lungo, direi. Mettiamola così: se io dicessi di sapere che lei ha una relazione con la sua collega ventenne che lavora nello stanzino accanto, la stessa ragazza che è fidanzata col suo superiore, signor Stamford? Direi che si potrebbero evitare tutti queste noie burocratiche e…
 
- Ah ah. Lo scusi, signor Stamford – si affrettò a bloccarlo John, notando il colorito violaceo di chi gli stava di fronte. – Al mio… ehm… fidanzato piace scherzare con le sue abilità. Prego, ci dica come si svolge la procedura come se lui non l’avesse interrotta.
 
L’ufficiale smise di guardare Sherlock fra il cagnesco e il preoccupato e riprese a parlare, non senza una nota di cinismo. – Il signor Holmes ha detto correttamente. Ha omesso però che, se le risposte non combaceranno, lui verrà espulso dalla Gran Bretagna a tempo indeterminato e lei, signor Watson, avrà commesso un reato punibile con una multa salata e una detenzione fino a cinque anni.
John deglutì, le unghie che gli penetravano la carne del palmo delle mani.
- Allora, John. C’è qualcosa che mi vuole dire?
 
L’altro lanciò un’occhiata fugace a Sherlock, il quale rimaneva impassibile, per poi riportare lo sguardo sull’ufficiale, che adesso sembrava divertirsi un mondo. Decise in fretta.
- Signor Stamford. La verità è che… Sherlock e io non abbiamo parlato a nessuno della nostra relazione a causa della grossa promozione a consulente investigatore, suo socio e pari, che sto aspettando. Noi abbiamo pensato fosse inopportuno che io venissi promosso mentre eravamo, sa… coinvolti sentimentalmente.
 
- Ah, capisco. Almeno le famiglie sono state informate del vostro “amore segreto”?
 
- Io non ho famiglia. Solo mio fratello è in vita e non parliamo mai di queste… cose – Sherlock si morse la lingua prima di dire “sciocchezze”.
 
- Anche lei è in possesso di fratelli così interessati? – ironizzò Stamford.
 
- Beh, mia sorella Harry…
 
- Sorella?! – Sherlock lo interruppe col suo borbottio per poi continuare al posto suo. – Comunque no, non sono informati nemmeno lei e suo padre. Ma la sua cara nonnina compie ottant’anni e noi andremo da loro, nel weekend, a dare il lieto annuncio.
 
- Bene. E dove andrete?
 
- Nel paese d’origine di John, ovviamente. In Scozia.
 
Stamford si mostrò interessato. – Scozia, sì. E quale parte della Scozia, signor Holmes?
 
Sherlock si irrigidì. – È il tuo paese d’origine, John. Perché non ne parli tu? – sollecitò l’altro.
 
John, che stava ridendo sotto i baffi alla vista di un alquanto raro - se non unico - “Sherlock Holmes che tentenna”, si riscosse.
– Dartmoor. È un ridente villaggio di fronte l’arcipelago delle Shetland.
 
- Capisco. Perfetto, allora… - scribacchiò qualcosa su un post-it giallo e si alzò dalla sedia, porgendolo a John. – Vi do appuntamento lunedì mattina alle undici. Spero che le risposte combacino - socchiuse gli occhi con aria di sfida.
 
- Combaceranno – sorrise Sherlock affabile, annodandosi la solita sciarpa blu al collo e uscendo immediatamente.
 
- Arrivederci – salutò John per entrambi, seguendo l’altro fuori dalla stanza.
 
Il suo capo lo stava aspettando fuori l’edificio, accanto alla porta scorrevole.
- Dunque, faremo così – iniziò a spiegare mentre camminava. - Andremo a Dartmoor, ci fingeremo fidanzati e diremo che stiamo per sposarci. Occupati tu dei biglietti e, mi raccomando: prima classe. Non voglio capitare di nuovo vicino a un bambino che frigna per tutto il volo per motivi inutili come mangiare o bere o… John, mi stai ascoltando?
 
