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Autore: Yoko Hogawa    22/10/2013    16 recensioni
« Fammi vedere il tuo identificativo » disse dunque Sherlock.
Il robot, in silenzio, gli allungò la mano sinistra. Il bambino se la rigirò fra le mani e lesse i caratteri scritti all’interno del polso, in un blu intenso e ben visibile.
SBAT-5/PROTOTYPE [JOHN].
« Special Biobehavioural Android Type 5, prototipo » Sherlock tradusse. « John » aggiunse poi.
« John? » domandò l’androide.
Il bambino annuì. « Il tuo nome » assentì. « Sei decisamente un nuovo modello, John » aggiunse poi.
[android!lock AU]
Genere: Drammatico, Science-fiction, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: Sherlock e tutti i suoi personaggi non mi appartengono ma sono © di Arthur Conan Doyle e dei Mofftiss. Non guadagno niente dallo scrivere fanfic se non il piacere personale di infestare il fandom, impegnare le nottate e far passare le pene dell’inferno ai suddetti personaggi. Anche perché, se ci guadagnassi, probabilmente sarebbe il mio lavoro già da un po’.
 
Note: questa fanfic ha bisogno delle sue note perché non è totalmente frutto della mia immaginazione.
Prima di tutto, un ringraziamento speciale a Fusterya che ha deciso di linkarmi Software Malfunction, una fanfic android!lock del fandom inglese su cui non ho potuto trattenere le lacrime e che, di base, mi ha ispirata. Consiglio a tutti di leggerla.
Il secondo ringraziamento speciale va a PapySanzo89 che, chiacchierando, mi ha fatto tornare in mente L’uomo Bicentenario. Per non parlare del concetto di John robot, la prima scintilla viene da lei.
In terzo luogo, un grazie spirituale ad Asimov e al suo Io, Robot non si può proprio evitare.
 
Non mi sento di inserire raccomandazioni se non il fatto che è una android!lock AU. Il resto (spero) lo scoprirete leggendo.
Un’ultima cosa. Mi rendo conto che John è OOC, dunque è meglio dirlo subito. Purtroppo ho avuto la brillante idea di farlo robot 8D
 
A chi vuole, comunque, auguro buona lettura ♥
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P R O T O T Y P E
 
 
 
P a r t     I
Y o u   a r e   ( n o t )   m i n e
 
 
 
La prima cosa che udì quando lo attivarono, furono voci ovattate.
« Processo di inizializzazione al 95% ».
« Segnali biometrici stabili ».
« Interfaccia di sistema stabile ».
« Velocità di sinapsi buona ».
« Velocità di ricezione ed elaborazione dati buona ».
« Sensori di equilibrio, movimento, tatto, vista, udito, dermo-sensibilità e percezione ambientale stabili ».
« Muscolatura sintetica reattiva, processo di de-atrofizzazione completato ».
« Interconnessione neuronale attiva ed efficace ».
« Sistema centrale attivo ed efficace ».
« Ben fatto ».
Non capiva dove fosse, non sapeva chi fosse. In realtà, non sapeva nemmeno perché si era posto quella precisa domanda, o perché continuasse a porsi domande di qualsivoglia tipo. Si sentiva galleggiare, percepiva la pressione di un liquido sulla pelle e nelle orecchie, i propri capelli solleticargli il collo, l’intero suo corpo sospeso e fluttuante.
Lentamente, aprì gli occhi.
Al di là del liquido giallognolo, un sottile strato di vetro lo separava dalla figura sfocata di un uomo. Non riusciva a riconoscere bene i tratti del volto ma aveva i capelli corti e neri e gli occhi chiari; portava un camice bianco su qualcosa di scuro, probabilmente una camicia, e un tesserino di plastica pendeva dalla tasca sul suo petto. Non riuscì a leggerne il nome.
Perché voleva leggere il nome? Sapeva leggere?
Chi era quell’uomo?
Chi era lui?
Aprì la bocca per cercare di fare uscire qualche suono ma non funzionò. Si rese conto di non aver nemmeno bisogno di respirare.
Perché pensava che fosse normale, il bisogno di respirare?
« No, non cercare di parlare » disse la voce ovattata dell’uomo davanti a lui, al di là del vetro: « le tue corde vocali non sono ancora operative, anche se il tuo processore linguistico alfanumerico è attivo e funzionante. Limitati a pensare ciò che vuoi dire: sei connesso con il server principale del laboratorio, possiamo leggere tutto sullo schermo ».
Pensare? Era forse ciò che stava facendo?
Sbatté istintivamente le palpebre e sullo schermo del laboratorio apparve la prima domanda.
 
Chi sono io?
 
« Più che “chi”, la domanda giusta sarebbe “cosa” » rispose lo scienziato. « Sei un androide. Un robot ».
L’androide aggrottò le sopracciglia nello sforzo di comunicare con il server esterno del laboratorio.
 
Cos’è un androide?
 
« Un androide è un organismo artificialmente creato ad immagine e somiglianza umana. Assomigli, ti muovi e parli come un normalissimo essere umano ma non lo sei, dentro di te ci sono circuiti e transistor, schede di memoria ed un complesso sistema di elaborazione neuronale con una funzionalità molto simile a quella di un cervello umano. In particolar modo, tu sei un prototipo di un particolare tipo di Intelligenza Artificiale ».
 
Prototipo?
 
« Una prova, l’esemplare zero » spiegò con calma l’uomo in camice: « le tue specifiche di base verranno prese come base per l’elaborazione di altre specifiche più avanzate. Verrai studiato in modo da individuare errori di sistema, bug o altri problemi che verranno poi sistemati per permettere una produzione in massa di androidi più sviluppati ».
In definitiva, era un esperimento.
Alzò il capo e guardò prima verso l’alto, poi a destra e a sinistra. C’era acqua e vetro ovunque guardasse, persino sopra e sotto di sé, aveva mani e gambe assicurati tramite fascette di plastica a strutture solide di metallo e alcuni fasci di cavi erano collegati a lui tramite una porta dati nel retro del suo collo.
 
Dove mi trovo?
 
Chiese dunque.
« In una capsula » rispose l’uomo dai contorni sfocati. « Sei immerso in un liquido di conservazione a base di amminoacidi. Era necessario per assemblare tutte le tue parti senza che agenti esterni presenti nell’atmosfera danneggiassero i tuoi delicatissimi circuiti, soprattutto per quanto riguarda il cervello. Questa è un’attivazione di prova, la prossima volta che verrai riattivato sarai all’esterno » disse.
“Attivazione di prova”. “Riattivato”. Parole fredde dal significato sterile.
Perché lui non si era svegliato, invece? Perché non poteva respirare, parlare, stare all’aria aperta? Gli sembravano cose così normali, così...
Sgranò gli occhi quando un sussulto lo scosse violentemente, lanciando una scarica elettrica lungo le sue membra che rimbalzò fino alla testa. Serrò i denti con forza mente piccole spie rosse cominciarono ad accendersi in tutto il laboratorio, unite a sirene rumorose e alle voci inconsulte delle altre persone presenti nella stanza.
« Cosa sta succedendo?! » sbottò il capo scienziato, la persona che stava parlando con lui.
« Connessione neuronale instabile! ».
« Valori biometrici in calo! ».
« Interfaccia compromesso! Dottor Holmes, dobbiamo staccare! ».
« No, NO! Siamo vicini! Non accetterò un altro fallimento! ».
« Dottor Holmes, è pericoloso, l’intero sistema potrebbe collassare e... ».
« Ho detto di no! Forzate un riavvio del sistema! ».
« Dottor Holmes, potremmo non essere più in grado di recuperarlo! ».
L’uomo sbatté con forza le mani sul vetro della capsula che conteneva l’androide, ma ormai il robot non era più in grado di vederlo. Nei suoi occhi sintetici stavano scorrendo immagini sconnesse di sabbia e sangue, nelle sue orecchie rimbombavano esplosioni e colpi sordi che non sapeva identificare.
Strinse ancora di più i denti quando una seconda scarica elettrica fece contrarre i suoi muscoli. Poi, sullo schermo del computer del laboratorio, apparve una sola parola.
 
Guerra
 
Le urla degli scienziati divennero sempre più alte e frenetiche mentre, pian piano, tutti gli schermi venivano bypassati e si riempivano di quella parola ripetuta all’infinito.
 
Guerra Guerra Guerra Guerra Guerra Guerra
Guerra Guerra Guerra Guerra Guerra
Guerra Guerra Guerra Guerra Guerra Guerra
Guerra Guerra Guerra Guerra Guerra
Guerra Guerra Guerra Guerra Guerra Guerra
Guerra Guerra Guerra Guerra Guerra
Guerra Guerra Guerra Guerra Guerra Guerra
Guerra Guerra Guerra Guerra Guerra
 
L’androide spalancò la bocca in un urlo muto.
« Disattivate tutto! » gridò il capo scienziato sopra il rumore: « inizializzazione override d’emergenza! ».
« Non funziona! ».
« Allora fatelo manualmente! ».
La teca di vetro si frantumò. Il liquido proteico fuoriuscì e l’androide si sentì cadere, attratto dalla forza di gravità ora che non c’era più nulla di fluido a contrariarla. Cadde dritto fra le braccia dello scienziato capo che, afferrando i cavi alla base del collo, li strappò via con forza.
Tutto si fece silenzioso, poi indistinto, poi buio. Prima di perdere conoscenza, l’androide riuscì a sentire solo un’ultima frase, una eco lontana nella sua mente artificiale.
« Non è altro che l’ennesimo errore ».
 
 
 
I corridoi dell’ala est dei laboratori della Holmes Robotics Corporation erano pieni di porte a vetro ben sigillate, automatiche, che potevano essere aperte solo tramite l’utilizzo di un tesserino magnetico a nominativo. Una misura di sicurezza necessaria per quelli che erano i laboratori di ricerca dell’azienda più rinomata al mondo per quanto riguardava la Robotica e lo sviluppo della tecnologia androide.
Teoricamente lui non poteva andare in giro da solo senza accompagnamento, ma fregare la signorina Lexis delle Risorse Umane era stato fin troppo facile (come sempre) ed essere il figlio minore del Presidente – nonché dello Scienziato Capo – comportava un’ottima posizione sociale, fra quei corridoi; nessuno degli scienziati e degli impiegati aveva il coraggio di impedirgli di girovagare, e anche se avessero avvertito suo padre poco importava: lui e suo fratello Mycroft stavano discutendo dei profitti dell’azienda, in quel momento, e non avevano tempo di prestare attenzione ad un bambino di otto anni.
Come al solito, avrebbe francamente aggiunto.
Tuttavia, a Sherlock non interessavano i laboratori in sé. Non aveva intenzione di seguire la strada di suo padre, di dedicare la vita alla Robotica come aveva fatto lui, come avrebbe fatto Mycroft. Aveva altri progetti per il suo futuro, dunque quelle stanze di vetro e metallo piene di macchinari non attiravano il suo interesse.
C’era solo una stanza, in tutta l’ala, che gli interessasse. Il Laboratorio De-assemblamento 3. Era l’unico a cui era concesso il libero accesso e, in definitiva, faceva le veci di un deposito di pezzi di scarto. In quel luogo, due scienziati a turno smontavano e riutilizzavano parti di androidi e robot che non funzionavano o funzionavano male.
A Sherlock piaceva andare ora in quel laboratorio. Passava lì le sue giornate quando spariva, lasciando con un pugno di mosche l’impiegata di turno a cui era stato affidato, e quando suo padre lo capì decise di non prendere provvedimenti. Che danni poteva fare in una sorta di discarica, dopotutto?
Nessun danno. Ma quel posto pullulava di pezzi ed ingranaggi, di parti malridotte ed inutilizzabili di androidi, arti e articolazioni di titanio, a volte persino cervelli positronici incompleti o mal funzionanti che Sherlock si divertiva a cercare di riparare, o a riutilizzare in un qualche modo. Quella stanza era il suo Paese dei Balocchi e poco importava che non fosse sotto la stretta supervisione di qualcuno: finché rimaneva lì non poteva dar fastidio ad anima viva.
Così lo lasciavano fare. Il cognome Holmes era un potente lasciapassare.
Entrò a De-assemblamento 3 anche quel giorno. Dalle enormi finestre del corridoio entrava un pallido sole primaverile e, allungando il braccio fino al lettore di impronte digitali, fece scattare la serratura. Il laboratorio era a libero accesso ma il lettore digitale serviva a tenere un elenco delle persone che entravano ed uscivano. Ovviamente le impronte di Sherlock erano registrate insieme a quelle di tutte le persone che entravano frequentemente nei laboratori, così come quelle di tutta la famiglia Holmes. Nel caso che si presentasse qualcuno le cui impronte non erano inserite nel sistema, un allarme suonava e l’intera ala dei laboratori veniva sigillata con ancora le persone al suo interno. A quel punto il problema passava alla Sicurezza, che doveva verificare l’identità di ogni singolo scienziato. Una procedura simile era scattata solo una volta e suo padre non aveva gradito l’interruzione lavorativa di quasi 4 ore che ne era seguita.
La porta si aprì con un sibilo e Sherlock, notebook sotto il braccio e maglia a mezze maniche con il colletto ben stirato, entrò nella stanza. La luce era accesa ma non c’erano scienziati al lavoro. Ancora meglio.
Il bambino cominciò a guardarsi intorno alla ricerca di qualcosa che attirasse la sua attenzione. Sperava che, in mezzo ai pezzi di scarto e di ricambio, ci fosse qualcosa che potesse usare per dare una forma ad un progetto a cui stava pensando da qualche giorno.
Tutti sapevano che Sherlock era un bambino molto intelligente. Molte volte lo aveva dimostrato durante la sua infanzia ancora in corso e questo, unito al cognome che portava, aveva fatto in modo che fosse anche un bambino molto solo. Lo stesso destino che aveva trasformato suo fratello Mycroft in un ragazzo brillante ma solitario, un fato che sembrava perseguitare anche Sherlock. Per questo il bambino amava passare il tempo progettando piccole macchine e costruzioni automatiche e sfruttava le gite ai laboratori di ricerca per raccogliere pezzi e crearle. Era già in grado, a soli otto anni, di scrivere un programma informatico che rispondesse ai comandi che gli impartiva con l’aiuto del computer. In altre parole, era un bambino prodigio.
Tale padre, tale figlio.
Però, i progetti di quel giorno vennero improvvisamente stravolti.
Il laboratorio, infatti, non era effettivamente vuoto. C’era un motivo per cui le luci erano accese e quel motivo era la presenza di un uomo – no, un androide – seduto su uno dei lettini in metallo reclinabili presenti al centro della stanza. I monitor ed i macchinari di scomposizione erano accesi ed in stand-by, in attesa solo di qualcuno che li usasse.
Sherlock osservò il robot.
Aveva l’aspetto più umano che avesse mai visto ad una macchina. Pelle olivastra, capelli corti e di un biondo sporco, un viso adulto ma non anziano. Se ne stava seduto in silenzio con la schiena dritta, coperto solo da una veste simile a quelle d’ospedale, scalzo, a sua volta in attesa, e quando si accorse della sua presenza voltò il capo e lo guardò.
Aveva gli occhi blu, notò Sherlock. Non azzurri, o indaco... era una sfumatura profonda di blu marino. Probabilmente erano di vetro, o di qualche polimero plastico semi-rigido, ma sembravano veri.
Sembrava un essere umano. Talmente tanto, che se la sua postura non fosse stata così rigida e la sua presenza così sterile, Sherlock avrebbe avuto un ragionevole dubbio sulla sua natura.
L’androide non parlò. Sì limitò a guardarlo, come se stesse aspettando un ordine o una sua parola, così Sherlock ne approfittò.
« Chi sei? » domandò, voce ferma, curioso. Androidi dall’aspetto così umano non erano stati ancora commercializzati; in giro vi erano solo pochi Mark-2, che avevano un aspetto del tutto robotico e meccanico, dunque era strano che un androide così avanzato fosse stato mandato lì, molto probabilmente per essere smantellato.
Il robot lo osservò per un istante prima di rispondere, la voce profonda ma morbida, rassicurante. « La domanda giusta sarebbe “cosa” sono » disse.
Sherlock inclinò la testa di lato. « Cosa sei? » domandò dunque.
L’androide sembrò pensarci un attimo. « Un androide » rispose.
« Questo l’ho capito guardandoti » ribatté Sherlock.
Il robot continuò a guardarlo. « Un prototipo » disse dunque.
« Un prototipo? ».
« Una prova, l’esemplare zero » aggiunse la macchina.
Sherlock assottigliò gli occhi. « Sei tante cose » commentò.
L’androide aggrottò le sopracciglia. « Sono quello che mi hanno detto di essere ».
« E cos’altro ti hanno detto di essere? » domandò il bambino.
« Un errore » disse la macchina.
Sherlock lo osservò con attenzione, lo sguardo incuriosito e con un ricciolo ribelle sulla fronte.
Percorse i pochi passi che lo separavano dall’androide e dal lettino su cui era seduto, appoggiando su di esso il notebook ed arrampicandosi di fianco a lui. La macchina lo aiutò a salire di sua spontanea volontà, afferrandolo per le braccia e tirandolo su. Sherlock si accomodò a gambe incrociate girato verso l’androide, che non smise di guardarlo.
« Lo dicono anche di me » commentò il piccolo, il tono leggero come se parlasse del tempo, come quello di una persona che si era ripetuta sempre la stessa cosa così tante volte che ormai era pura abitudine. « Hai un nome? » domandò poi.
L’androide sbatté gli occhi. « Cos’è un nome? » chiese.
Sherlock sobbalzò. « Beh, un nome è... un nome » tentò di spiegare. « Tutti hanno un nome ».
L’androide scosse piano la testa e fece spallucce. Per essere una macchina, certi atteggiamenti erano fin troppo umani.
« Fammi vedere il tuo identificativo » disse dunque Sherlock.
Il robot, in silenzio, gli allungò la mano sinistra. Il bambino se la rigirò fra le mani e lesse i caratteri scritti all’interno del polso, in un blu intenso e ben visibile.
SBAT-5/PROTOTYPE [JOHN].
« Special Biobehavioural Android Type 5, prototipo » Sherlock tradusse. « John » aggiunse poi.
« John? » domandò l’androide.
Il bambino annuì. « Il tuo nome » assentì. « Sei decisamente un nuovo modello, John » aggiunse poi.
« Cosa significa? » domandò il robot.
« Significa che non c’è nessun altro come te. Per ora, almeno » spiegò Sherlock, osservandolo con sguardo dubbioso. « Però non capisco perché sei qui... fammi accedere al tuo sistema » disse, scendendo dal lettino per recuperare da uno dei tavoli un fascio di cavi completi di spinotti.
John annuì con un cenno del capo e piegò in avanti la testa lasciando scoperta la nuca, dove Sherlock aprì un piccolo sportello automatico con una semplice pressione delle dita. Collegò velocemente i cavi alle relative spine nel collo di John e, subito dopo, a quelli presenti di fianco al proprio computer portatile, che riavviò.
Cominciò abilmente a destreggiarsi in mezzo ai vari programmi che componevano l’interfaccia utente del cervello positronico dell’androide, decisamente più complesso a livello pratico. L’interfaccia utente era stata inventata appunto per permettere agli esseri umani di poter fare manutenzione informatica senza dover smontare e rimontare il complicatissimo cervello positronico, o dover mettere mano a quelle centinaia di migliaia di relè e circuiti che creavano un androide come quello.
« Riesci a capire cosa sto facendo? » domandò Sherlock, cliccando tasti alla velocità di un esperto di informatica.
« Sì » confermò John. « In questo momento sta entrando nella griglia principale di funzionamento ».
« Mh... » annuì il bambino con un borbottio, aprendo nel contempo alcuni dei file primari per analizzarne il contenuto. « Potresti recitarmi le Tre Leggi della Robotica? » domandò poi.1
John annuì. « Prima Legge: un robot non può recar danno ad un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno. Seconda Legge: Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge. Terza Legge: un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge » disse, la voce piatta e leggermente metallica.
Sherlock sembrò soddisfatto. « Controlliamo le funzioni di base » disse poi: « il quadrato di quattordici? ».
« Centonovantasei ».
« Cos’è un ossimoro? ».
« Una figura retorica che consiste nell’accostamento di due termini di senso contrario o comunque in forte antitesi ».
« La capitale del Marocco? ».
« Rabat ».
« Della Cina? ».
« Pechino ».
« del Sealand? ».
« Tecnicamente non è riconosciuto come Stato ».
Sherlock annuì. « Qual è la formula per il calcolo dell’area di una circonferenza? ».
« Pi greco per raggio alla seconda ».
« E di una sfera? ».
« Quattro pi greco per raggio alla seconda ».
« Su di un tetto c’è un gallo. Da che parte cade l’uovo se tira un vento da est verso ovest con una velocità di due miglia orarie e la pendenza del tetto è di quaranta gradi? ».
« I galli non fanno uova » ribatté subito l’androide.
Il bambino annuì di nuovo. « Passiamo al livello successivo » commentò tra sé e sé prima di dire: « se un essere umano rischiasse di venire investito attraversando la strada e tu potessi salvarlo, lo salveresti? ».
« Sì » rispose l’automa.
« Anche se l’impatto con il mezzo di trasporto potrebbe danneggiarti? » aggiunse Sherlock.
« Sì » rispose ancora John.
« Se un essere umano ti desse l’ordine di buttarti dal ventesimo piano di un palazzo, lo faresti? ».
« No » rispose il droide.
« E se, buttandoti, potresti salvare la vita di una bambina che l’essere umano sta minacciando con un’arma da fuoco? ».
A questo punto, l’androide esitò. « Non è detto che manterrebbe la parola » rispose.
Le sopracciglia di Sherlock si aggrottarono. « Se ti venisse specificato che è un ordine diretto e tu sapessi che non ci sono altre possibilità di tentare di salvarla? » aggiunse.
« In questo caso, sì » rispose John.
Sherlock sospirò.
«Tu dubiti... » disse dopo un istante di silenzio: « non c’è niente che non va nell’equilibrio fra le Tre Leggi, né per quanto riguarda le funzionalità di base spaziali, geografiche, linguistiche, cognitive e di calcolo. Però... dubiti. Hai la facoltà di mettere in dubbio gli altri e te stesso » spiegò.
Ora fu il turno di John di aggrottare le sopracciglia. « Ed è un male? » domandò.
« Ecco, è proprio quello che intendo » disse però Sherlock, puntandogli un dito contro: « i robot normali possiedono solo una cognizione di base di bene e male, necessaria alla loro funzione cognitiva standard. Tu... pensi » commentò semplicemente il bambino, a metà fra l’attonito ed il meravigliato. « Comincio a capire perché vogliano de-assemblarti ».
Ma John non disse niente. Sembrava impegnato ad osservare ed ascoltare Sherlock, ad assimilare ogni nozione ed ogni parola, e fu solo dopo pochi istanti che se ne uscì con la prima frase successiva alla piccola diagnostica improvvisata.
« Il tuo quoziente intellettivo è superiore alla media » disse. Non era una domanda.
Sherlock alzò gli occhi dallo schermo del portatile ed annuì piano. « Come hai fatto a capirlo? » domandò.
« La proprietà di linguaggio » rispose il robot.
« Non per le cose che so fare al computer e per tutto ciò che so sulla robotica? » chiese ancora Sherlock.
« Tutte le persone con cui sono entrato in contatto sapevano fare le medesime cose » spiegò il robot, poi arricciò le labbra. « Non tutti sono capaci di farle? » domandò.
« No. Non i bambini della mia età » disse Sherlock. « Come fai a sapere che sono più intelligente basandoti sulla proprietà di linguaggio, se non hai mai visto altri bambini oltre me? » aggiunse poi.
« Ci sono adulti, in questa struttura, che non hanno la tua stessa capacità lessico-linguistica » si giustificò il robot.
L’angolo delle sottili labbra di Sherlock si alzò. « Interessante » commentò.
Proprio in quel momento, la porta del laboratorio di aprì. Dall’altra parte di essa, accompagnato da uno scienziato in camice bianco, suo padre sospirò.
« Chissà perché sapevo che ti avrei trovato qui, Sherlock » commentò rassegnato. Poi passò gli occhi su John e, per un brevissimo istante, ebbe un fremito.
Un fremito che Sherlock notò.
Ma Siger Holmes si ricompose in fretta, stirando le labbra sottili – così simili a quelle del figlio più piccolo – in un lieve sorriso. « Andiamo, l’auto ci sta aspettando. Tuo fratello è già nella hall ».
Sherlock lanciò un’ultima occhiata a John poi annuì, staccando i cavetti dal computer e scendendo dal lettino. John non si mosse per togliersi il fascio di fili dalla nuca, probabilmente perché nessuno glielo aveva ordinato, ma seguì con lo sguardo il piccolo Sherlock mentre si dirigeva a passo moderato verso il padre, fermandosi al suo fianco.
Siger, mettendogli una mano sulla spalla, si rivolse poi allo scienziato che lo aveva accompagnato. « De-assemblatelo e riciclate i pezzi necessari. Distruggete il cervello positronico non appena estratto » disse con voce perentoria. Lo scienziato annuì e si diresse verso John.
Prima che potessero uscire, però, il robot prese parola. « Arrivederci, Sherlock » salutò di sua spontanea volontà.
Il bambino si bloccò sulla porta. Il suo sguardo scattò indietro verso John, ora nelle cure dello scienziato, impegnato a scrivere una serie di valori sulla sua cartellina di plastica. Incontrò i suoi occhi blu ancora una volta e ciò che disse gli uscì dalla bocca senza nemmeno pensarci su.
« Lo voglio io ».
Suo padre si fermò un passo avanti a lui ed alzò un sopracciglio. « Cosa? ».
« John. Lo SBAT-5. Lo voglio io » ripeté Sherlock senza nemmeno spostare lo sguardo dall’androide.
Siger sospirò profondamente. « Sherlock, non si può ».
« Perché? » domandò il figlio, spostando gli occhi su quelli del padre così simili ai suoi: « hai appena detto che verrà de-assemblato ».
« Sì, perché è guasto » insisté il genitore: « ha un errore di programmazione ».
« Non importa. È praticamente un ferro vecchio, no? Che differenza fa se rimane a casa nostra invece di venire rottamato? Non è la prima volta che porti a casa dei prototipi per testarli » ribatté il figlio.
« I prototipi che porto a casa sono sicuri » specificò suo padre: « non hanno errori di programmazione o di software, questo SBAT-5 invece sì ».
Sherlock prese un respiro profondo, come se dovesse cercare dentro di sé la forza per dire ciò che stava per pronunciare. « Pera favore, papà » disse poi.
Siger Holmes, sconfitto ancora una volta dal figlio minore, abbassò le spalle sconsolato. « Va bene » assentì dopo qualche secondo di silenzio: « ma ad una condizione: te ne prenderai cura tu e, al primo cenno di malfunzionamento, qualsiasi cenno di malfunzionamento, verrà riportato alla Holmes Robotics e de-assemblato. Sono stato chiaro? ».
Il bambino annuì convinto con un sorriso trionfante.
« Come si dice? ».
« Grazie, papà ».
Siger annuì al figlio, poi si rivolse al robot. « SBAT-5, seguici » ordinò.
L’androide rispose al suo sguardo e scese agilmente dal lettino. « Sì, signore » confermò il comando.
 