L’assistente, tra lo scosso e l’incredulo, smise di camminargli dietro e gli puntò l’indice contro.
- Ma ha sentito quello che ha detto? Potrei dover pagare una multa di non so quante sterline e finire in galera per cinque anni!
 
- Ma ti prospetta una promozione, davanti. Direi che avrai anche tu dei vantaggi dopo il tuo insulso stratagemma, mio “socio e pari”.
 
Rimasero per un attimo a fissarsi nel mezzo della piccola isola pedonale, la gente indaffarata che passava loro accanto donandogli spallate involontarie fra la calca.
 
- Va bene. Okay, lo farò. Ma a una condizione.
 
- Un’altra, bene – sbuffò Sherlock, sarcastico.
 
- Me lo devi chiedere – rivelò John, passando al “tu” senza rendersene conto.
 
- Non dirmelo. Vuoi cercare di umiliarmi nel bel mezzo di Londra facendomi recitare una tanto sdolcinata quanto finta proposta di matrimonio?
 
L’altro annuì, sorridendo, facendo andare il proprio sguardo dal marciapiede al volto di Sherlock.
- Sto aspettando.
 
Sherlock chiuse gli occhi per un attimo, pregando che le telecamere a circuito chiuso di suo fratello fossero puntate in qualsiasi posto che non fosse lui o ciò che stava per fare. Si inginocchiò di fronte a John a schiena dritta e con le braccia lungo i fianchi, le mani che reggevano l’orlo del cappotto in modo che non sfiorasse terra sporcandosi.
- Sono in ginocchio davanti a te per non farti pesare la nostra differenza di altezza. Mi dispiace solamente non poter fare nulla per farti sentire più intelligente, oltre che più alto. E adesso ti chiedo, John Hamish Watson, amore mio, unica ragione della vita che non ho, vorresti diventare il mio adorato marito?
 
L’assistente lo fissò sardonico dall’alto, non scalfito dalle offese.
- Sì – disse infine, quando fu certo che le ginocchia dell’altro avevano iniziato a far male. – Non ho apprezzato molto il sarcasmo, ma va bene. Ci vediamo domani in aeroporto – disse a mo’ di saluto, avviandosi. – Ti mando per e-mail gli orari del volo!
 
- Ti ringrazio – commentò acidamente Sherlock quando l’altro era ormai lontano, alzandosi da terra, spolverandosi il cappotto e iniziando a camminare dalla parte opposta.
 
*
 
Quando il segnale di tenere le cinture allacciate si spense, John prese dalla propria borsa di pelle a tracolla un fascicolo foderato in blu, iniziando a sfogliarlo.
- Perfetto – annunciò dopo qualche minuto. – Direi che so rispondere alla maggior parte di queste domande su di te, se non a tutte… Tu dovrai sfruttare al meglio un’ora e venti di volo e i prossimi quattro giorni, nonché appigliarti a tutte le tue “abilità deduttive”, per fronteggiarne almeno la metà.
 
Sherlock, il quale fino a un momento prima stava guardando fuori dal finestrino, sicuramente riconoscendo ogni singolo paesino che sorvolavano, gli strappò improvvisamente i fogli dalle mani.
 
- Ma prego… - borbottò l’altro, anche se abituato.
 
- Saprò sicuramente rispondere a tutte queste domande – sentenziò, dopo aver lanciato una rapida occhiata al fascicolo e gettandolo malamente in grembo a John.
 
- A tutte, eh? Che musica mi piace? Che libri leggo? Che telefilm guardo? Come è morta mia madre?
 
Sherlock rimase in silenzio, incerto.
 
- Vedi, la tua “scienza della deduzione” non può nulla contro questo.
 
- E tu invece sapresti rispondere a queste stesse domande su di me?
 
- Credo proprio di sì.
 
- Che musica mi piace?
 
- Hai un violino a casa, quindi direi classica.
 
- Che libri leggo?
 
- Chimica, anatomia e anche filosofia: la tua libreria ne è piena. Nessun romanzo, specialmente se storici, o riviste di alcun genere.
 
- Che telefilm guardo?
 