 
 
Le articolazioni meccaniche di John facevano un lieve rumore di cuscinetti a sfera quando si muoveva. Sherlock lo notò quasi subito. Lo aveva portato in camera sua non appena arrivato a casa, evitando che sua madre lo vedesse, e aveva cominciato una lunga diagnostica tecnico-meccanica, collegando di nuovo il suo computer all’interfaccia di sistema del robot per cercare di carpire anche il più piccolo segreto di quel droide. Era una macchina, dopotutto: doveva avere dei limiti – di conoscenza, cognizione, ragionamento, etica e morale, persino strettamente binari – e lui aveva intenzione di trovarli.
Ma non accadde. Osservò il funzionamento di ogni arto con attenzione, esaminò ogni anfratto di codice informatico che conosceva ed era in grado di capire, si fece persino guidare dallo stesso John nei segmenti di programmazione che non riusciva a decifrare ma niente, nulla, sembrava che quell’androide non avesse “limiti”.
A parte le Tre Leggi. Ma aveva già visto che era in grado di porre e porsi domande, di dubitare di altri e di se stesso (una cosa che Sherlock stesso disprezzava), dunque quale limite potevano fornire le Tre Leggi della Robotica? Forse potevano essere la base della sua etica e della sua morale, ma si poteva davvero parlare di morale in relazione ad un robot?
« Accidenti! » esclamò dopo la terza ora di fila che digitava ininterrottamente sul portatile: « sei più complicato di quanto pensassi ».
« Mi dispiace » si scusò John. Suo padre gli aveva dato dei vestiti che non usava più, ancora relativamente nuovi ma troppo piccoli per l’uomo da indossare, dunque ora portava un paio di jeans blu scuro, una camicia bianca ed un semplice maglioncino nero con collo a V. Sembrava in tutto e per tutto un essere umano se non fosse stato per il tono di voce metallico e per i movimenti rigidi. Sbatteva persino le palpebre (che, come negli umani, servivano per umettare il tessuto plastico semi-rigido di cui erano fatti gli occhi).
Sherlock arricciò il naso, osservando lo schermo del suo computer portatile con disappunto. Odiava non venire a capo di un mistero quando decideva di impegnarsi, era come non riuscire a risolvere un problema di matematica dopo aver speso dieci minuti in calcoli.
« Ho intenzione di modificare le tue impostazioni di sicurezza » disse poi il bambino, mettendosi seduto a gambe incrociate e attirando di nuovo a sé il computer: « dopotutto sei mio, ora, e non voglio che a Mycroft venga in mente di mettere le mani sui tuoi dati ».
« Perché dovrebbe? » domandò John, lasciando tranquillamente che Sherlock aprisse e modificasse le sue impostazioni di sicurezza attraverso l’interfaccia utente e settasse una nuova serie di password che ne proteggessero l’accesso.
« Perché è il suo hobby, rovistare fra le mie cose » rispose con un broncio.
John lo osservò per qualche istante. « Non è vero » disse poi.
Sherlock alzò lo sguardo dal pc insieme al sopracciglio destro. « Come fai a dirlo? ».
Per la seconda volta, il robot fece spallucce. « Non sembrava un’affermazione sincera » spiegò.
« Cosa ne sa un androide della sincerità? Non dovresti essere in grado di percepirla. Nessun robot dovrebbe » ribatté Sherlock.
John aggrottò le sopracciglia in un’espressione crucciata. « Io... » cominciò poi: « Io... io non... » balbettò.
« Basta così » lo interruppe Sherlock. « Lascia perdere la domanda » ordinò.
« Sì, padrone » rispose allora John.
Sherlock lo guardò di nuovo. « “Padrone”? ».
John annuì. « Si presuppone che un droide chiami in questo modo le persone a cui deve servilità » disse.
« Però prima mi hai chiamato per nome » obiettò il bambino: « al laboratorio ».
John esitò un istante. « Mi sembrava appropriato » rispose poi.
« “Sembrare”, ancora... » disse Sherlock a mezza voce, sospirando. « Fa lo stesso. Chiamami Sherlock » disse poi.
« Sì, Sherlock » confermò John.
« Bene » rispose il bambino, terminando il processo di sovrascrittura delle password e dei codici di sicurezza prima di scollegare John e spegnere definitivamente il computer. « Ora scendiamo a cena, ti presento al resto della mia impeccabile famiglia » disse poi, sottolineando con voce dura l’aggettivo.
John, seduto sul bordo del letto a baldacchino, si apprestò a seguirlo. « Io non posso mangiare » disse.
« Lo so » rispose Sherlock: « è che... non mi dispiace, la tua compagnia » disse con un tono di voce indeciso e basso, dando le spalle all’androide.
Se John avesse potuto capire meglio il comportamento umano, se avesse potuto osservare ciò che c’era intorno a lui con gli occhi di una persona, si sarebbe accorto di quanto Sherlock fosse a disagio alla presenza di sua madre, nelle stanze di quell’enorme casa silenziosa e così formale; si sarebbe reso conto che la camera del piccolo era vuota di tutti quegli oggetti che un bambino dovrebbe possedere, giochi e pupazzi e cianfrusaglie, e che conteneva solo libri e un computer portatile. Si sarebbe reso conto di quanto quel bambino si sentisse solo ed escluso, cresciuto più in fretta del dovuto a causa delle mancate cure di una madre che non lo aveva mai voluto e delle mancate attenzioni di un padre che non aveva mai abbastanza tempo da dedicargli; cresciuto con l’unico punto di riferimento in un fratello maggiore appena adolescente che già si preparava a succedere al comando della compagnia di famiglia.
Ma John era solo un robot, dopotutto. Unico, sì, particolare persino, ma pur sempre un robot.
Per questo motivo non si accorse nemmeno di quanta speranza Sherlock avesse riposto in lui.
E di quanto potesse essere facile calpestarla.
 
 
 
Gli Holmes possedevano una tenuta di svariati metri quadri ai confini di Londra, in una zona fatta di agglomerati di case e ville dai giardini immensi. Casa Holmes era una delle più facoltose della zona e, dietro di essa, alla fine del giardino particolarmente curato e ben tenuto, si estendeva un piccolo faggeto che Sherlock amava esplorare per raccogliere campioni di piante e terriccio. Era ormai settembre inoltrato quando nel più piccolo di casa cominciò a nascere la passione per la chimica e, in generale, la sua sete di conoscenza si applicava anche al riconoscimento di una determinata zona della città partendo dalla composizione del terreno e dalle eventuali foglie e/o pollini rinvenuti in esso. Essendo ancora troppo piccolo per andare in giro da solo a raccogliere campioni per Londra senza accompagnamento e, dato che sua madre non si fidava di John per accompagnarlo in città, Sherlock aveva deciso di cominciare il suo personale inventario dalle terre che poteva tranquillamente esplorare senza sollevare obiezioni o discussioni.
John era con la famiglia ormai da qualche mese e, come tutti i giorni, lo accompagnava nelle sue esplorazioni del boschetto. La signora Holmes aveva preteso delle regole per quanto riguardava la presenza di un androide in famiglia – la maggior parte delle quali consistevano nel fare di John il babysitter robotico di Sherlock – e, nonostante avesse storto il naso alla decisione del marito di affidare il robot al bambino, alla fine aveva girato il capo con noncuranza e aveva acconsentito.
Sherlock passava con John tutto il tempo a sua disposizione da quando si svegliava a quando andava a dormire. Praticamente andava a scuola solo perché era costretto e se avesse potuto portare John con sé lo avrebbe fatto tranquillamente. Contemporaneamente John si assicurava – come da istruzioni – che Sherlock facesse i compiti prima di buttarsi a capofitto nell’idea del giorno e che, soprattutto, il bambino non si mettesse nei guai. In poche parole, John riusciva in ciò in cui molte altre bambinaie avevano fallito nel corso degli anni: tenere il passo di Sherlock, sia mentalmente che fisicamente. Tutto a beneficio della signora Holmes che, come aveva sempre fatto, continuò a non curarsi del figlio.
Quel giorno in particolare il terreno del faggeto era umido e bagnato. La notte prima aveva piovuto molto, dunque il sottobosco risultava più scivoloso e l’aria frizzante ed umida. John non provava freddo ma la sua pelle era in grado di percepire il cambio di temperatura, così aveva consigliato a Sherlock di indossare giubbotto, berretto e stivali di gomma prima di uscire. Sherlock gli aveva obbedito distrattamente nel decantare le proprietà dei terreni argillosi e le differenze rispetto a quelli con più concentrazione di humus.
« Il PH è diverso » diceva mentre, con l’agilità di un bambino, si faceva strada fra rametti e cespugli ormai secchi, su di un letto di foglie gialle ed ovali. « La terra argillosa ha un PH più alto, dunque è più basica. È per questo che chi coltiva su terra argillosa prima ha bisogno di spargere prodotti lievemente acidi » spiegò, parlando più con sé stesso che con lui.
John, che per l’occasione aveva indossato a sua volta degli stivali di gomma, lo seguiva a passo calmo. Ogni tanto spirava un vendo freddo e una pioggia di foglie scendeva in larghe spirali fino a posarsi a terra.
Il bambino era di pochi passi avanti a lui e colpiva le foglie con un bastone. Si stavano dirigendo a nord-est rispetto alla tenuta e, anche se non ve ne era davvero bisogno (Sherlock sapeva già orientarsi perfettamente), John continuava a tenere il conto dei metri percorsi.
« Sai, ho pensato che da grande potrei fare il detective » disse di’un tratto il bambino.
John osservò la sua schiena davanti a sé. « È coerente con tutto il lavoro di ricerca » commentò.
« Vero? » domandò retoricamente Sherlock: « è divertente sapere ».
« Immagino di sì » disse John.
Sherlock si fermò, voltandosi verso di lui. « Perché “immagini”? » domandò.
John si fermò a sua volta. « Ho una memoria limitata. Per immagazzinare nuovi dati prima o poi mi toccherà sovrascriverne di vecchi » spiegò semplicemente.
Il bambino aggrottò le sopracciglia sotto il bordo della berretta blu scuro. « Dovrò chiedere a papà di portarmi a casa delle schede di memoria aggiuntive, allora. Sicuramente alla Holmes Robotics ne avranno ».
« Sicuramente » aggiunse John, ricominciando a camminare quando Sherlock si voltò e riprese il percorso. Non ci volle molto perché arrivassero al ponticello di legno che segnava più o meno la metà del percorso che avevano in programma di fare.
Quello che Sherlock chiamava “ponticello” non era altro che il tronco di un albero caduto anni prima che univa le due sponde dell’alveo vuoto di un vecchio torrente ormai prosciugato. L’acqua aveva scavato per molto tempo in quella zona e, lentamente, aveva creato un alveo dalle sponde alte e ripide profondo quasi due metri. Da sotto il letto di foglie si potevano vedere parecchi sassi – e dei veri e propri massi – spuntare con la loro fisionomia dolce e levigata dall’erosione dell’acqua e del tempo.
Era abitudine per Sherlock attraversarlo, lo faceva ogni volta che prendevano il sentiero di nord-est. Ma questa volta i sensori di pericolo di John cominciarono ad accendersi non appena il bambino mise il primo piede sulla struttura di legno del tronco.
La superficie era ricoperta di muschio e particolarmente sdrucciolevole. Inoltre vi era una crepa, che la volta precedente non c’era, che attraversava almeno metà del tronco nella parte inferiore.
Si sarebbe spezzato, John lo capì in un baleno grazie alla sua enorme capacità di calcolo di probabilità e statistica. Forse non per i primi passi, ma quando Sherlock sarebbe arrivato nella parte centrale e più sottile, il legno gonfio d’acqua ed in parte marcio non avrebbe più retto il suo peso.
Lo scatto che fece poteva essere eseguito solo da un androide.
In due lunghi balzi fu subito da Sherlock, che nel frattempo aveva fatto almeno un metro in perfetto equilibrio, e appoggiando un piede sul tronco lo afferrò per il giubbotto. Senza aspettare oltre, John sfruttò la sua forza artificiale per gettare il bambino dietro di sé e al sicuro sulla terraferma mentre proprio nello stesso istante, sollecitato dal peso maggiore del robot, il legno cedeva e John cadeva verso il letto del fiume.
L’impatto fu peggiore del previsto. Si sentì un tonfo sordo e metallico quando il corpo dell’androide sbatté contro i sassi e Sherlock, affacciandosi dalla riva, urlò.
« John! JOHN! » gridò il bambino, aspettandosi una risposta.
Ma John, girato in una posizione innaturale e con un ginocchio piegato indubbiamente dalla parte sbagliata, non riuscì a rispondergli.
Sherlock trattenne il fiato con un gemito e, scendendo con cautela lungo la riva ripida del ruscello in secca, si affrettò, inciampando, ad arrivargli vicino. Lo aiutò a girarsi sulla schiena, mordendosi le labbra quando notò la mano quasi del tutto staccata dal resto del braccio e la finta pelle lacerata, insieme alla camicia, almeno fino al gomito, i fili e la complicata struttura metallica del braccio robotico di John in mostra.
Gli occhi di Sherlock si fecero lucidi ma non pianse. Continuò a mordersi il labbro inferiore, invece, trattenendo il fiato e rilasciandolo in brevi singulti. Nel frattempo osservava i danni – il braccio distrutto, la gamba inutilizzabile – e nell’accorgersi che l’androide non poteva nemmeno alzarsi il labbro prese a tremargli.
John cercò ancora di parlare ma il sistema centrale si rifiutava di elaborare la richiesta. Di sua spontanea volontà lanciò un breve reboot del sistema comunicativo e, con qualche difficoltà, riuscì a forzare qualche frase oltre gli errori che il sistema stesso gli segnalava.
« She-e-e-er-r-r-r-rlock » disse, la voce gli uscì metallica e a scatti.
Sherlock tirò su col naso prima di deglutire, cercando a sua volta la voce per dire qualcosa. « Quali sistemi sono stati danneggiati? » domandò il bambino, in ginocchio sui sassi accanto al robot.
« Il sis-s-s-s-tema com-m-muni-c-c-cativo e mo-mo-mo-mo-motorio » rantolò di nuovo John.
Sherlock annuì tirando su ancora con il naso. « Mi serve Mycroft... devo cercare Mycroft. Tu aspetta qui. Tornerò indietro, te lo prometto, ma tu aspetta qui » disse, cercando negli occhi del robot la conferma a ciò che aveva detto.
John, per la prima volta, cercò di sorridere, anche se – non si sa se a causa del malfunzionamento dovuto alla caduta o perché non sapeva come farlo – ne uscì più che altro un ghigno.
« Sì, Sher-r-r-r-r-lock ».
 
 
 
Seduto sul letto a baldacchino della stanza di Sherlock, dove era stato portato su ordine dello stesso, John osservava in silenzio il bambino collegare con attenzione i cavetti alla sua nuca e, successivamente, al proprio computer portatile. Nel lungo tragitto dal bosco alla villa, trasportato su di un carretto da giardiniere, il suo sistema comunicativo si era definitivamente guastato ed ora il silenzio era l’unica lingua che poteva parlare.
Sherlock tirava ogni tanto su con il naso, deglutiva le lacrime che non aveva ancora versato ma i suoi occhi chiari rimanevano lucidi e la sua fronte aggrottata in un’espressione addolorata. O, forse, persino impaurita.
« Mycroft ha telefonato a papà » disse piano, cominciando con la sua solita abilità ad analizzare l’interfaccia di sistema di John in cerca del programma di comunicazione. « Non possiamo ripararti in casa quindi domani ti porterà con sé alla Holmes Robotics. Staremo lontani per un giorno ma tornerai tutto intero. Io... per ora non posso fare niente per la mano e la gamba... » disse, deglutendo di nuovo e poi sospirando profondamente: « cercherò di ridarti la voce, però » aggiunse.
John, ricordandosi di non poter dire alcun che, annuì.
Forse l’androide non era in grado di capire ma di certo era capace di osservare. L’osservazione era l’unica cosa che gli permetteva di apprendere, anche se la sua memoria era fisicamente limitata, ma il ragazzino aveva una soluzione anche per quel problema. Cominciava a pensare che Sherlock avesse la soluzione per tutto.
Il bambino nel frattempo aveva trovato i file corrotti del suo sistema di comunicazione e stava lavorando per rimetterli in sesto. Era una semplice questione di programmazione e in questo Sherlock era bravissimo. La solitudine in cui viveva gli aveva permesso di imparare molti dei più attuali linguaggi di programmazione e, dato che suo padre era fondatore e CEO della Holmes Robotics Corporation, il suo aiuto (anche se sporadico) era scontato. Senza contare che in famiglia si doveva mantenere un certo standard di conoscenza della Robotica e dei suoi maggiori principi, sempre per via dell’azienda di famiglia famosa in tutto il mondo.
« Ecco, ho trovato il problema » disse ad un tratto Sherlock, aprendo un file di sistema il cui codice informatico sembrava incompleto: « un malfunzionamento banale, posso sistemarlo » commentò, premendo velocemente i tasti del notebook e riscrivendo con facilità il codice corrotto. Una volta terminato chiuse il file e gli disse di fare un reboot del sistema comunicativo.
John eseguì il comando ed esso si applicò senza alcun problema. Finalmente fu in grado di parlare di nuovo.
« Funzionalità recuperata » confermò John con la propria voce, lievemente metallica ma esattamente dello stesso tono di prima.
Sherlock annuì piano e lo scollegò dal computer. Richiuse lo sportellino dietro la sua nuca con estrema gentilezza e, sempre in silenzio, tornò a sedersi al suo fianco sul bordo del letto, chiudendo e mettendo da parte il portatile. Era un silenzio che poteva essere descritto solo come tale: silenzio, eppure a John non sembrò così. Una parte di lui, chissà in quale relè delle centinaia che componevano il suo corpo, chissà in quale circuito o nodo positronico del suo cervello, gli disse che c’era qualcosa di sbagliato.
Forse, gli trasmise un presentimento.
« Perché sei silenzioso, Sherlock? » domandò allora, guardando il bambino al suo fianco.
Sherlock inizialmente non disse nulla. Le labbra erano piegate verso il basso in un’espressione scontenta e gli occhi, ancora lucidi, minacciavano un pianto trattenuto fin troppo.
« È colpa mia... » sussurrò quindi.
« Cosa? » chiese John.
Sherlock non rispose ma il suo sguardo cadde inevitabilmente sulla mano e sulla gamba dell’androide, entrambi inutilizzabili.
« Cosa? » ripeté John.
« Per quelli » disse Sherlock indicando le sue parti danneggiate.
Il robot guardò prima la mano poi la gamba, poi tornò a guardare Sherlock. « Questi sono dovuti alla caduta ».
« Ma io sono la causa della tua caduta ».
« No, la Prima Legge della Robotica lo è » ribatté però John. « “Un robot non può recar danno ad un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno” » citò. « Avresti potuto riceverne danno » aggiunse poi, come giustificazione per il suo intervento.
Sherlock abbassò lo sguardo sui suoi piedi. « Non avresti dovuto buttarti... » mormorò con voce rotta.
« Era mio dovere ».
« Lo so! » esclamò il bambino con rabbia, poi in tono più pacato: « lo so, però... » lasciò cadere, il primo accenno di lacrime a bagnargli gli angoli degli occhi.
John inclinò il capo nell’osservarlo. Posò poi lo sguardo sulla propria mano ancora integra e, seguendo quella stessa cosa, quella stessa scintilla che aveva creato il presentimento, allungò quella mano verso il bambino e gliela appoggiò sui capelli, piano, come accarezzandolo.
Ovviamente John non sapeva cos’era una carezza. Ma ciò che rese quel gesto importante, rivoluzionario persino, era che nemmeno Sherlock lo sapeva.
Il bambino alzò lo sguardo verso il robot, sul viso disegnato appositamente per essere quello di un uomo di trent’anni con gli occhi blu e i capelli biondo sporco. Qualcuno aveva progettato e rifinito ogni parte di quel volto, persino ogni imperfezione, con in mente l’obiettivo di renderlo il più umano possibile. Era finto, formato da placche di ferro rivestite da un polimero artificiale simile alla pelle, da meccanismi meccanici che permettevano alle labbra di muoversi e alle palpebre di sbattere, Sherlock lo sapeva. Eppure...
Eppure sembrava così vero. Così... umano.
Così amico, in quel momento, così vicino.
Non fu un rimprovero a far sì che le lacrime che Sherlock aveva trattenuto fino a quel momento uscissero, alla fine. Fu semplicemente un gesto gentile che qualcun altro avrebbe dovuto fare, di certo non un androide che, di gesti gentili, tecnicamente non doveva saperne niente.
Nascondendosi il volto fra le mani, alla fine Sherlock scoppiò in un pianto lamentoso e disordinato, fatto di singhiozzi e di piccoli respiri veloci in cui erano nascoste parole singhiozzate che John non riusciva nemmeno a capire.
Ma non chiese delucidazioni. Si limitò ad accogliere Sherlock in un abbraccio delicato quando il piccolo si avvicinò a lui, appoggiandosi al suo petto e nascondendo il volto nel maglioncino nero.
John era un robot ed un robot non avrebbe dovuto saperne niente della consolazione, degli abbracci e del silenzio accomodante. Eppure comprendeva quelle cose – il consolare qualcuno, il valore di un abbraccio e quanto può parlare un silenzio –  più di molti esseri umani.
 
 
 
Successe più di un anno dopo.
Mancavano dieci giorni al decimo compleanno di Sherlock e Natale era passato da poco. Un inverno freddo e gelido aveva seguito un autunno umido e bagnato, quell’anno, e la neve aveva ben presto ricoperto la capitale inglese con un sottile strato bianco e ghiacciato.
Incidente automobilistico, questa era stata la causa ufficiale del decesso.
Un mattino come gli altri, uguale a qualsiasi altro degli ultimi trent’anni. Quel giorno Siger Holmes era uscito di casa diretto al lavoro e, alla promessa di tornare presto per poter passare del tempo con i figli, non era più rientrato.
Un pedone aveva deciso di attraversare la strada con il rosso. Era di fretta, forse. Chi può immaginare quale motivo avesse spinto quel ragazzo ad ignorare il semaforo. Fatto sta che, per evitare di investirlo, un taxi sbandò sull’asfalto scivoloso e finì come una fionda sulla traversa dell’incrocio.
Dritto sull’auto di Siger Holmes.
La notizia era arrivata a casa Holmes da poco più di un’ora quando John, alla ricerca del piccolo Sherlock, finalmente lo trovò.
Era seduto su una delle panchine del giardino, praticamente in mezzo al cortile, a svariati metri dalla veranda sotto la quale John si fermò con il piumino beije di Sherlock fra le mani. Lui era un robot, non poteva sentire freddo, ma era sicurissimo che il bambino stesse tremando su quella panchina di legno e che i suoi abiti fossero ormai umidi a causa della neve che aveva da poco ripreso a cadere.
Tuttavia, John non riusciva a muovere un passo in più verso di lui. Qualcosa, nella sua espressione, lo bloccava.
Sherlock aveva lo sguardo serio e fisso sull’aiuola davanti alla panchina. In primavera quella parte del giardino era uno splendido roseto, ma l’inverno aveva reso quell’angolo di pace triste e solitario, pieno di arbusti vuoti ricoperti solo di neve e ghiaccio. Malinconici come l’espressione di Sherlock che, immobile, batteva i denti per il freddo senza muovere un muscolo per riscaldarsi o rientrare in casa, dove la temperatura era decisamente più gradevole.
Il suo sistema centrale gli segnalò il 70% di probabilità che il bambino si ammalasse, tra cui vi era il 35% delle possibilità che prendesse una malattia seria come la polmonite. La Prima Legge lo spingeva ad agire, ad andarlo a prendere e portarlo in casa per una sana doccia e un brodo caldo, ma c’era qualcos’altro, un impulso che non sapeva bene da dove provenisse, che invece lo bloccava lì, sotto quel portico, e gli impediva di avvicinarsi.
Era ancora nel bel mezzo dell’impasse quando la porta finestra dietro di lui si aprì e Violet Holmes, ormai vedova, gli si affiancò con le braccia incrociate al petto. Si era cambiata, notò John: ora indossava un abito nero, portando il lutto.
La donna rimase in silenzio per alcuni istanti, lo sguardo fisso sul figlio minore seduto al freddo nel mezzo del cortile. Non si scompose, tuttavia, mantenendo una presenza seria e composta, uno sguardo duro e rigido.
Poi, parlò.
« Perché Sherlock è seduto al freddo in giardino? » domandò, la voce ferma.
John si voltò verso di lei. « Immagino sia la sua reazione al lutto, signora » rispose.
Lei sogghignò. « Adesso fanno anche dei robot psicologi... » mormorò più a se stessa che a John, non dando tempo all’androide di pensare e formulare una risposta: « Ascoltami bene » disse, scoccandogli uno sguardo da sopra la spalla.
John rimase in attesa del continuo.
Violet alzò il mento e, nonostante fosse più bassa di lui, fece in modo di guardarlo dall’alto in basso. « Non mi importa che tu sia stato creato come prototipo di un androide human-friendly, rimani sempre un robot. E io, come avrai capito, non apprezzo la tua presenza in questa casa » cominciò. « Ma devo ammettere che puoi tornarmi utile, per ora, dunque, nonostante ormai questa casa sia di mia esclusiva proprietà, non mi libererò di te. Mycroft succederà al padre a capo dell’azienda una volta che avrà terminato gli studi, deciderà lui cosa fare di te. Nel frattempo... » una piccola pausa, un’occhiata scettica in sua direzione: « ...esigo da parte tua più impegno. Ho intenzione di mandare Sherlock in una scuola privata che lo terrà impegnato per la maggior parte della giornata, dunque userai il tuo tempo libero per aiutare la servitù a tenere pulita ed in ordine la casa e il giardino. Farai tutto ciò che gli inservienti ti ordineranno di fare. È tutto chiaro? » domandò infine.
« Sì, signora » rispose automaticamente John.
« Bene » commentò lei: « ho mandato un’auto a prendere Mycroft, sarà a casa fra qualche ora al massimo. Rassetta la sua stanza e prepara il letto » comandò, sfregandosi le mani sulle braccia. « Ah, e va a riprendere Sherlock » aggiunse alla fine, poco prima di rientrare in casa.
« Sì, signora » rispose di nuovo John, riportando la sua attenzione sul bambino.
Uscì dalla veranda, calpestando per la prima volta la neve. Era cedevole sotto i suoi piedi ma subito, a causa del peso, si cristallizzava in una lastra di ghiaccio. John avrebbe voluto dedicargli più attenzione ma ora l’ordine diretto della signora Holmes andava a rafforzare l’urgenza di riportare Sherlock dentro casa, dunque proseguì verso la panchina su cui il bambino era seduto.
Sherlock non lo degnò neanche di uno sguardo. Tenne gli occhi gonfi e lucidi fissi sul roseto spoglio e cercò con tutto se stesso di fermare il tremito dei propri denti, che sbattevano gli uni contro gli altri senza sosta.
« Sherlock » cominciò John: « c’è la possibilità che tu contragga un malanno. Potresti rientrare? » domandò cortesemente il droide, facendo il giro della panchina ed appoggiandogli il giubbotto sulle spalle.
Quello, silenzioso, ignorò la richiesta.
« Tu sai cos’è la morte? » domandò poi, la voce rotta e bassa, quasi debole.
John cercò nel suo sistema la definizione del termine. « La morte è la cessazione della vita » rispose poi.
Sherlock ghignò. « Che risposta da manuale » sputò con disgusto.
John, suo malgrado, sobbalzò appena. « Quale risposta preferiresti che ti dessi? » domandò allora.
« Una risposta che ti renda meno dizionario parlante ed ambulante » ribatté subito il bambino. « Stupiscimi » ordinò poi.
John esitò un istante. Indecisione. Poi, rispose. « Non so descrivere la morte » disse.
Sherlock strinse i denti con rabbia. « Quale utilità... » borbottò a labbra strette. « Cosa ci ho visto in te quando ho deciso di portarti a casa, eh? Dimostrami che sei unico e non uno fra i tanti » lo sfidò.
La morte. John sentiva quel concetto come famigliare. Anche se non lo poteva descrivere, sapeva di poterlo provare. Gli effetti e le conseguenze, la paura di essa, persino l’attesa. Associava a quella parola immagini sconnesse di sabbia e sangue, grida, urla, sole accecante. Faceva male.
« Io l’ho... vissuta » mormorò dunque.
Ma non fece altro che far aumentare la rabbia di Sherlock, che strinse i denti e i pugni.
« “Vissuta”... non venirmi assolutamente a dire di aver vissuto la morte! » esclamò, urlando tutta la sua rabbia e la sua frustrazione, lasciando cadere lacrime d’angoscia che aveva trattenuto fino a quel momento. « Tu... tu! Un androide! Tu sei una scatola vuota, un ammasso di cavi e circuiti. Tu non sai niente della morte se non la sua definizione linguistica dunque non venirmi a dire di averla vissuta, robot! » urlò.
Se non avesse avuto bisogno di respirare fin da principio, probabilmente a John sarebbe mancato il fiato. Non rispose alla rabbia di Sherlock, a quella sua palese provocazione che avrebbe causato una reazione analoga in qualsiasi essere umano, e si limitò a rimanere in silenzio senza sapere cosa dire.
Sherlock lo guardò per alcuni istanti poi, con uno sbuffo seccato, si alzò dalla panchina e buttò a terra il piumino che John gli aveva appoggiato sulle spalle. « Ti proibisco di girarmi intorno, SBAT-5. Confermare comando » disse.
John, riportando le mani ai fianchi, guardò dritto davanti a sé.
« Comando confermato ».
 