- Polizieschi, per predire il colpevole prima dei detective. Ti ho trovato un sacco di volte appollaiato su quella tua poltrona a farlo, quando vengo a porgerti il cellulare che sta nella tua tasca.
 
Sherlock lo squadrò, quasi oltraggiato e con addirittura il fiatone per il veloce botta e risposta.
- Perfetto, allora. Come è morta mia madre?
 
Toccò a John rimanere senza parole. - Questo non posso saperlo!
 
- E mio padre, allora?
 
- È la stessa cosa! Queste sono cose che, se non me ne parli tu, sono impossibili per me da sapere.
 
- Beh, se sei così saputello sul mio conto, dovresti conoscere anche queste risposte, John – concluse l’altro con un sorrisetto soddisfatto, sistemandosi meglio sul sedile, facendo aderire la schiena. – Adesso fammi trascorrere il volo in pace.
 
- Benissimo – commentò John a denti stretti, anche se felice di aver battuto Sherlock Holmes in astuzia. Quasi subito, l’assistente si assopì, il capo reclinato all’indietro sul poggiatesta del sedile.
Dopo una quantità indefinita di tempo, si sentì scuotere la spalla sinistra prima piano, poi con ben poco garbo. Aprì gli occhi e trasalì, trovando il volto del proprio capo accigliato e a pochi centimetri dal proprio.
- Sherl… cioè, signor Holmes… Cioè. Cosa succede?!
 
- Non me lo hai chiesto, però.
 
- Chiesto cosa?!
 
Sherlock sbuffò. – Quando eravamo all’ufficio immigrazione, ieri, hai detto “mia sorella Harry” e io ho esclamato “sorella?!”, ma tu non mi hai chiesto spiegazioni.
 
John lo guardò come se fosse ammattito, prima di rendersi conto di quanto l’altro fosse serio.
- Bene. Perché hai esclamato “sorella?!”?
 
- Pensavo avessi un fratello. La prima volta che ci siamo visti, al tuo colloquio di lavoro, oltre ad aver dedotto i tuoi precedenti studi alla Facoltà di Medicina dal tuo modo di parlare e che vivessi lontano dalla tua famiglia in Scozia dal tuo accento e dal modo in cui era stirato il colletto della tua camicia… Ho anche pensato tu avessi un fratello, alcolista, tra l’altro, perché il tuo cellulare ha squillato e mi hai chiesto il permesso di rispondere. Cosa alquanto insolita che, primo, tenessi il cellulare acceso durante un colloquio talmente importante per te e che, secondo, invece di scusarti e spegnerlo in fretta, chiedessi addirittura di rispondere. Una fidanzata, pensai? Sicuramente avresti terminato la chiamata per poi farti perdonare dopo, quindi certamente no. Un fratello, magari. Cosa che confermai quando, alzandoti ed avvicinandoti alla porta, sentii le tue parole “Harry, tutto bene? Il medico ti ha prescritto il Naltrexone?”. Quest’ultimo farmaco, come di certo saprai, è suggerito agli alcolisti, in quanto riduce drasticamente il desiderio di bere. Ora, tua sorella è un’alcolista?
 
- Ex. Ex alcolista.
 
- Quindi, come vedi, avevo ragione tranne che sul sesso e, adesso che ho soddisfatto la tua curiosità, potresti chiarire la mia? In quale mondo bigotto dei genitori dovrebbero chiamare loro figlia Harry, nome prettamente maschile?
 
- “Harry” sta per “Harriet”. È un diminutivo.
 
Prima che Sherlock potesse ribattere, la voce melensa dell’assistente di volo squillò dagli altoparlanti. “Avvisiamo i gentili passeggeri che l’atterraggio all’aeroporto di Inverness è previsto tra dieci minuti. Vi preghiamo di ritornare ai vostri posti e di allacciare le cinture. Le temperature a terra sono di circa 5 °C…”
 
- Inverness? La nostra meta non è Dartmoor?
 
- A Dartmoor non ci sono aeroporti – chiarì John. – Dovremo arrivare a Inverness e poi prendere un treno fino a Thurso.
 