 
 
 
 
 
P a r t     I I
I   a m   ( n o t )   y o u r s
 
 
 
John stese perfettamente la tovaglia di puro cotone bianco sul tavolo di legno scuro, facendo si che ricadesse da entrambi i lati di venti centimetri esatti. Distese poi sulla tovaglia i piatti di porcellana con disegni floreali, da secondo e poi da primo, i bicchieri di vetro lavorato da acqua e da vino poi i flute di cristallo, piegò i tovaglioli al millimetro e vi posò sopra le posate d’argento, il set buono, la lama del coltello da carne rivolta verso il piatto, due forchette, il cucchiaio, la forchetta da dolce ed il cucchiaino da caffè. Posizionò i segnaposto in vetro di murano a seconda della sfumatura d’azzurro, dal più tenue al più carico al più scuro, ed aggiunse un centrotavola di fiori freschi tagliati in modo da non impedire la vista a nessuno dei commensali. Apparecchiò per dodici, come da istruzioni, facendo attenzione che ogni posto fosse lontano il giusto da quelli vicini e che tutti fossero alla stessa distanza dai due capitavola.
La signora Holmes amava le cose fatte per bene.
Erano ormai dieci anni che John apparecchiava la tavola per i ricevimenti privati della signora e, ormai, nessuno poteva fare quel determinato lavoro meglio di lui. Calcolava al millimetro ogni disposizione e questo sembrava piacere, se non alla signora Violet, almeno ai suoi ospiti. Ovviamente John non era autorizzato a farsi vedere degli ospiti della signora, ma poteva sentire i complimenti che gli stessi facevano alla tavola dalle cucine, dove veniva messo spesso e volentieri a risciacquare i piatti e a preparare i carrelli per le portate.
Di nascosto, senza farsi vedere, piegava le labbra in un sorriso lusingato.
Nei dieci anni trascorsi dalla morte del signor Holmes, John aveva imparato molte cose. Molti sentimenti, ad esempio, come riconoscerli, e persino molte sensazioni. Non erano del tutto chiare, questo no; a volte faceva confusione mentre altre volte non aveva la minima idea di cosa stesse vedendo, ma osservando gli altri, le loro espressioni e i loro sorrisi, ascoltando i loro toni di voce e le loro risate, John aveva imparato a riconoscere negli altri le emozioni e, conseguentemente, a capire cosa aspettarsi.
Riconosceva la rabbia ed il disappunto, così come la cortesia e la felicità.
Era facile capire cosa stessero provando gli esseri umani dalle loro espressioni. I loro occhi erano i più espressivi, così come le loro labbra. Le arricciavano senza accorgersene quando erano dispiaciuti o nel dubbio, così come aggrottavano o inarcavano le sopracciglia a seconda che stessero provando stupore o confusione. Tutti segni distintivi della loro capacità di sentire... della loro capacità innata di essere umani.
Essendo un robot, John non provava emozioni. O meglio, pensava di non provarle. Solo a volte c’era qualcosa, dentro di lui: una sorta di agglomerato fittizio nel suo stomaco che lo bloccava e gli faceva aggrottare le sopracciglia come molte volte aveva visto fare alle persone presenti nella casa. Non riusciva a capire cosa fosse, se la scintilla di un’emozione o un errore del software interno o di un qualche file del sistema principale... sapeva solo riconoscere se era positiva o negativa. A volte era l’una, altre era l’altra.
In quel momento, per esempio, mentre osservava da poco distante la tavola apparecchiata alla perfezione, avrebbe quasi potuto sorridere positivamente. Dora, la cameriera di casa, una volta gli aveva detto che quando faceva le cose fatte bene doveva essere fiero di se stesso. Ovviamente John non aveva capito a cosa si riferisse, ma se la spiegazione era quella di essere contenti del proprio operato, allora poteva dire di essere fiero di se stesso, in quell’istante.
Stava per dirigersi verso le cucine e cominciare ad aiutare con le stoviglie quando sentì il portone d’ingresso aprirsi e chiudersi e i passi di due persone dirigersi verso la sala.
John sapeva già chi era una di quelle persone. Aveva riconosciuto la cadenza del passo ed il particolare suono contro il pavimento della suola dei mocassini che spesso lucidava.
Sherlock.
Sherlock era cresciuto, in quegli anni. Era diventato – a detta di Dora e di Ellie, la seconda cameriera di casa – davvero un bel ragazzo. A vent’anni aveva i capelli ricci ma non ribelli, neri, la pelle chiara e un paio d’occhi di un azzurro tendente al grigio, ma il cui colore tendeva a mutare a seconda della luce che li colpiva. Era snello ed alto, più della media della sua età, atletico e statuario. Le cameriere dicevano spesso che avrebbe fatto strage di cuori, una volta adulto, e anche se John non capiva cosa volessero dire, poteva fidarsi quando le stesse descrivevano il più piccolo degli Holmes come “bello”. John non capiva il concetto di bellezza ma se, a detta degli altri, Sherlock lo rappresentava, allora poteva prenderlo come termine di paragone e cominciare a comparare qualsiasi altra cosa (o persona) con Sherlock.
Fin’ora, niente e nessuno lo superava,
Non ci volle molto prima che la porta della sala si aprisse e Sherlock entrasse. John non lo vedeva più così spesso, dato che il ragazzo non richiedeva quasi mai la sua presenza, dunque l’androide approfittò della situazione per poterlo osservare. Insieme a lui vi era un secondo ragazzo, probabilmente suo coetaneo, con i capelli castano ramato mossi e gli occhi di un color indaco particolare. Sogghignò quando lo vide e, nel giro di pochi passi, fu davanti a John.
« È una meraviglia! » esclamò lo sconosciuto, osservando John da capo a piedi. « È... una meraviglia! » disse di nuovo.
« Victor, ti stai ripetendo » commentò Sherlock dalla porta, sulla quale era rimasto.
« Fottiti, Sherlock ».
« Fallo tu ».
Il ragazzo chiamato “Victor” scosse rassegnato la testa, afferrando la mano sinistra di John e alzando il polsino della camicia per poter leggere la sua sigla: « SBAT-5... è un modello che non ho mai sentito » commentò.
« Perché è un prototipo. Il suo progetto non è stato ulteriormente sviluppato » rispose Sherlock.
« Questo significa che è l’unico del suo genere? ».
« Se la vuoi pensare in questo modo... » Sherlock sbuffò spazientito. « Hai finito? » domandò poi.
« Avevi detto che potevo passare del tempo con lui! » esclamò Victor, interdetto.
Sherlock roteò gli occhi. « Due minuti bastano e avanzano » tagliò corto.
« Ma– ».
« Victor, è un robot. Una scatola vuota. Un soprammobile. Cosa c’è di così interessante? Senza contare che, prototipo o meno, è un modello vecchio di dieci anni e questo fa di lui un androide da museo. Ora possiamo passare oltre e andare in camera mia? » domandò con impazienza.
John strinse i denti. Qualcosa scattò, da qualche parte dentro di sé, in un suo circuito o in una qualche manciata di bit di memoria. Qualcosa di negativo e di... fastidioso.
Non lo diede a vedere. Ebbe improvvisamente voglia di strappare la propria mano dalla presa del ragazzo ma non lo fece, in quanto mancanza di rispetto nei confronti di un essere umano – un amico di Sherlock, per di più, cosa più unica che rara. Si limitò a lasciar cadere la mano al suo fianco quando fu Victor a lasciarla e, senza dire una sola parola, lo osservò camminare in direzione della porta – e di Sherlock – con sguardo neutro.
Fu quando notò che Sherlock aveva intenzione di proseguire senza rivolgersi a lui che prese parola.
« Signorino? » chiamò, voce calma, pacata.
Sherlock si fermò e lo guardo con il mento alzato, in quel suo atteggiamento strafottente che ultimamente era diventata la sua arma personale contro chiunque. A quanto sembrava, anche contro di lui.
« Il controllo giornaliero di sistema ha rilevato un malfunzionamento dell’interfaccia caratteriale e delle relative impostazioni di sistema. Posso chiederle se sarebbe disposto ad una manutenzione? » chiese.
Sherlock inarcò un sopracciglio, l’espressione quasi disgustata. « Chiedilo a Mycroft » gli disse solamente, sparendo velocemente alla sua vista seguito a ruota da Victor, che prima di uscire gli fece un piccolo cenno con il capo.
Una volta da solo, John abbassò lo sguardo sulle proprie mani. Aprì e chiuse le dita, stringendo le labbra ed aggrottando le sopracciglia.
« Non sono una scatola vuota... » sussurrò a se stesso.
 
 
 
Erano ormai le undici di sera quando bussò alla porta del vecchio studio del signor Holmes, ora proprietà del figlio maggiore Mycroft. La cena organizzata dalla signora Holmes era finita da circa mezz’ora, dunque John aveva di nuovo la libertà di muoversi per casa.
Il suono delle sue nocche contro il legno scuro risultò netto e la risposta che arrivò dall’intero della stanza fu chiaramente udibile grazie al silenzio regnante nella casa. Ricevendo il permesso di entrare, John aprì la porta.
Il ventisettenne Mycroft Holmes era seduto alla scrivania nel centro della stanza ed indossava un paio di occhiali da riposo. Da quando, otto anni prima, era diventato proprietario della Holmes Robotics Corporation non aveva più molto tempo da dedicare ad altro, ma ogni sera tornava a casa e passava almeno qualche ora nello studio a leggere i rapporti dei ricercatori della compagnia in merito ai nuovi modelli di robot. Negli ultimi dieci anni la Holmes Robotics aveva lavorato più che altro per l’Esercito e la Marina del Regno, ma ultimamente aveva cominciato a progettare una grande distribuzione di robot domestici a tutta la popolazione britannica, il prezzo ribassato per poter permettere alla maggior parte delle famiglie di avere un proprio droide in casa. Ovviamente non erano esemplari complicati come quelli riservati alle forze armate, ma gli spot televisivi garantivano la loro sicurezza e la loro utilità nelle faccende domestiche. John aveva visto uno di quegli spot mentre aiutava Ellie a lucidare l’argenteria.
« John. Entra pure » gli disse Mycroft, alzando lo sguardo dai documenti per concentrare la sua attenzione su di lui. « Cosa posso fare per te? » domandò poi.
John, annuendo, fece un passo avanti e richiuse delicatamente la porta. « Signor Holmes, il controllo giornaliero di sistema ha rilevato un malfunzionamento dell’interfaccia caratteriale. È disposto ad una manutenzione di sistema? » domandò, in un modo molto simile alla richiesta fatta a Sherlock qualche ora prima.
Mycroft lo guardò accigliato per un istante. « Credevo che alla tua manutenzione ci pensasse Sherlock » disse, alzandosi però dalla sedia per recuperare qualche cavetto di collegamento dalla libreria alla sua destra.
John si avvicinò alla scrivania. « È stato il signorino stesso a mandarmi da lei, signore » rispose, scoprendosi le nuca e aprendo con un tocco il relativo vano per i collegamenti.
Mycroft non commentò. Si limitò a collegare i cavetti agli spinotti nella nuca di John e, dall’altro capo, al proprio computer portatile. Il maggiore degli Holmes ci mise solo pochi minuti a scavalcare le misure di sicurezza che Sherlock aveva impostato quasi dieci anni prima e subito cominciò a navigare fra le impostazioni di sistema di John con l’agilità e la capacità che solo un vero esperto di Robotica poteva avere.
« Noto che le mie impostazioni di sicurezza sono facilmente scavalcabili » commentò il robot, che ovviamente vedeva tramite gli occhi chiusi tutto ciò che Mycroft stava facendo.
« Non è di certo Fort Knox » commentò l’uomo: « inoltre sono state impostate molti anni fa. Più il tempo passa e più determinate parti del software vengono riscritte e cominciano a cedere... mi delude il fatto che Sherlock non si prenda cure di te in modo costante, dato che è stato lui ad insistere per averti » disse.
John non rispose. Avrebbe voluto dire qualcosa come “probabilmente mi aveva visto solo come un gioco interessante” ma evitò, non trovando logica in quella frase e una ragione valida per pronunciarla.
Mycroft trovò velocemente alcuni piccoli malfunzionamenti che lo stesso androide aveva rilevato ma ignorato, in quanto ancora trascurabili. Implementò il codice e ne sostituì alcune parti con una velocità impressionante ma, quando arrivò finalmente all’errore a cui John si riferiva, si fermò.
« C’è qualche problema? » domandò l’androide.
Mycroft sospirò. « Non posso correggerti questo errore, John, in quanto non è un errore. Il tuo sistema di controllo lo riconosce come tale, ma non lo è affatto » disse.
« Posso chiedere dei chiarimenti? » domandò allora il droide.
« È una stringa diversa di codice » spiegò Mycroft: « l’hai creata tu ».
John rimase in silenzio per qualche secondo, riflettendo su quanto gli era stato appena detto, prima di ribattere: « non credo sia possibile ».
Sentì Mycroft sospirare. « Lo è. Ma non posso spiegarti il perché qui » disse, chiudendo il programma e scollegandolo dal proprio notebook. « Domani verrai con me alla Holmes Robotics Corporation. C’è qualcosa che devi sapere » disse poi.
John, rassettandosi, annuì. « Sì, signor Holmes » confermò.
 
 
 
L’accesso ai laboratori di ricerca della Holmes Robotics Corporation era severamente vietato a chiunque non vi lavorasse direttamente. Le impronte digitali e retiniche di ogni singolo scienziato erano state salvate su un hard drive esterno, non collegato direttamente al sistema centrale dell’azienda, che gestiva solamente le entrare e le uscite dai laboratori di ricerca. Oltre alle impronte biometriche, ogni impiegato era anche munito di un pass magnetico collegato ad un codice strettamente personale.
Poi, ovviamente, c’era Mycroft Holmes. In quanto figlio maggiore del precedente Direttore Generale e attuale Direttore Generale, le sue impronte biometriche erano automaticamente salvate su tutti i sistemi e garantivano l’accesso ad ogni angolo dell’azienda senza bisogno di codici personali. Come lui, tutta la famiglia Holmes aveva quella libertà di movimento all’interno dell’HRC: era stata una scelta di Siger Holmes e Mycroft, rispettando quella decisione, non aveva modificato nulla.
Fu così che il maggiore degli Holmes aprì l’ingresso principale agli archivi la mattina successiva, sotto gli occhi attenti di John che ne osservava i movimenti. Appoggiò la mano su di un rilevatore di impronte digitali e, automaticamente, alzò gli occhi in direzione di una piccola telecamera ad infrarossi che fece una scansione retinica dei suoi occhi. Nel giro di pochi secondi ebbe libertà d’accesso e la porta, precedentemente chiusa ermeticamente, si aprì davanti a lui.
Mycroft la superò e John lo seguì all’interno dell’archivio privato della Holmes Robotics Corporation, le cui luci si accesero automaticamente non appena la porta si richiuse alle loro spalle.
Era composto da un lungo corridoio in marmo nero ai cui due lati si ergevano file e file di enormi pannelli in vetro ultra-resistente, sottili come lo schermo di un cellulare e leggermente opachi, numerati per anno crescente partendo dall’ingresso verso il fondo. Nell’ambiente l’aria sembrava rarefatta e non dovevano esserci più di venti gradi centigradi, temperatura tenuta costante grazie a sistemi di ventilazione e climatizzazione autonomi.
Mycroft cominciò a controllare le date sulle varie lastre di vetro della parte sinistra, cercano un anno in particolare. Non aveva ancora detto una parola da quando avevano lasciato la tenuta Holmes quella stessa mattina se non qualche indicazione alla sua segretaria, Anthea, dicendole di spostare tutti gli appuntamenti della mattinata. John immaginava che come Direttore Generale avesse molto da fare, ma allora perché prendersi tutto quel disturbo solo per lui? Dopotutto, come aveva detto Sherlock, era soltanto un robot.
Stava per chiederlo quando, anticipandolo, Mycroft prese parola. « Conoscevi mio padre, non è vero? » domandò, la voce bassa ma che nel silenzio totale di quel luogo era più che ben udibile.
John annuì. « Il signor Siger Holmes mi ha creato » rispose.
Ma la risposta che diede Mycroft fu una sorpresa anche per lui.
« Non è esatto » disse l’uomo. Arrivò poi alla lastra di vetro che gli interessava, con la data di undici anni prima, e con un lieve gesto della mano la tirò fuori in modo che stesse davanti a loro come uno schermo. Cosa che, in realtà, probabilmente era.
« Accesso dati privati dell’archivio generale » disse Mycroft. Lo schermo vitreo si accese e su di esso comparve una scritta.
Timbro vocale riconosciuto: Mycroft Holmes, Direttore Generale. Accesso dati sensibili acconsentito.
Una barra di caricamento comparve subito dopo quelle parole, indicando un caricamento dati del 15% in corso. Gli ci vollero pochi istanti per completarlo e, automaticamente, apparve sullo schermo un numero enorme di cartelle di file i cui nomi erano sigle unite a date. Mycroft fece scorrere verso il basso la schermata con la mano finché non trovò il file che gli interessava, una cartella con su scritto “SBAT-5 PROT PROJ” che aprì con un semplice tocco del dito.
« Mio padre era una persona geniale » riprese poi il discorso Mycroft, sfogliando al contempo i veri file contenuti nella cartella: « un genio della Robotica e della meccanica cibernetica. Ha fondato il primo gruppo di ricerca sulle applicazioni della Robotica all’età di vent’anni e, in poco più di un lustro, quel piccolo gruppo sconclusionato è diventato la Holmes Robotics Corporation » disse.
John lo ascoltò in silenzio.
« Tuttavia il genio più spiccato porta spesso a carenze di qualche tipo. Nel suo caso, la famiglia. E, nei suoi ultimi anni di vita, il disprezzo, o il totale disinteresse, per l’etica professionale » disse Mycroft, fermandosi su di un documento ed aprendolo con un altro tocco del dito indice in modo che fosse pienamente visibile.
John vide il suo volto in alto a destra di quello che sembrava un certificato di arruolamento nella RAMC, l’Esercito di Sua Maestà. Era più giovane di ora ma era inequivocabilmente una sua fotografia.
« Undici anni fa mio padre diede inizio ad un progetto... particolare. Geniale, certo, come tutto ciò che faceva, ma eticamente al limite della decenza » riprese Mycroft. « Sai qual è la differenza fra robot e cyborg, John? » gli domandò poi.
« Un cyborg è un essere cibernetico che contiene anche parti biologiche. Un robot non ha alcuna parte biologica, è un automa completamente meccanico » rispose puntualmente il robot, gli occhi incollati sul certificato in bella vista sullo schermo.
Holmes, senza nemmeno guardarlo, annuì. « L’Esercito si rivolse a mio padre per sapere se fosse possibile curare i soldati feriti di ritorno dalle campagne di guerra con sostitutivi cibernetici. Praticamente, era l’inizio di quello che oggi è il nostro programma di cura per soldati feriti in battaglia. Ma mio padre si spinse oltre » disse.
Solo allora John voltò il capo verso Mycroft, osservandolo.
« Si domandò se fosse possibile rafforzare i soldati rendendoli cyborg. Sostituire lo scheletro osseo con uno in titanio, fortificare i muscoli delle gambe e delle braccia con polimeri elastici resistenti agli urti e ai traumi, creare una cassa toracica che proteggesse gli organi interni dai proiettili. Ma, secondo lui, non era ancora abbastanza. La componente biologica era il punto debole dell’intera struttura e lui, abituato a pensare da ingegnere, non poteva sopportarlo. Così fece il passo successivo: perché non robotizzare un essere umano? Sostituire ogni parte biologica con una artificiale. Praticamente, costruire un robot partendo da una base biologica umana » spiegò.
John aggrottò le sopracciglia con fare pensoso. Tornò a guardare la propria fotografia sullo schermo e il suo cervello positronico fece il resto, connettendo i punti logici a sua disposizione per creare una teoria di senso compiuto.
« Significa che io ero... »
« Umano » lo interruppe Holmes. « Sì ».
John non sapeva cosa pensare. Il suo cervello positronico elaborava quell’informazione come logica e coerente ma c’era una parte dentro di lui, quell’errore di programmazione nascosto nell’antro più buio dei suo sistema, che urlava una sola frase: “non è giusto”.
Tornò ad osservare il giovane John della fotografia e, per la prima volta, lesse il suo – proprio – nome completo.
John Hamish Watson.
Dovette riprovare due volte prima di riuscire a parlare. « Usare esseri umani per le sperimentazioni non è... immorale? » domandò. Le Tre Leggi non lo aiutavano a trovare la soluzione di quel particolare enigma.
Mycroft continuò ad osservare lo schermo senza nemmeno vederlo. « Corrompere gli alti ufficiali dell’esercito non fu difficile. Gli esseri umani vogliono il potere. Gli inviarono annualmente la “materia prima”: soldati feriti in guerra e giudicati irrecuperabili. Prima di te ve ne furono quattro » gli disse.
« Cosa ne è stato di loro? » domandò allora John.
Holmes dovette prendersi un secondo prima di rispondere. « Sostituire le componenti umane principali con altre meccaniche non è poi così difficile. Ai robot non serve un cuore battente, non serve un respiro ininterrotto, non serve cibo. Da quel punto di vista, svuotare un essere umano e rimpiazzarne gli organi e i tessuti è meccanicamente fattibile. Ma il cervello... quello si rivelò il problema principale » disse. « Tutto ciò che comprende la funzionalità del cervello umano può essere ridotto ad impulsi elettrici a basso voltaggio, le cosiddette sinapsi. Il cervello positronico funziona allo stesso modo ma, al contempo, non è la stessa cosa. Ci sono complicatissimi equilibri chimici dietro ciò che per noi umani è la normalità, dietro il nostro essere sensibili e sentimentali, dietro ad ogni emozione che riusciamo a provare. Equilibri che un robot non può avere. Questo fu il grande dilemma di mio padre: riuscire a scaricare la personalità umana da un cervello biologico ad uno positronico senza eliminare del tutto la capacità di provare emozioni e sentimenti. Voleva riuscire a fare un download dell’umanità di un individuo » spiegò. Sospirò, poi, scuotendo il capo. « Inutile dire che i tentativi fallirono uno dopo l’altro. I primi due esemplari morirono, uno non venne nemmeno attivato ed il quarto fu de-assemblato ».
Lui stava per essere de-assemblato, ricordò John. Sherlock lo aveva trovato proprio poco prima che Siger Holmes desse l’ordine di porre fine alla sua esistenza.
Ora, di fronte a queste nuove informazioni, la prospettiva del de-assemblaggio sembrava più grave, sbagliata, sgradita.
Compiere il prossimo passo logico non fu così complicato, alla fin fine.
« Allora, quell’errore di programmazione che i miei sensori continuano a segnalare... »
« Non è propriamente un errore » confermò Mycroft. « Sono stringhe di codice auto-creatisi all’interno del tuo sistema principale. Praticamente, sono dati che tu stesso hai creato e continui a creare. Personalmente, penso che siano i tuoi ricordi: ciò che impari, ciò che sperimenti, la tua esperienza. E, seguendo il ragionamento consequenziale, oserei dire che siano le tue emozioni. La tua personalità » affermò. « E pensare che mio padre ti considerava un fallimento ».
Sì, John ricordava anche quello. Il commento sprezzante dei primi momenti di attivazione. La convinzione di tutta la sua esistenza dal momento in cui Sherlock lo aveva trovato, nelle viscere dei laboratori di ricerca.
Ma sapere che una volta era umano non lo aiutava a capire cos’era ora. Sapere che sarebbe morto, se non fosse stato trasformato in... in cosa? Cyborg, robot? Cos’era in realtà? Un collage uscito male, un esperimento, un... errore?
« Cosa sono io? » domandò infine. « Umano o robot? ».
« Robot » fu la risposta di Mycroft. « Sei parzialmente sottomesso alle Tre Leggi e non c’è nulla di biologico, in te. Dal punto di vista fisico non ci sono dubbi. Tuttavia... » una piccola pausa: « ...sei anche, potenzialmente, umano ».
 
 
 
Rientrarono a casa quella stessa sera, in silenzio.
John non si ricordava da quando aveva cominciato a pensare così tanto. All’inizio si limitava solo ad ascoltare il silenzio ma ora, in ogni momento libero, rifletteva.
Umano o robot? Poteva davvero provare sentimenti? E non era questa, non era la capacità di essere emotivamente senzienti, ciò che rendeva gli esseri umani... beh, umani?
Si chiese come doveva essere provare delle vere emozioni. Riusciva a leggerle così bene sui volti degli altri che non si era mai domandato se, in un qualche modo strano e complicato e incomprensibile, potesse provarle anche lui. Se, nella confusione che ogni tanto lo invadeva, potessero esserci una o due sensazioni che lui semplicemente non riusciva a discernere. A cui non riusciva a dare un nome.
L’auto nera si fermò esattamente davanti al portone d’ingresso della tenuta Holmes e John scese, seguendo Mycroft in casa. I domestici sapevano della sua momentanea assenza ed il motivo ufficiale era stato quello di alcune riparazioni di routine. Era stato lo stesso Mycroft a dirgli di dare questa motivazione se qualcuno avesse chiesto e John non aveva alcuna intenzione di disobbedire all’ordine.
Dopotutto, forse era meglio continuare ad essere un robot. Che vita poteva mai avere come umano a metà? Umano meccanico? Robot umanoide?
Non sapeva nemmeno più come definirsi.
Osservò il maggiore degli Holmes salutare l’autista e salire, elegante come se ce l’avesse nel sangue, i gradini fino al portone di casa. Tirò fuori la chiave dalla tasca e, girandola un paio di volte, entrò per primo lasciando che fosse John a chiudere la porta. Solitamente non c’era nessuno ad aspettare il rientro a casa di Mycroft, dato che arrivava puntualmente pochi minuti prima che fosse servita la cena (e dunque tutti erano già seduti a tavola).
Ma non quel giorno.
Sherlock, seduto in cima alla prima rampa di scale che portava al secondo piano, li aspettava in silenzio.
Aveva lo sguardo severo, notò John, e nonostante fosse diventato difficile per lui “leggere” Sherlock, sembrava che in quegli occhi azzurri brillasse una scintilla di rabbia.
Quando sia Mycroft che John posarono lo sguardo su lui, Sherlock alzò il mento in quella sua tipica espressione superiore e di sfida. Si alzò in piedi con un gesto rapido e, fissando il fratello maggiore dall’alto della gradinata, prese parola.
« Dove l’hai portato? » domandò, secco.
Mycroft inarcò un sopracciglio. « In azienda » rispose semplicemente.
« Perché? » incalzò Sherlock.
« Manutenzione » rispose Mycroft: « se non sbaglio sei stato proprio tu a dire a John di rivolgersi a me, ieri sera. Dato che non avevo gli strumenti necessari in casa, questa mattina l’ho portato con me » spiegò, calmo.
Dopotutto, Mycroft Holmes poteva dirsi l’unico al mondo capace di avere l’ultima parola con Sherlock.
A quella risposta, il minore degli Holmes arricciò il naso in una smorfia di fastidio.
Mycroft continuò a guardarlo con interesse. « Cosa ti turba, fratello? » domandò poi.
Sherlock fece schioccare la lingua. « Non amo che gli altri tocchino le mie cose » disse.
Mycroft soffiò fuori una risatina. « Dovresti avere più cura delle tue cose, allora, invece di giocare all’adolescente sessualmente frustrato con il figlio dei Trevor » rispose a tono.
Sherlock sembrò ancora più indispettito. « Questi non sono affari che ti riguardano, Mycroft » sibilò con rabbia.
Poi, il suo sguardo tagliente passò dal fratello a John.
« Mi servono delle lenzuola pulite » gli ordinò, indicandogli implicitamente di andare in camera sua.
John, facendo vagare per un attimo lo sguardo su Mycroft – che era intento a togliersi la giacca e a posare l’ombrello nel portaombrelli dell’ingresso – annuì in direzione del fratello minore. « Sì, signorino » confermò, cominciando a salire le scale.
Sherlock lo lasciò passare senza rivolgergli la parola, o un solo sguardo.
E per la prima volta, John sentì prepotente la voglia di urlare.
 
 
 
Nei quattro mesi successivi la situazione non migliorò. Anzi, a livello generale probabilmente non fece altro che peggiorare.
Sembrava, nonostante fosse ormai adulto, che la fase di ribellione giovanile di Sherlock non avesse mai fine. Si era iscritto alla facoltà di chimica del King’s College, sotto consiglio di sua madre, ma all’improvviso aveva interrotto gli studi senza dire una parola. I suoi voti erano ottimi, così come la sua carriera universitaria, ma lui non ebbe la minima intenzione di continuare. Questo procurò una serie infinita di problemi fra lui e la madre Violet – come se non ce ne fossero già abbastanza – e Mycroft, che si era trasferito in una casa più vicina al centro città, fu costretto per il bene dell’intera famiglia ad intervenire per placare le ire della madre. Cosa che Sherlock non apprezzò e che lo portò a ribellarsi ancora di più.
Non era praticamente mai a casa. Non rientrava se non per quelle poche ore di sonno ogni notte e, con l’avvicinarsi dell’estate, non si fece vedere nemmeno durante le ore notturne. Il suo aspetto era cambiato, John lo notava quelle poche e rare volte che riusciva ad intravederlo mentre usciva di casa o rientrava nella propria stanza: più sciupato, i capelli lunghi e spettinati a sfiorargli il collo, un colorito pallido ed una magrezza sconcertante. John cominciò a provare preoccupazione quando un raffronto altezza/massa corporea gli indicò Sherlock come leggermente sottopeso. Il suo colorito grigio poi era tutt’altro che sano e, di questo, se ne accorse anche Mycroft.
Tuttavia non poté far nulla. Era impegnato a gestire l’azienda e la sempre più prossima distribuzione di massa dei robot domestici, dunque un fratello ribelle era una delle sue ultime preoccupazioni.
E John, da parte sua, non poteva fare alcun che. Sherlock si rifiutava di parlare con lui e aveva persino smesso di dargli qualsiasi tipo di ordine. Non lo voleva fra i piedi e lui non aveva alcun diritto di disturbarlo, anche se sentiva, da qualche parte dentro di sé, il bisogno di farlo.
Ma nulla cambiò.
Almeno fino all’inizio di ottobre quando, in una notte di vento, alle tre del mattino suonò il campanello della tenuta Holmes.
John, che di solito passava le sue nottate in piedi nel corridoio alla base della scalinata, voltò piano la testa in direzione della porta.
In tutti gli anni che aveva passato ai comandi degli Holmes, nessuno aveva mai suonato alla porta ad un’ora così tarda. Si chiese se non fosse per un’emergenza e subito collegò l’accadimento al fatto che Sherlock non aveva ancora fatto rientro. Che riguardasse lui?
Prima che rispondesse al proprio istinto di andare ad aprire, però, alcun passi al primo piano lo bloccarono al suo posto. La luce nel corridoio al piano superiore si accese e la signora Holmes si affacciò al pianerottolo, i capelli sciolti ed una vestaglia blu a coprirle il pigiama.
Osservò pensosa la porta d’ingresso, il cui campanello suonò una seconda volta, poi il suo sguardo freddo e severo ricadde su di lui. « Vai ad aprire » gli ordinò.
« Sì, signora » confermò John e, arrivando in pochi passi all’ingresso, aprì la porta.
Davanti a lui, riparandosi alla bene e meglio la gola con il colletto di un impermeabile scuro, un uomo attendeva sulla soglia. Aveva i capelli corti spruzzati di grigio sulle tempie ma, a dispetto di quel particolare, non sembrava molto più vecchio di Mycroft. Lo osservò con espressione naturale, come se fosse abituato a presentarsi a casa della gente alle tre del mattino.
« È questa casa Holmes? » domandò, più per conferma che per insicurezza.
John annuì.
« Sono il Detective Sergeant Lestrade di New Scotland Yard » si presentò quello facendo vedere il distintivo: « lei è un membro della famiglia? » domandò poi.
Jonh aggrottò leggermente le sopracciglia. « Io sono il robot domestico al servizio della signora Violet Holmes. La signora non può riceverla al momento, ma può parlare con me » disse.
Lestrade spalancò gli occhi. « Accidenti... non ne avevo mai visto uno così realistico » commentò, per poi tornare al motivo che lo aveva portato lì: « sono qui per via di Sherlock Holmes. Questa notte è stato trovato in stato di incoscienza nell’East End. Ora è ricoverato al St. Bartholomew Hospital, i medici dicono che si tratta di overdose » comunicò, prima di aggiungere un: « mi dispiace ».
Qualcosa, dentro John, scattò malamente. Come un ingranaggio che non combaciava più con quelli vicini e girava a vuoto, grattando gli altri. Strinse le labbra senza nasconderlo e dovette aspettare qualche istante prima di riuscire a dire qualcosa.
« Informerò la signora Holmes non appena mi sarà possibile. La ringrazio, Sergente » disse però in tono neutrale, ovvero quello che ci si aspettava da un robot.
Lestrade, anche se palesemente deluso dalla mancanza di considerazione che quella famiglia sembrava dimostrare, annuì. « Ho mandato qualcuno ad avvisare anche il signor Mycroft Holmes, nel caso servisse » aggiunse.
« È stato gentile da parte sua » rispose John.
Lo guardò allontanarsi sotto il vento impetuoso – probabilmente si stava avvicinando un temporale – e richiuse la porta solo quando il poliziotto fu rientrato in auto.
Si assicurò di aver chiuso bene prima di girarsi in direzione della padrona di casa, che aveva ascoltato l’intera conversazione dal pianerottolo. Non si era scomposta dalla sua posizione ritta ed elegante e non sembrava più turbata di quando non lo fosse prima di scendere dal letto.
« Ci mancava solo questa... » fu l’unica cosa che disse, facendo per girarsi e tornare a dormire.
John decise di intervenire.
« Non ha intenzione di andare in ospedale, signora? » domandò.
Violet si fermò e gli riservò un’occhiata da sopra la spalla. « È stato mio figlio a cacciarsi in questa situazione, da solo, e da solo ne verrà fuori. Ormai è adulto, sa badare a se stesso » disse.
John non sapeva se ciò che sentiva nei confronti di quella donna era odio, o rabbia, ma di sicuro era qualcosa di negativo. « Potrei raggiungerlo io, allora? » domandò invece.
Violet lo guardò per qualche istante, ponderando in silenzio, poi fece spallucce. « Se lo desideri, vai pure » gli diede il permesso, ritirandosi in camera sua e chiudendo la porta dietro di sé.
 