- Oh, ma certo… - borbottò l’altro. – Ah, e comunque: se qualcuno te lo chiede, andremo a vivere da me.
 
- Perché?
 
- Perché tu vivi in un monolocale in subaffitto a Wembley e io in un attico al 221B di Baker Street, mi sembra logico. E adesso allaccia la cintura, non hai sentito la hostess?
 
*
 
Durante le prime due ore di viaggio in treno, Sherlock si chiuse dentro la sua solita trance riflessiva e poi trascorse i restanti sessanta minuti rivelando via messaggi a Lestrade le soluzioni del loro ultimo caso, le dita che scorrevano velocissime sulla tastiera dell’iPhone.
John ne approfittò per pensare davvero a quello che stava facendo: lui non era gay. E stava per portare a casa da sua sorella, sua nonna e suo padre il proprio capo, spacciandolo per la sua nuova ed impellente passione amorosa con cui sta per sposarsi. Sua sorella non era un problema, in fondo: lei aveva dichiarato la proprio omosessualità alla famiglia da quando aveva quindici anni e nonna Hudson… diciamo che era molto liberale per queste cose. Il vero problema era suo padre, il quale si era chiuso a riccio dopo il cancro e la successiva morte della madre di John, dieci anni prima. L’assistente consulente non era del tutto certo di quanta approvazione avrebbe ricevuto da lui, una volta arrivato a casa.
Il treno si fermò sferragliando alla stazione e John guardò fuori dall’ampio finestrino, trattenendo a stento una risata: la nonna e Harry saltellavano sulla banchina, tenendo in alto un piccolo cartello con su scritto “Ben tornato, Johnny” a caratteri cubitali.
Recuperò la propria valigia dalla rete sopra i sedili e diede un colpo al braccio di Sherlock per farlo scuotere, per poi catapultarsi fuori dal vagone con un sorriso enorme e sincero sul volto.
Harry lo stritolò in un veloce abbraccio e lui fu felice di non sentirle addosso nemmeno un vago sentore di alcol. Fu poi il turno di nonna Hudson, la quale gli scompigliò i capelli, affettuosa.
- Quindi? Dov’è il tuo fidanzato? – chiese la ragazza. – Che poi, detto fra noi, Johnny, ma ti ho sempre detto che secondo me eri gay… E poi ovvio che gli facevi da tirapiedi! Eri innamorato di lui! Oh, sei così dolce, fratellino!
 
- Smettila di blaterale, Harriet. Di’ un po’, tesoro. È carino?
 
- Nonna! …Allora, John. Lo è? E’ carino? Non mi hai mai mandato una sua foto e quelle su internet sono così sfocate… Oh, eccolo!
 
In effetti, Sherlock aveva sceso le scale di ferro del treno e stava incedendo verso di loro.
- Per tutte le rape, se è carino! – commentò la nonna, ammirata.
 
- Fratellino, sto pensando di diventare etero solo per lui. Senza offesa eh, anzi è un complimento…
 
- Buon pomeriggio – salutò Sherlock, algido come sempre, ma sforzando il proprio volto in un leggero sorriso.
 
- Oh, ha il fascino del bel tenebroso. E che voce, tesoro! Non oso immaginare quando…
 
- Sì, nonna, ho capito! – John interruppe immediatamente i sussurri della donna al proprio orecchio, sorridendo poi all’altro che stava impalato e confuso di fronte a loro.
 
Ma nonna Hudson insistette. – Come dobbiamo chiamarti, caro? Psicopatico iperattivo? Strambo maniaco? Oppure…
 
- Sociopatico, non psicopatico. E comunque “Sherlock” andrà più che bene – la fermò il consulente, lanciando poi un’occhiata truce al proprio assistente.
John, allora, batté le mani per dissimulare l’imbarazzo e rivolse un sorriso enorme alla sorella e alla nonna.
– Bene! Dov’è la macchina?
 