 
 
John non rimise più piede all’interno della tenuta Holmes.
Una volta che Sherlock si fu ripreso dall’overdose, Mycroft lo obbligò a stare a casa sua per tutto il tempo del recupero e della riabilitazione. Andò in overdose un’altra volta prima di arrendersi all’evidenza che il fratello non lo avrebbe abbandonato né gli avrebbe permesso di portare avanti l’opera di lenta autodistruzione che sembrava essere voglioso di continuare.
Ma, alla fine, dovette desistere.
Arrivò così la primavera. Sherlock aveva ormai ventidue anni e aveva passato l’ultimo seduto alla finestra a guardare un punto indefinito del paesaggio esterno. Aveva i capelli ormai lunghi fino quasi a sfiorargli le spalle, ricci e spettinati, e nonostante John gli cucinasse due pasti al giorno sembrava aver preso solo qualche chilo, comunque non sufficienti per rimetterlo completamente in forma. I medicinali che doveva prendere quotidianamente gli davano sonnolenza e finiva per dormire interi pomeriggi per poi passare notti praticamente insonni, che occupava leggendo o scrivendo chissà cosa sul proprio computer. Pochissime volte lo aveva visto uscire di casa e, quando lo faceva, non andava oltre la soglia.
John non era un medico – beh, poteva dire di non esserlo più – ma possedeva in memoria parecchi megabyte sulle malattie infettive, batteriologiche, fungine e psicologiche. Sapeva riconoscere i sintomi della depressione, quando li vedeva.
L’unica cosa che poteva fare, però, era stargli vicino il più possibile, così lo fece. Cominciò fin da subito a passare le giornate con lui e, se le prime volte Sherlock gli diceva di andarsene, con il tempo accettò in silenzio la sua presenza. Parlava molto meno rispetto a quando era piccolo – e ancora meno rispetto alla sua travagliata adolescenza – ma John non lo forzava in alcun modo di farlo; quello che voleva era rimanere al suo fianco, stare nello stesso posto allo stesso momento, e se per riuscirci doveva rispettare il silenzio di Sherlock, lo avrebbe fatto. Per lui, che non poteva dormire e dunque passava intere nottate ad ascoltare i propri pensieri, il silenzio andava più che bene.
Per occupare il tempo, leggeva.
Glielo aveva consigliato Mycroft, in realtà. Essendo un robot con la capacità insita di imparare dai propri sbagli e da fonti esterne al proprio data base, la lettura poteva essere un ottimo aiuto all’apprendimento. Aveva perciò cominciato a leggere i romanzi e le opere più famose, comprese Bibbia e Corano, per poi passare alla letteratura inglese.
Quando Sherlock finalmente gli parlò, un giorno assolato di fine primavera, era a metà de “Il Ritratto di Dorian Gray”.
« Perché sei sempre tu? ».
John alzò gli occhi dal libro, quasi dimentico del suono della voce di Sherlock tanto da non riconoscerla. Il tono era basso ma le parole limpide e schiette.
« Cosa? » domandò a sua volta, non riuscendo a capire la domanda che gli aveva posto.
Sherlock, sedutogli di fronte, distolse lo sguardo dalla finestra e lo posò su di lui.
« Perché sei sempre tu? » ripeté: « a starmi vicino, a prenderti cura di me. Perché sei sempre tu? » chiese.
John memorizzò il numero di pagina e chiuse lentamente il libro. « Perché è il mio compito » rispose.
Sherlock sbuffò. « No, non è vero. Il tuo compito è fare quello che ti viene ordinato. Portarmi da mangiare un paio di volte al giorno e cambiarmi le lenzuola. Magari anche controllarmi, di tanto in tanto. Ma non credo che Mycroft ti abbia espressamente ordinato di stare con me ventiquattro ore su ventiquattro. Dunque la domanda resta » ribatté.
John lo osservò attentamente per qualche secondo e dovette pensarci bene, prima di rispondere. « Lo faccio perché lo voglio » disse alla fine.
Sherlock arricciò l’angolo delle labbra in un ghigno. « Di nuovo... » commentò: « ...è proprio come allora. “Voglio”. Volere. Tu sei un robot, una scatola piena di fili e circuiti, come puoi volerlo? » domandò.
John abbassò gli occhi, un sorriso che si sarebbe potuto dire triste sulle labbra. « Forse non sono solo una scatola piena di fili e di circuiti » rispose.
« E cosa saresti? ».
Avrebbe voluto rispondere “un essere umano” ma si fermò ancora prima di pronunciare quella frase. No, non poteva essere umano. Non lo sarebbe mai stato. Ma non era nemmeno un robot, non nel vero senso del termine. Non poteva esserlo. Questo cosa lo rendeva?
« Un errore » rispose dunque. La voce assunse una sfumatura malinconica nell’ammetterlo.
Sherlock lo guardò per qualche istante poi, sospirando, spostò di nuovo lo sguardo sulla finestra. « Rasserenati » disse: « sono sicuro che continuano a dirlo anche di me ».
Cadde il silenzio. Di nuovo. John era indeciso se riaprire il libro e continuare la lettura o no. Non voleva sprecare il momento in cui finalmente Sherlock aveva ripreso a parlargli, anche se sgarbatamente e con supponenza, perché voleva dire poter sentire la sua voce senza che gli abbaiasse ordini. Sfiorò l’angolo della rilegatura in tessuto e, schiudendo le labbra, disse: « John Hamish Watson ».
Sherlock lo guardò con la coda dell’occhio. « Chi è? ».
« Io » rispose John. « Era il mio nome. Il mio nome da umano » specificò.
L’attenzione di Sherlock ritornò completamente su di lui. Non disse nulla ma non ce ne fu davvero bisogno: il suo sguardo esprimeva completamente la curiosità che quelle parole avevano fatto nascere in lui.
John non si fece problemi a continuare. « Me lo ha detto il signor Mycroft. Alla Holmes Robotics Corporation c’è un intero file su di un progetto del defunto signor Siger Holmes riguardante il modo per creare un robot partendo da una base umana. A quanto pare, io sono il suo quinto tentativo » disse. « A detta del signor Mycroft, auto-produco un codice che il mio sistema non riesce a riconoscere. Secondo lui sono le emozioni che sviluppo e che traduco automaticamente in stringhe di codice informatico. In sua opinione, ho molte potenzialità ».
Sherlock dischiuse le labbra e lo guardò con espressione sorpresa. « Quindi... riesci a provare dei sentimenti? » domandò poi.
« Teoricamente » rispose John.
« Non fatico a crederlo » disse però Sherlock. « Posso vederlo? » domandò poi.
John annuì.
Il ragazzo si alzò velocemente in piedi dalla poltrona per recuperare il proprio portatile e i cavetti di collegamento, messi chissà dove. John, nel frattempo, mise da parte il libro e si sedette a terra davanti alla poltrona di Sherlock, scoprendo la nuca.
Dopo poco Sherlock si rimise seduto e, avviando il computer, aprì velocemente il quadro comandi di John e collegò l’androide al notebook.
Non aveva perso il tocco, notò subito John. Non era veloce come il fratello maggiore ma Sherlock aveva più classe, più raffinatezza nel navigare all’interno dell’interfaccia utente del suo sistema primario. Notò subito i cambiamenti delle password di sicurezza e, arricciando il naso, vi si precipitò subito.
« Mycroft ha cambiato tutte le mie impostazioni di sicurezza » commentò, stizzito.
« Era necessario per la manutenzione » disse John in sua difesa.
« Poco importa » commentò seccato Sherlock, ripristinando in un ticchettio veloce di tasti i sistemi di sicurezza a suo piacimento. « L’ho già detto, detesto che le persone mettano mano alle mie cose. E tu mi appartieni » specificò.
John non seppe perché, ma quell’affermazione gli procurò una sensazione strana che non seppe come spiegarsi. Forse Sherlock aveva provato del risentimento per lui, in tutti quegli anni, veicolando la rabbia per la morte del padre in mancanza di altri sfoghi. Forse aveva semplicemente perso interesse o forse – molto più probabile – voleva semplicemente smettere di avere a che fare con il mondo che aveva costruito suo padre, di cui John faceva inevitabilmente parte.
Ma ora, dal momento in cui Sherlock aveva ripreso a parlargli e ad interessarsi di lui, il passato non aveva più importanza.
Sulle ginocchia di Sherlock, il portatile emise un breve bip. Sherlock tolse subito le mani dalla tastiera.
« Stai provando un’emozione? » chiese poi.
John inclinò appena il capo. « Non lo so. È tutto molto... emh... » cercò la parola giusta: « ...difficile ».
« Vedo la stringa » lo informò Sherlock: « l’hai appena creata. È incredibile ».
John emise una breve risatina. « Sono felice che la interessi, signorino ».
Sherlock fermò le mani che avevano già ricominciato a volare sulla tastiera. « Sherlock. Chiamami Sherlock » gli disse.
John non poté trattenersi dal sorridere.
« Sì, Sherlock ».
 
 
 
 
 
 
P a r t     I I I
Y o u   c a n   ( n o t )   b e   h u m a n
 
 
 
Era una giornata di sole quella che salutò il 221B di Baker Street. Anche se l’autunno stava cedendo il passo all’inverno, un’insperata alta pressione aveva regalato un paio di giorni di bel tempo alla città e la gente se li godeva nonostante l’aria fosse umida e pungente.
Ovviamente, lo facevano tutti tranne Sherlock Holmes, consulting detective ventinovenne e neo star del web, che preferiva rimanere steso in vestaglia sul divano a lamentarsi della mancanza di casi da risolvere.
John, seduto al tavolo, si era collegato al notebook tramite i cavetti e stava aggiornando il blog con l’ultimo caso risolto da Sherlock. Per gli androidi era facile usare un computer, dato che a loro volta contenevano un sistema operativo, dunque gli bastava collegarsi al portatile e pensare a ciò che voleva scrivere: le parole comparivano da sole senza che lui dovesse mettere mano alla tastiera. Era come intrattenere un dialogo con un’altra macchina che però non poteva rispondere a voce.
Era stato Mycroft a consigliargli di tenere un blog. Essendo un robot senziente, John faticava a mettere in ordine le sensazioni che provava e, oltre che alla lettura, Mycroft pensava che la scrittura potesse aiutarlo ad abituarsi alla sua strana condizione. John non aveva trovato nulla di meglio che scrivere dei casi risolti da Sherlock e così il suo blog, da mero diario vuoto, si era trasformato in una piattaforma di successo per tutti i nuovi fan di Sherlock Holmes. Nonché in una fonte di lavoro per il consulting detective, che riceveva clienti proprio grazie al blog dell’androide.
Di certo non scriveva pezzi di letteratura, ma per lo meno erano grammaticalmente corretti. E Sherlock non poteva certo lamentarsi.
« Mi annoio » borbottò il suddetto dal divano, sbuffando teatralmente.
Beh, non sempre, almeno.
« Sai, statisticamente parlando la maggior parte delle persone normali approfitterebbe di una giornata come questa per fare un giro al parco, o in centro » disse John, metà dell’attenzione concentrata sul suo resoconto e l’altra metà sulle risposte da dare a Sherlock.
« Hai detto bene: le persone normali » ribatté Holmes.
« Categoria in cui tu, evidentemente, non rientri ».
« Perché non abbiamo clienti, John? È da una settimana che non abbiamo un caso » continuò a lamentarsi Sherlock, ignorando una delle poche battute ironiche che l’androide riusciva a fare correttamente con la tempistica giusta.
Ma John non se ne stupì troppo. « Sono passati solo tre giorni » corresse.
« E sono già troppi! » esclamò l’altro. « Mi serve un caso! ».
Se fosse stato umano, probabilmente John avrebbe sbuffato e sarebbe andato a prepararsi un tè. Da robot, si limitò ad osservarlo con un sopracciglio sollevato.
Nei tre secondi successivi, suonò il campanello.
Entrambi fecero scattare lo sguardo alla porta d’ingresso, attendendo che la signora Hudson andasse ad aprire per sentire i passi sulle scale. Sherlock diceva di poter distinguere dalla durata del suono del campanello se fosse una persona che conoscevano o un cliente in cerca di aiuto ma John, anche se riusciva a misurare quella stessa durata praticamente al millisecondo, non era mai riuscito a fare un distinguo.
« Un cliente? » domandò dunque John.
Sherlock arricciò il naso. « Mycroft » sputò poi.
Si sentirono una serie di passi sulle scale e, proprio come aveva predetto Sherlock, il fratello maggiore si materializzò sulla porta del loro appartamento. Diede un’occhiata in giro – molto probabilmente disprezzando il perenne disordine – poi posò lo sguardo su loro due.
« Sherlock. John » salutò.
Sherlock si esibì in una smorfia senza nemmeno guardarlo mentre John, alzandosi dalla sedia, salutò con un reverenziale: « buongiorno, signor Holmes ».
Mycroft annuì in sua direzione. Poi, stringendo le labbra nella sua più efficace espressione di disapprovazione, guardò il fratello minore. « Dovresti imparare la buona educazione dal tuo robot » obiettò.
« Ha un nome » ribatté Sherlock. « Lo hai appena usato. Continua a farlo ».
Mycroft lo ignorò. « Vorrei che guardassi una cosa » continuò, estraendo dalla tasca interna della sua giacca un dischetto olografico. Piegandosi, lo appoggiò sul tavolino da caffè e lo spinse con due dita verso il detective.
« No » disse subito Sherlock.
« Non sai nemmeno cos’è ».
« Un caso » disse l’altro, sicuro di sé. « No » ripeté.
« Non è un caso » disse però Mycroft.
Solo allora riuscì ad attirare un briciolo dell’attenzione di Sherlock che, aprendo gli occhi, lo guardò di sbieco.
« Spiegati ».
Mycroft strinse le labbra un’altra volta e quella non era disapprovazione, no. Quello era un perfetto tentativo di mascherare preoccupazione.
Motivo per cui l’attenzione di Sherlock andò del tutto al fratello maggiore. « Mycroft? » lo incalzò il più giovane.
Il maggiore degli Holmes posò gli occhi su John. « Lascia la stanza » gli ordinò poi.
« No » obiettò Sherlock.
Mycroft sbuffò. « È una cosa di cui non posso parlare in sua presenza » disse.
Ma Sherlock non si smosse. « Se non lo sente da te adesso glielo dirò io dopo. In ogni caso, John lo verrà a sapere ».
Mycroft sembrò rifletterci sopra qualche istante ma poi annuì. Prese posto nella poltrona che spesso occupava John, in modo che potesse vedere sia l’androide che il fratello, poi chiuse gli occhi per trovare la concentrazione necessaria (o le parole giuste). Infine, cominciò a parlare.
« Ci sono stati due episodi di violenza in cui sono coinvolti due robot della nuova serie » disse.
Sherlock si mise seduto. « I Mark-4? » domandò.
Mycroft annuì.
« E sono coinvolti degli umani? » chiese Sherlock.
Mycroft annuì di nuovo.
« È impossibile » intervenne però John: « siamo soggetti alle Tre Leggi. Non possiamo fare del male ad un essere umano, a meno che non sia per proteggerlo e dunque il ferimento risulti come un effetto collaterale dell’azione messa in atto per salvargli la vita ».
« Non c’era nessuno in pericolo di vita » tagliò corto Mycroft.
John rimase in silenzio.
« Ha ragione » intervenne però Sherlock: « sono le Tre Leggi, non si possono... » ma non terminò la frase.
Mycroft lo guardò come se avesse già capito quello che voleva dire. « Sai benissimo che si possono aggirare. Ne hai un esempio in questa stanza » disse, indicando John con il capo.
« John è diverso » disse subito Sherlock.
« Evidentemente anche questi Mark-4 lo erano » ribatté però il fratello, indicando con il mento il dispositivo olografico sul tavolino. « Prova a guardare le fotografie » aggiunse.
Sherlock aggrottò le sopracciglia. « Avviare proiettore olografico » disse poi e, ricevendo il comando vocale, il piccolo aggeggio di plastica nero si attivò e proiettò a mezz’aria una serie di fotografie che Sherlock prese a sfogliare con la mano. Ritraevano scene raccapriccianti di ferite da difesa e robot ormai inattivi crivellati di proiettili. I Mark-4 non erano altro che uno scheletro di acciaio ricoperto da vernice con una testa a forma di lattina, dunque erano sempre facilmente riconoscibili.
« Nel primo caso, un Mark-4 si è ribellato alla sua padrona, una fiorista, e l’ha aggredita con un paio di cesoie. Le ha ferito le mani e gli avambracci prima che entrasse in azione il sistema di sicurezza e gli friggesse il cervello. Nel secondo, un robot ha preso in ostaggio una bambina e minacciava di gettarla in un pozzo. I poliziotti intervenuti sulla scena hanno dovuto ridurlo ad un ammasso di buchi di proiettile per riuscire a deattivarlo » raccontò Mycroft, una sorta di macabra voce narrante alle fotografie che Sherlock e John stavano osservando.
« Ci possono essere un sacco di spiegazioni. Forse una scarsa manutenzione, o degli errori estemporanei di sistema » ipotizzò Sherlock.
Mycroft scosse il capo. « Anche se un robot viene danneggiato, o involontariamente si danneggia da solo, le Tre Leggi non smettono di agire. Non posso fare del male agli umani. Quelle Leggi stono impiantate talmente a fondo che sono praticamente la colonna portante del loro intero essere ».
« Ma, a quanto pare, non è così » disse Sherlock.
Mycroft strinse le labbra. « Per ora questi due incidenti sono stati completamente insabbiati e messi a tacere. La diffusione dei Mark-4 non è virale come per i Mark-3, ma sono comunque molti i robot della generazione 3 che sono rientrati e sono stati sostituiti con un Mark-4. Stiamo pianificando un ritiro temporaneo di quei modelli per procedere alle necessarie riparazioni » disse Mycroft.
Solo allora Sherlock cominciò a guardarlo dubbiosamente. « Se hai già la soluzione al problema, il mio aiuto non ti serve. E se il mio aiuto non ti serve... cosa ci fai qui? » chiese.
Mycroft non rispose. Si limitò a lanciare uno sguardo in direzione di John e Sherlock capì senza bisogno di parole.
« No » disse il fratello minore.
« Sherlock... » cominciò Mycroft, ma Sherlock lo fermò alzando una mano.
« Cosa c’è di diverso? » domandò: « cosa c’è di diverso dal modello 3 al modello 4? ».
« Cosa ti fa pensare che ci sia qualcosa di diverso? ».
« Non prendermi in giro » ringhiò Sherlock: « hai ammesso tu stesso che i problemi riguardano solo la serie 4 e ci deve essere qualcosa di particolare se, improvvisamente, dopo vent’anni che è insieme a noi, tu ti presenti qui per avvertirmi che John potrebbe essere un pericolo per la mia incolumità ».
John spostò lo sguardo da Sherlock a Mycroft con cipiglio preoccupato ma, per volere di Sherlock – che gli fece un cenno con il capo – non disse niente. Lasciò fare tutto a lui.
« Cosa avete aggiunto a quei modelli che ti preoccupa così tanto? » incalzò Sherlock.
Mycroft sospirò. « Intelligenza Artificiale » disse.
Sherlock inarcò un sopracciglio. « Tutti i modelli sono dotati di AI, altrimenti non potrebbero essere senzienti. Era uno dei postulati base di papà sull’assemblaggio dei robot » commentò.
« Non è del tutto esatto » lo corresse Mycroft: « Le AI che nostro padre inseriva nei suoi robot erano modelli semplicistici. Potevano ragionare e sapevano eseguire gli ordini, ma non imparavano dai loro errori e questa è una delle lamentele che ci hanno sempre fatto. Un robot poteva fare lo stesso errore all’infinito se l’ordine veniva impartito nel modo sbagliato » spiegò.
« E quindi cos’avete fatto? Avete implementato l’Intelligenza Artificiale? Li avete resi intelligenti? » domandò.
Mycroft scosse il capo. « Abbiamo dato loro la possibilità di imparare ».
« E come? ».
« Avevamo un prototipo funzionante da cui prendere esempio » disse, lanciando un altro sguardo a John. « L’unica cosa che dovevamo fare era cercare i dati in archivio e costruire un nuovo prototipo di cervello positronico che fosse simile il più possibile a quello di John ».
Sherlock lo guardò con astio. « È per questo che pensi che John sia pericoloso? Perché hai copiato il progetto di papà senza considerare le conseguenze e credi che l’originale non sia diverso? » chiese.
« Non sono così incauto, Sherlock! » esclamò d’un tratto il maggiore degli Holmes, perdendo per un attimo il suo irreprensibile aplomb: « il nuovo cervello positronico è stato testato per anni e non è comparso nessun motivo che ci portasse a considerare conseguenze di questo tipo ».
« Anche a lungo termine? Lasciandolo a contatto con le persone, quelle vere, non scienziati e tecnici di laboratorio? » incalzò Sherlock.
« Avevamo anche quelle proiezioni » disse Mycroft. « L’hai detto tu. Sono passati vent’anni ».
La rabbia di Sherlock ora poteva vedersi distintamente dai lineamenti del viso e dalla postura rigida del suo corpo. John pensò di fermarli, di provare a bloccare la conversazione, ma sapeva meglio di altri che quando due Holmes discutevano nessuno era in grado di porre loro freno.
Passarono un lungo istante in silenzio, guardandosi negli occhi come se stessero parlando con la mente. Alla fine, fu Sherlock a riprendere parola, il tono calmo ma teso.
« Lascia stare John » minacciò.
Mycroft si alzò, lasciando sul tavolino il proiettore olografico e sistemandosi la giacca. « Io ti ho avvertito » disse solamente, lanciando un’ultima occhiata a John prima di girarsi ed andarsene dall’appartamento.
 