*
 
Il tragitto in macchina fu silenzioso dopo i numerosi e vani tentativi di Harry di intavolare qualche conversazione. Sherlock si era limitato a rispondere a monosillabi – inspiegabilmente anche di fronte a domande elaborate e contorte – per poi ritornare taciturno, guardando insistentemente la brughiera o le valli o i pascoli fuori dal finestrino.
John pregò che si dimostrasse più cordiale davanti a suo padre, il meno disposto di tutti ad accettare quella storia. Dopo un po’ di pianura e campagna desolate, l’assistente consulente riconobbe il familiare paesaggio delle casette periferiche di Dartmoor. Percorsero tutta la strada principale del paesino, sfilando accanto agli edifici.
E fu guardando i nomi dei negozi che Sherlock capì che la famiglia di John possedeva tutte quelle attività commerciali e forse il paese stesso. Lesse l’ennesimo “Watson’s Burger” ed afferrò il cellulare dalla tasca del cappotto, non riuscendo più a trattenere il proprio disappunto.
John sentì il telefono vibrare contro la coscia e lo prese. Si accigliò vedendo il nome del mittente.
- Sei serio?
 
L’altro si portò un indice alle labbra per intimare silenzio e fece un cenno col mento verso l’apparecchio dell’assistente. L’aspirante consulente sospirò rassegnato e lesse il messaggio.
 
Non mi avevi detto di essere ricco. Nessun indizio che confermasse una tesi del genere. Pensavo fossi povero. –SH
 
Dovrò pur mantenere qualche segreto, almeno fino alla prima notte di nozze.
 
Sherlock ripose il telefono e sbuffò, infastidito.
Fortunatamente, superate le case, il viaggio non durò molto ancora e Harry spense la macchina in un parcheggio ghiaioso a qualche metro da quello che sembrava un ranch per cavalli.
John avvicinò un ragazzo che era venuto loro incontro.
- Henry, ciao! Quanto tempo! – salutò, stringendogli la mano e dandogli una pacca sulla spalla.
 
- John! – sorrise l’altro di rimando.
Sherlock si accorse che aveva strani tic alle mani e respirava in maniera irregolare e pesante: sicuramente qualche trauma legato all’infanzia.
 
- Ci prepari un calesse?
 
- Subito! Prendo il vecchio Hound.
 
Il consulente investigativo si avvicinò all’assistente. - Hound?
 
- Un cavallo.
 
- Questo l’avevo dedotto. Ma perché dovremmo andare in calesse a casa tua?
 
- Vedi laggiù? – John indicò un punto lontano col braccio teso.
 
- Certo che no. C’è la nebbia.
 
- Beh, casa mia è lì, sulla scogliera. Mio padre non ha voluto costruire strade per arrivarci, solo i cavalli. Mia madre li adorava.
 
Henry ritornò tenendo per le briglie un cavallo nero con gli occhi iniettati di sangue. Harry gli fece un buffetto sul muso lungo, prima di aiutare il ragazzo a legarlo ad un calesse di legno lì vicino, con aria esperta.
 
- Allora, piccioncini? Andiamo? – sollecitò nonna Hudson, arrampicandosi sul sedile come se stesse per compiere vent’anni e non ottanta.
Sherlock e John si riscossero dalla contemplazione della nebbia perlacea e si sedettero a loro volta sulla panca posteriore, mentre Harry prendeva posto accanto alla nonna dopo aver dato una mano all’artiere a caricare i bagagli dal cofano dell’auto al monta pacchi sul retro del carro.
- Henry, tu non ci raggiungi alla festa?
 
- Mi piacerebbe, ma ho tanto da fare qui e…
 
Il consulente smise di ascoltarlo, venendo improvvisamente colto da un velo di panico, e afferrò con rinnovata foga il cellulare dal cappotto.
John, scorto il movimento con la coda dell’occhio, prese il proprio ancora prima che vibrasse.
 
Chi aveva parlato di una festa? Non sono pronto a conoscere tutti i tuoi ridicoli parenti e amichetti delle medie. –SH
 
Tralasciando gli insulti, non ne sapevo nulla nemmeno io. Sarà stata un’idea di Harry per il benvenuto.
 
Almeno servirà per dire a tutti che sei gay e stai per sposarti con me. –SH
 
Ogni cosa a suo tempo. 
  
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