 
 
Sherlock aveva risolto l’enigma. Anzi, era stata la soluzione stessa che si era presentata di sua spontanea volontà alla loro porta.
E Sherlock, come al solito, aveva voluto fare tutto da solo, eccitato al pensiero di potersi confrontare con una mente superiore alla media, più simile alla sua. Era tipico di Sherlock dimenticarsi di tutto e tutti quando c’era un ballo una sfida emozionante; non era la prima volta che John veniva lasciato indietro e, probabilmente, non sarebbe stata nemmeno l’ultima.
Tuttavia, quella volta il livello di pericolosità era sfrontatamente alto. Da quando si era reso conto che Sherlock era sparito, salito su di un taxi che non era stato chiamato da nessuno durante una falsa retata antidroga di Lestrade, i suoi sensori avevano cominciato ad indicare un livello di pericolo per la vita del consulting detective sempre maggiore man mano che il tempo passava e, si poteva dire, anche un livello sempre maggiore di quella che poteva essere solo ansia.
Il caso della Donna in Rosa era stato interessante ed impegnativo ma ora si era trasformato in qualcos’altro. Era arrivato ad un altro livello. Il detective era diventato la prossima vittima e se non faceva subito qualcosa, probabilmente Sherlock non sarebbe mai più tornato indietro.
Chissà perché, chissà come, chissà per qualce scherzo di codice, ma John aveva questa sensazione.
Per questo si fece casualmente scivolare fra le mani l’arma d’ordinanza del Sergente Donovan senza che lei nemmeno se ne accorgesse, calcolando al centimetro ogni movimento. Se la nascose sotto il maglione beije, infilandola nella cintola con la sicura inserita. Nel suo enorme database aveva qualche file sul maneggio delle armi e, comunque, aveva l’impressione che la sua memoria pregressa di soldato avrebbe fatto il resto.
Il realtà non c’era motivo per un robot di portare con sé un’arma ma ignorò completamente il fatto che il proprio cervello positronico reagisse in modo negativo. Aveva il controllo di quella parte di sé e avrebbe ignorato qualsiasi comando di auto-sicurezza che il proprio sistema aveva il dovere di attivare. Per il momento la sua volontà aveva il sopravvento sul sistema e così sarebbe rimasto ancora per un po’. Dopotutto, era lui a volerlo.
E c’era un potenziale pericolo per Sherlock, cosa che il suo sistema considerava di priorità maggiore.
Attese in silenzio che Lestrade e gli altri poliziotti lasciassero l’appartamento – senza badare troppo a lui – e, osservando lo schermo del computer utilizzato poco prima da Sherlock, attese che il rilevatore satellitare nel cellulare della vittima localizzasse il telefono – e dunque l’assassino. Ci vollero solo pochi istanti prima che comparisse l’indirizzo del Roland Kerr Further Educational College e, senza perdere un istante, John infilò il cappotto e volò giù per le scale.
Non ebbe bisogno di prendere un taxi. I robot non si stancano e, soprattutto, corrono a velocità superiori a quelle di un normale essere umano. Sherlock insisteva sempre di non rivelare la sua natura di androide alle persone ma in quell’occasione John non prestò molta attenzione, attraversando le strade di Londra a passo spedito seguendo la cartina della città che aveva memorizzato tempo prima. Anche Sherlock conosceva a menadito ogni strada di Londra ma John aveva il vantaggio di poterla consultare senza nemmeno perdere tempo a pensare.
Attraversò come un fulmine il quartiere, prendendo scorciatoie dove possibile e inerpicandosi su cancelli e steccati dall’aria poco stabile. Attraversò un paio di volte la strada senza rispettare le strisce pedonali o i semafori – cosa che fece trillare il proprio sistema di auto-preservazione – ma arrivò comunque al Roland Kerr in poco meno di un quarto d’ora, fermandosi solo quando poté vedere il taxi vuoto parcheggiato davanti all’istituto ed un paio di finestre illuminate ai piani superiori.
Entrò come un fulmine dalla porta principale, prendendo un corridoio che, secondo i suoi veloci calcoli, doveva portare nella parte dell’edificio in cui c’era Sherlock. Non aveva la planimetria in mente e fu per questo che sbaglio ala del palazzo, arrivando sì allo stesso piano ma in una stanza vuota di fronte a quella in cui Sherlock e il tassista assassino stavano parlando.
No, non parlando. Sherlock aveva fra le dita una pillola bianca e rossa.
Veleno. Non poteva essere altro.
Aveva intenzione di ingerirla? Anche l’assassino aveva una pillola fra le mani... era dunque questo il suo gioco? Era così che induceva le vittime a suicidarsi?
John si rese conto di non poterlo raggiungere in tempo. La conformità dell’edificio gli era ormai chiara ma non lo avrebbe mai raggiunto prima che ingerisse la pillola, che si suicidasse com’era volere del tassista omicida.
« Sherlock! » tentò di chiamarlo, di attirare la sua attenzione, ma non vi riuscì. La finestra della stanza dov’era Sherlock era chiusa ed erano distanti diversi metri perché l’altro lo sentisse. Senza considerare che la sua piena attenzione era per la pillola e Sherlock era in grado di non percepire nulla di ciò che lo circondava quando era concentrato esclusivamente su di una cosa.
La mano arrivò alla pistola ancora prima che formulasse il pensiero di afferrarla.
Era l’unica possibilità. Non c’erano altre alternative. Avrebbe potuto attirare la sua attenzione, sparare un colpo in aria o mirando ad una delle pareti della stanza, ma non sapeva se il tassista fosse armato e, con la coda dell’occhio, riusciva a vedere una pistola sul tavolo fra l’uomo e Sherlock. L’assassino avrebbe potuto raggiungerla e per Sherlock non ci sarebbe stato più nulla da fare: sarebbe morto comunque.
Non aveva altra possibilità.
Tolse con il pollice l sicura dell’arma da fuoco e, stendendo il braccio, la puntò con precisione alla testa del tassista. La linea di tiro era libera. Nei suoi occhi si formò subito un sistema di puntamento professionale, completo di calcolo della distanza e direzione del vento, con tacche di mira precise al millimetro.
Però, con esse, si presentò anche il dilemma etico.
All’improvviso, fu come se un tuono gli fosse esploso nel cervello. Poteva fisicamente sentire le Tre Leggi premere per avere la supremazia sulla sua volontà, la Prima Legge imporsi su tutte le altre dandogli l’ordine di non premere il grilletto, di non uccidere un umano. Al contempo, il calcolo delle possibilità di morte di Sherlock aumentava sempre di più, arrivando a livelli critici, e quell’urgenza di salvarlo, il dilemma insito nella Prima Legge che gli diceva cose contrapposte, di non uccidere ma di salvare la vita di Sherlock, non faceva altro che confonderlo.
Se avesse potuto sentire il dolore, probabilmente gli sarebbe scoppiata la testa.
Si portò la mano libera dall’arma alla tempia e digrignò i denti nel tentativo di fare chiarezza nel suo cervello positronico, nel suo sistema intrappolato in un circolo vizioso di ordini discordanti e di una volontà che non aveva abbastanza peso dentro di sé per controllare ogni singola Legge che governava la sua esistenza androide.
Sentì il proprio sistema piegarsi su se stesso e cominciare i protocolli di spegnimento d’emergenza. L’unico modo per fare chiarezza era, in definitiva, spegnere tutto e fare un reboot di sistema.
Non poteva permetterlo. Non ora, non quando Sherlock rischiava la vita.
Nella sua testa c’era confusione, ansia, dubbio, controsenso. A stento capiva ancora dove si trovava e cosa stava facendo ma una cosa era certa, Sherlock sarebbe morto. E non poteva lasciare che Sherlock morisse.
Sherlock.
Andando contro alle Tre Leggi, al suo essere di robot e a tutto ciò che avrebbe dovuto rispettare alla lettera, John premette il grilletto.
Il proiettile attraversò in un attimo la distanza che li separava, penetrò il vetro e si conficcò nella testa dell’omicida, che cadde morto sul colpo.
John riuscì a malapena a vedere Sherlock affacciarsi alla finestra prima che si attuasse lo spegnimento d’emergenza del suo sistema operativo.
Chiudendo gli occhi su di un buio sordo, cadde a terra.
 
 
 
--- Accesso remoto interfaccia utente. Nominativo: HOLMES, SHERLOCK.
 
Accesso remoto consentito.
 
--- Ripristino sistema principale.
 
Accesso negato.
 
--- Riavvio sistema neurale indipendente.
 
Accesso negato.
 
--- Elencare specifiche.
 
Sistema di disattivazione di emergenza, protocollo Holmes Robotics Corporation numero BS/221/B.
 
--- Ricollocare protocollo BS/221/B da “principale” a “collaterale”.
 
Ricollocamento protocollo in corso...
Protocollo di emergenza BS/221/B disattivato.
 
--- Accesso interfaccia utente primario.
 
Accesso consentito.
 
--- Forzare riavvio del sistema principale.
 
Riavvio in corso...

 
John aprì piano gli occhi, quasi con cautela, recuperando la capacità visiva e motoria del suo intero corpo. Il sistema principale effettuò una rapida diagnostica dei sistemi periferici, che risultarono tutti intatti e funzionanti. Non aveva subito danni ma ancora non riusciva a spiegarsi perché, dopo vent’anni, si fosse disattivato.
Quando finalmente il sistema operativo terminò la diagnostica John poté mettere a fuoco ciò che aveva intorno.
Un tavolinetto, due poltrone, una lampada da lettura, un tavolo, un teschio sopra la mensola del camino. Un salotto conosciuto. Casa.
« John? ».
Riconobbe subito la voce di Sherlock. Era seduto accanto a lui sul divano e, a quanto sembrava dal computer aperto sulle sue gambe e dai cavetti collegati alla propria nuca, era stato proprio lui a consentirgli di riavviarsi.
« Sherlock... » mormorò il robot, quasi come se avesse ricevuto un colpo in testa ed ora risentisse della leggera ubriacatura da lieve trauma cranico. « Cos’è successo? » domandò.
« Disattivazione d’emergenza » rispose il detective, scorrendo velocemente fra i suoi programmi per ripristinare il corretto assetto funzionale: « immagino che il tuo cervello positronico sia andato in contrasto con una delle Tre Leggi, o con tutte e tre. Il software deve averlo elaborato come un tentativo di ribellione e ha attivato la procedura di spegnimento automatico » spiegò.
Ma certo, ricordò John. La finestra, il tassista, la pistola. Aveva sparato, alla fine. Aveva ucciso un uomo.
« Ho ucciso un essere umano » disse, una leggera scintilla di panico negli occhi blu. Il portatile di Sherlock emise un acuto bip mentre una nuova stringa di codice, sintesi della sua ansia, si creava automaticamente ed andava di nuovo in conflitto con la Prima Legge.
Fortunatamente, Sherlock aveva già disabilitato il protocollo di spegnimento automatico d’emergenza.
« Sì » rispose poi, alzando gli occhi dallo schermo del computer. « Ma l’hai fatto per salvarmi la vita. Nonostante avessi tutto sotto controllo, voglio specificare » disse, tornando con gli occhi al pc. « Bel colpo, comunque » aggiunse dopo.
Ma John non lo ascoltò completamente. O, se lo fece, non ne diede segno.
« Ho ucciso un essere umano » si limitò a ripetere, gli occhi sgranati, e il computer di Sherlock risuonò di altri tre o quattro bip.
« John, va tutto bene » cercò di rassicurarlo Sherlock (per quanto fosse strano rassicurare un robot): « lo hai fatto per salvarmi la vita ».
« C’erano altri modi » intervenne però l’androide: « avrei potuto sparare ad una spalla, o ad un braccio. Impossibilitarlo in un qualche modo che non implicasse la sua uccisione. Io l’ho... ucciso. Ho scelto di farlo, ho scelto di mirare alla testa » disse, cominciando a guardarsi intorno, nervoso.
« John... ».
« Mi de-assembleranno » continuò poi: « il signor Mycroft aveva ragione, sono un pericolo ».
« John! » esclamò però Sherlock, la voce perentoria.
Il robot lo guardò.
« Non hai fatto niente di male » ripeté Sherlock. « Mi hai salvato la vita ».
« Io... » cominciò l’androide, senza però completare la frase. Avrebbe voluto sottolineare di nuovo che aveva ucciso un essere umano, che aveva contravvenuto alla prima delle Tre Leggi, ma sapeva che Sherlock aveva ragione: gli aveva salvato la vita e, fino a prova contraria, era quello che aveva voluto fare fin dall’inizio, fin dal momento in cui aveva rubato la pistola a Donovan.
Solo allora trovò qualcosa da dire che non fosse la sua ammissione di colpa. « Come sono arrivato qui? » domandò. Non poteva averlo trasportato Sherlock.
« Mi ha aiutato Lestrade » rispose Holmes, cominciando distrattamente ad uscire dal sistema di John e a scollegare il robot dal proprio computer: « non dirà nulla di te e dell’accaduto » aggiunse, prima che John potesse domandare.
L’androide annuì.
« Sherlock... » cominciò poi. Un ragionamento puramente logico e consequenziale continuava a fluttuare nella sua mente robotica come un pensiero, lasciandolo però dubbioso se rivelarlo o meno.
Tuttavia, lo fece. « Credo che Mycroft avesse ragione. Sono un pericolo per gli esseri umani, soprattutto per te » disse.
Sherlock sbuffò. « John– » cominciò.
Ma John lo interruppe. « Sono un robot con la capacità di eludere le Tre Leggi. Proprio come i nuovi modelli Mark-4. Ho dimostrato di avere la capacità di uccidere un essere umano. Logicamente, Sherlock, razionalmente, puoi ammettere che io non sia un pericolo? » chiese, franco.
Sherlock lo guardò per qualche istante. « No » rispose infine.
John annuì piano. « Dovrei andarmene. Consegnarmi. Tornare in fabbrica prima che– ».
« Non lo farai » questa volta fu Sherlock ad interromperlo. « Te lo proibisco ».
John restituì lo sguardo. « Posso decidere autonomamente » ribatté.
« Così come io posso disattivarti, nel caso » replicò Sherlock a ruota. « John, sei con me da ormai vent’anni e non hai mai fatto nulla che potesse nuocermi. Non comincerai ora solo perché mio fratello ha fatto uno sbaglio e vuole che i suoi effetti collaterali siano retroattivi ».
« Ma quegli effetti collaterali sono retroattivi. Ho lo stesso difetto dei Mark-4 » commentò l’androide.
« Il tuo non è un difetto » obiettò Sherlock: « non sei uno dei tanti. Sei unico ».
« Come te ».
Sherlock rimase spiazzato dalla risposta. John riuscì a vederlo dagli occhi leggermente sgranati che sottolineavano un’espressione sorpresa.
Nemmeno lui era pienamente consapevole del perché lo avesse detto, ma continuava a pensare che la frase si adattasse perfettamente a Sherlock. Non uno dei tanti, ma unico.
Per questo non se la rimangiò, e non chiese nemmeno scusa.
L’angolo delle labbra di Sherlock si alzò in un sorrisetto compiaciuto.
 
 
 
Tuttavia, la situazione non migliorò.
Nonostante i modelli Mark-4 fossero stati per la maggior parte ritirati dal mercato, un paio di mesi dopo la visita di Mycroft al 221B un’indiscrezione di un membro della compagnia portò la stampa a conoscenza delle violenze perpetrate dai due modelli Mark-4 malfunzionanti e, di conseguenza, seguì il boom dell’opinione pubblica.
Si cominciò a mettere pubblicamente in discussione, su talkshow e programmi di dibattito, la sicurezza delle Tre Leggi e dei robot in tutta la nazione e, molto presto, in tutto il mondo. A poco servì la conferenza stampa che Mycroft indisse rassicurando tutti sulla sicurezza dei modelli basati sulle Tre Leggi: ormai molte persone erano insicure ed erano molte le restituzioni dei Mark-4 – ma anche dei Mark-3 – alla Holmes Robotics Corporation. Tuttavia un buon numero di persone non prestava troppa attenzione al dibattito e, quindi, la perdita totale fu minore del previsto.
Finché, un giorno, un terzo incidente riguardante un Mark-4 arrivò alle orecchie dei media prima di passare dalla scrivania di Mycroft Holmes.
E, questa volta, ci fu una vittima.
In realtà la vittima era un rapinatore ed il robot non aveva fatto altro che proteggere la propria padrona da uno scippo, ma la reazione eccessiva dell’androide, che aveva spezzato il collo dell’uomo in un sol gesto, aveva riacceso la scintilla dell’indignazione in tutta la nazione. Gli opinionisti avevano cominciato a discutere agguerritamente sull’argomento e, oramai, in TV e sui giornali si leggeva di poco altro.
John era in piedi in mezzo al salotto del 221B quando apprese la notizia. Stava cercando di riordinare il perenne disordine presente in casa quando il telegiornale aveva interrotto il documentario che Sherlock, per pura noia, stava guardando seduto in poltrona.
La giornalista della BBC che annunciò l’accaduto aveva l’aria grave e tesa, il tono professionale e rigido. Non c’era cordoglio nelle sue parole ma, a giudicare dalla frequenza della voce, una vena di risentimento lottava per saltar fuori. Doveva far parte della minoranza che non credeva nella sicurezza dei robot e nella professionalità della Holmes Robotics Corporation, poiché nelle sue parole si poteva intravedere un misto di riscatto e la voglia di chiudere con un bel “io ve lo avevo detto”.
Immobile, con le braccia lungo i fianchi, John guardò il servizio girato sulla scena del crimine da alcuni passanti. Le immagini erano traballanti e palesemente riprese con un cellulare ma si poteva vedere il robot fermo accanto al cadavere del giovane ladro, immobile come lo era John in quello stesso momento, probabilmente eseguendo l’ordine di non muoversi impartito da qualcuno in attesa delle forze dell’ordine, di cui si udivano le sirene in lontananza fra le parole concitate della gente.
Sherlock, ora attento, si alzò a sua volta e si mise in piedi di fianco a John, guardando alla TV il robot venire circondato dalla polizia con le pistole alla mano. Si sentì uno dei poliziotti dare l’ordine di disattivazione e il droide, confermando il comando, si spense.
La linea tornò alla giornalista che, per l’occasione, aveva pronto in studio un esperto di Robotica famoso per aver spesso contrariato le scelte della Holmes Robotics Corporation. Nel campo era conosciuto come un fanatico, un poco di buono e un arrivista, ma suonava una campana che alla Televisione piaceva dunque le sue conclusioni catastrofiste erano ormai sulla bocca di molti.
John non seppe chi di loro due fu il primo a sfiorare la mano dell’altro. Solo, ad un certo punto, si accorse di stare stringendo la mano di Sherlock.
E che Sherlock stava stringendo la sua.
 
 
 
Settembre.
Il televisore del 221B era acceso su di una notte buia e ansiogena. Lo schermo piatto era l’unica fonte d’illuminazione della stanza mentre all’esterno, contro un cielo dalle nuvole color ruggine, risuonavano urla lontane, boati e cori.
Ogni tanto, anche esplosioni.
Sherlock e John, seduti sul divano spalla contro spalla, guardavano lo speciale del telegiornale in diretta dal centro di Londra, poco distante da Baker Street. Guardavano come piccoli gruppi insurrezionalisti lanciassero bombe carta e molotov di fortuna contro la Polizia asserragliata in assetto anti-sommossa, inneggiando ad una futura ribellione delle macchine contro l’umanità e smembrando pubblicamente robot della serie Mark-3 in segno di protesta.
Alla vista dell’ennesimo robot a cui furono strappate le braccia e la testa dalla folla urlante, la mano di John ebbe un sussulto. Sherlock, velocemente e con delicatezza, la coprì piano con la propria.
« Verranno a prendermi » disse John a bassa voce, spezzando il silenzio.
« Che ci provino » minacciò Sherlock in risposta.
 
 
 
Dicembre.
I piccoli gruppi insurrezionalisti si erano uniti a formare un vero e proprio movimento a cui partecipavano sempre più persone giorno dopo giorno. Per la sicurezza dei cittadini, il Governo aveva imposto un coprifuoco oltre al quale si sarebbe applicata la Legge Marziale. Per ogni strada principale vi era almeno una pattuglia dell’Esercito di Sua Maestà.
Il Movimento, che si faceva semplicemente chiamare “Rivoluzione”, aveva raggiunto il potere tramite la psicologia del terrore.
Non era più sicuro girare per strada in compagnia di un robot. I Rivoluzionari non si limitavano a distruggere l’androide ma ferivano anche il proprietario, inneggiando ad una causa completamente inventata come la sempre più vicina (per loro) presa di potere dei robot sull’umanità. Le rassicurazioni pubbliche sul completo smantellamento dei Mark-4 non ebbe alcun effetto sul clima sociale che, anzi, divenne più teso.
La città non era mai stata così triste e malinconica. Erano poche le luci colorate appese ai balconi o ai piccoli abeti sintetici e ancora meno le vetrine allestite per il Natale. Nessuno aveva voglia di festeggiare, ormai. Nessuno si sentiva più veramente al sicuro.
Il laboratorio di Diagnostica 1 alla Holmes Robotics Corporation non faceva la differenza. Più John si guardava intorno, più riusciva a vedere solo computer e macchinari per la riparazione e il perfezionamento delle parti meccaniche ed elettriche dei robot. L’aria sterile era simile a tutti gli altri laboratori in cui John era stato ed ora, dopo più di vent’anni in cui non metteva più piede all’interno di uno di essi, essere in quel luogo lo metteva a disagio.
Riteneva stupido il motivo per il quale era finito lì, in realtà. Un semplice errore di distrazione. Un errore che avrebbe potuto pienamente evitare se fosse stato più attento o se avesse preso la precauzione di indossare un maglione con le maniche più lunghe.
Era semplicemente uscito per pagare le bollette. La società elettrica aveva telefonato minacciando di staccare la corrente. Non aveva potuto farne a meno ma, mentre si accingeva ad entrare alle Poste, appoggiando la mano sulla maniglia della porta la manica del suo maglione si era sollevata mostrando il suo numero di serie.
Il resto era stata solo sfortuna. Subito dietro di lui un simpatizzante Rivoluzionario – si riconoscevano per la spilla tonda e rossa che portavano sul colletto – aveva dato l’allarme.
Era stato attaccato da un gruppo di Rivoluzionari non poco distante e danneggiato in maniera grave, prima che alcuni soldati mettessero in fuga i manifestanti. Soldati che, non sapendo cosa fare di lui, lo avevano rispedito alla Holmes Robotics Corporation, dove Mycroft era stato prontamente informato della sua presenza.
Stava aspettando nel laboratorio di Diagnostica 1 ormai da due ore. Probabilmente Mycroft aveva rintracciato Sherlock – o ci aveva provato, dato che non rispondeva sempre alle chiamate del fratello.
Nessuno aveva osato alzare un dito per ripararlo, o per controllare se il suo sistema principale fosse del tutto funzionante (sotto ordine di Mycroft, doveva presumere). Ovviamente John aveva eseguito una diagnostica interna per rilevare eventuali errori del sistema ma, a parte qualche guasto collegato ai danneggiamenti esterni, il suo software primario sembrava integro.
Non poteva dire la stessa cosa del proprio corpo, però.
Non riusciva a muovere il braccio destro a causa di un malfunzionamento della spalla e almeno otto dita in entrambe le mani erano piegate in posizioni innaturali. Non riusciva a smettere di muovere il pollice sinistro (un tendine doveva essersi bloccato in un loop di tensione/estensione) e non vedeva nulla dall’occhio destro. Il suo udito nell’orecchio destro era più basso del 60% rispetto alla situazione ottimale ed una serie di calci assestati al suo addome aveva provocato la fuoriuscita di alcune componenti elettriche da uno squarcio ad altezza fegato. Inoltre, la pelle sintetica della gamba sinistra era stata completamente strappata via – insieme al tessuto dei pantaloni – a causa di un lungo trascinamento sull’asfalto, lasciando completamente scoperta la composizione meccanica interna della gamba dal ginocchio alla caviglia. Ovviamente non sentiva nessun dolore ma non era un bel vedere.
La porta del laboratorio si aprì con un sibilo pneumatico e uno Sherlock trafelato e rigido comparve sulla soglia.
Fu davanti a lui in tre falcate, cappotto svolazzante ai suoi piedi, e lo osservò in ogni sua parte con occhi sgranati e quasi febbrili, analizzando mentalmente i danni esteriori con occhio critico. Strinse le labbra in un impeto di quella che sembrava ira ma si trattenne dal manifestarla oltre, mantenendo la calma.
Calma che, però, non risultò dal suo tono di voce.
« Il sistema primario è integro? » domandò, piccato e veloce.
John lo guardò in volto col suo unico occhio funzionante. « Perfettamente funzionante » rispose.
« Danni che non posso vedere? » continuò l’altro.
« Cecità all’occhio destro e parziale sordità allo stesso orecchio » rispose John.
Sherlock strinse di nuovo le labbra. « Sei un idiota. Ti avevo detto di non uscire di casa per nessun motivo » disse poi, togliendosi il cappotto e cominciando a cercare gli strumenti necessari per riparare ai danni.
John lo seguì con lo sguardo nei suoi spostamenti per il laboratorio. « Le bollette dovevano essere pagate » fornì semplicemente come spiegazione. Non fece parola sulla disubbidienza.
Ma Sherlock continuò a borbottare ad alta voce senza nemmeno ascoltarlo (volutamente). « È vero che sembri un essere umano in tutto e per tutto, ma non lo sei. Non lo sei. È pericoloso per te girare per strada da solo » si lamentò.
« Così come è pericoloso per te stare in mia compagnia » ribatté il robot.
Sherlock si fermò. Sbuffò. « Non riaprirò il discorso, John » disse, perentorio.
« Non puoi negarlo, Sherlock. È un dato di fatto ».
L’altro però non rispose, finendo di recuperare gli attrezzi e prendendo da una scrivania un computer portatile e relativi cavetti di connessione. Sistemò tutto su di un tavolo mobile che portò accanto a John e, trascinando uno sgabello, si sedette di fronte all’androide, togliendosi la giacca ed arrotolandosi le maniche della camicia.
« Prima analizziamo i danni dall’interno » pronunciò, allungandogli i cavetti di connessione. John, ormai abituato a farlo, aprì il vano apposito dietro la propria nuca e li collegò uno ad uno con precisione.
Sherlock cominciò a battere freneticamente sulla tastiera del notebook. « Dovrò smontarti » fu il verdetto finale.
John annuì piano.
« Vuoi essere deattivato mentre procedo alle riparazioni? » domandò ancora il detective, più formale del solito per sottolineare la sua rabbia.
L’androide sembrò pensarci un momento. « No » disse poi: « non mi piace la sensazione che dà ».
Sherlock alzò gli occhi chiari su di lui. « Che sensazione dà? » domandò.
« Di vuoto » rispose John. « Di ricordi assenti ».
Sherlock sbuffò di nuovo. « È come dormire » minimizzò poi.
« Io non so cosa vuol dire dormire » fu la risposta di John.
A cui Sherlock non seppe cosa ribattere.
« Come vuoi » disse solamente il detective, armandosi di attrezzi e alzandosi dallo sgabello con un movimento fluido. Avvicinandosi al volto di John, cominciò a lavorare sul suo orecchio, distaccando delicatamente il padiglione ed il lobo come se fossero fragili pezzi di ceramica pregiata che non doveva assolutamente rovinarsi.
Lo trattava con cura, reverenza quasi. Eppure le labbra erano strette e gli occhi non incontrarono mai una volta lo sguardo di John, che per tutto il tempo non distolse mai il suo da lui.
« Sei arrabbiato? » chiese infine.
Sherlock negò distrattamente con il capo. « No » aggiunse a voce.
« Stai mentendo ».
Sherlock sospirò. « Sei diventato bravo con le emozioni, vero? » domandò amaramente, quasi sfottendolo.
John non vi badò molto. Era la rabbia che parlava, unita al suo immenso orgoglio. Lo sapeva. Lo vedeva.
Non gli ripeté la domanda. Sherlock non avrebbe comunque risposto dunque il silenzio era più che sufficiente.
Sherlock lavorò con precisione. In poco tempo sistemò il suo orecchio e gli fermò il continuo movimento del pollice. John non poteva fare a meno di seguire ogni suo movimento con gli occhi e pensare, come a volte gli capitava di fare, che Sherlock fosse, in un certo senso, sprecato per il mestiere del detective: la Robotica gli scorreva nelle vene insieme al sangue e la sua abilità in riparazioni che chiunque altro avrebbe effettuato nel giro di giorni ne era la prova.
Si sentì in dovere di spezzare il silenzio.
« Mi dispiace » disse, uscendo dal nulla.
Sherlock si fermò. Continuò a guardare il groviglio di parti meccaniche, transistor e circuiti che fuoriuscivano dalla sua cavità addominale, cercando probabilmente il modo di reinserirle nel giusto ordine e richiudere lo squarcio.
Non disse niente – perché Sherlock non era abituato a perdonare – ma John lo vide annuire piano. Bastò.
« Grazie » gli disse John, sapendo di essere scusato.
Sherlock fece un cenno con il capo, riprendendo a lavorare.
« Sherlock? » lo interruppe ancora il robot.
Il moro alzò lo sguardo da quello che stava facendo.
« Hai avuto paura? » gli domandò.
Vide Sherlock aggrottare lievemente le sopracciglia in un cipiglio pensoso. Ci mise qualche istante per trovare la risposta adatta (o, semplicemente, una risposta e basta). « No... » ammise. « Preoccupazione » corresse poi.
« Per me? » chiese subito John.
Sherlock sospirò. « Come mai tutte queste domande? ».
« Sto cercando di capire ».
« Capire cosa? ».
« Me » fu la risposta di John. « E te. Noi ».
Il moro lasciò completamente perdere ciò che stava facendo e si raddrizzò sullo sgabello, la sua attenzione rivolta all’androide. Lo osservò come se si aspettasse questo discorso da molto tempo e John non poté fare a meno di notare la calma insita in quegli occhi, che ormai aveva imparato a leggere molto bene.
« E quali sono le tue conclusioni? » lo interrogò Sherlock.
John, continuando a guardarlo negli occhi, socchiuse le labbra. Fece per parlare ma si bloccò, indeciso su cosa dire.
« Sono convinto che mi... dispiacerebbe non vederti mai più » gli disse, corrugando la fronte. « Anzi, il pensiero fa addirittura... male. Da qualche parte, in questa zona » aggiunse, portandosi la mano sana al petto.
Sherlock non disse nulla.
« Sherlock, non so cosa sta succedendo... » continuò poi John, suonando per quello che era: confuso. Per quanto avesse potuto imparare sulle emozioni, catalogarle ed etichettarle una volta che ne provava una e la riconosceva, non gli era mai successo nulla del genere.
Il petto era pesante, come se ci fosse qualcosa incastrato dentro. Sentiva come una lieve scarica elettrica attraversargli il corpo ma non era un guasto, un malfunzionamento: i suoi circuiti non segnalavano alcun errore. Il computer a cui era ancora collegato non la smetteva un attimo di fare bip bip bip mentre stringhe e stringhe di nuovo codice venivano create una dopo l’altra, senza che la realizzazione di cosa fosse quel sentimento arrivasse.
Era difficile, essere umano.
Fu in quel momento che Sherlock decise di andare in suo aiuto. « Sai qual è, normalmente, l’indicatore fisico primario che accompagna una forte emozione? » domandò.
Di fronte ad una domanda logica, John recuperò un minimo di stabilità. « Il battito cardiaco accelerato » rispose.
Annuendo, Sherlock gli tese la propria mano, offrendogli il polso.
John appoggiò due dita su di esso e gli prese i battiti.
Per quanto il moro sembrasse calmo, in realtà non lo era. John riuscì a sentire distintamente il cuore di Sherlock sotto le proprie dita e i battiti si susseguivano l’uno dopo l’altro, velocemente, ad un ritmo cadenzato ma rapido.
« Stai provando qualcosa » sottolineò l’ovvio.
Sherlock annuì.
« Non è paura, dato che non siamo in una situazione di pericolo. Non è ansia, o tensione, dato che non c’è nulla di ansiogeno. Non è rabbia, perché altrimenti non ti lasceresti toccare in alcun modo. Non è eccitazione, dato che non ne mostri i segni fisici » elencò, passando in rassegna tutte le emozioni che conosceva che potessero giustificare un ritmo cardiaco così alto. « Se non è niente di tutto questo, cos’è? ».
La domanda dell’androide era sincera ma Sherlock si limitò al silenzio. « Le opzioni rimanenti sono poche ».
Sapeva cos’era l’amore. Sapeva dare la definizione di amore. Sapeva citare le parole di grandi scrittori come Oscar Wilde, Jane Austen, Yukio Mishima. Ricordava ogni descrizione dell’amore che loro avevano dato nei loro racconti, analizzandolo in ogni sfaccettatura e sfumatura, facendolo risultare sempre diverso.
Avrebbe potuto spiegarlo usando le parole di grandi uomini e grandi donne ma la realtà era che non lo aveva mai provato. Mai fino, forse, a quel momento.
Mai, forse, prima di incontrare Sherlock.
Aprì la bocca per aggiungere qualcosa ma fu l’altro a prendere l’iniziativa per primo. Si alzò dallo sgabello e allungò il collo verso di lui, piano, lentamente. Usurpò un centimetro alla volta la distanza fra loro, rubandola, facendola scomparire, finché John non poté sentire il suo respiro sottile sul proprio volto, sulla propria bocca.
Quando Sherlock appoggiò le labbra alle sue, John non glielo impedì. Sapeva cos’era un bacio. Solo, non ricordava cosa si provava.
Ora sì.
In quel momento non importava se le labbra che Sherlock stava baciando non erano vere labbra. Non importava che John non avesse alcun cuore battente, un respiro da trattenere, una voce autentica. Ciò che provava era l’importante, l’unica cosa che poteva essere definita reale.
Forse era questo, il concetto dell’essere umano. Un essere umano poteva amare. Un essere umano poteva donare tutto di sé, tutto ciò che era, ad un’altra persona senza ripensamenti. Un essere umano imparava ad amare attraverso gli sbagli, le conquiste, le gioie e i dolori. L’amore era il coronamento dell’essere umano, la prima pietra della felicità come dell’infelicità. Per essere umano bisognava capire l’amore.
Ed ora John ci riusciva.
Si separarono in silenzio. Sherlock non sorrise, non mosse un muscolo, ma John non riuscì a smettere di guardare le sue labbra. Ora aveva almeno cinque nuove aggettivi per descriverle e provava il desiderio di trovarne altri, di provarne di nuovo la consistenza sulle proprie.
« Può un robot amare un essere umano? » gli domandò sottovoce, un mormorio sommesso dal lieve suono metallico.
« Può un essere umano amare un robot? » gli rispose Sherlock con il medesimo tono.
 
 
 
John era da solo in casa quando cominciarono i disordini in città.
C’era qualcosa di diverso dalle ribellioni cittadine avvenute in precedenza, però. Le altre volte, le televisioni avevano prontamente dato le notizie interrompendo tutti i programmi con edizioni speciali dei telegiornali; questa volta, invece, nessun canale televisivo sembrava funzionare. In tutte le reti si vedevano schermate grigie e fastidiose.
Aveva provato ad accendere la radio, ma anch’essa era inservibile. In tutte le stazioni trasmettevano solo un acuto fischio continuo che indicava la mancanza di qualsiasi trasmissione radiofonica.
Strano. Inusuale. Preoccupante.
Sherlock era uscito qualche ora prima e non era ancora tornato. John, rimasto senza altre opzioni, aveva provato a chiamarlo tramite il telefono di casa.
Nulla. Anche le linee telefoniche erano fuori uso. Non si sentiva altro che silenzio.
A corto di opzioni, cominciò realmente ad essere in pensiero.
Stava pensando di disobbedire all’ordine tassativo di Sherlock e di uscire di casa a cercarlo quando, seduto in cucina, sentì finalmente il portone d’ingresso sbattere con forza e una serie di passi pesanti e veloci salire su per le scale.
Avrebbe riconosciuto la frequenza e la cadenza della falcata di Sherlock anche in mezzo ad una folla.
Si alzò in piedi nel preciso momento in cui il detective entrò nell’appartamento, urlando il suo nome con tono frettoloso e perentorio. « John! ».
« Sono qui » disse lui, avanzando piano verso la porta della cucina, sulla quale fu intercettato da Sherlock. Aveva l’espressione corrucciata e preoccupata ed un’agitazione tremante non gli permetteva di fermarsi nemmeno un secondo, nemmeno per respirare.
« Prendi le tue cose » gli disse tutto d’un fiato, mettendogli le mani sulle spalle: « dobbiamo andarcene ».
John aggrottò appena le sopracciglia, non capendo. « Perché? » domandò.
Sherlock prese a camminare avanti e indietro per il salotto, spostando qualsiasi oggetto da un posto all’altro senza motivo. « Stanno andando di casa in casa. Sfondano la porta di chi non accetta di aprire loro la porta. Hanno fatto in modo di tagliare tutte le comunicazioni e, senza una rete efficiente, la polizia non sa cosa fare – come al solito » parlò veloce come la luce, riprendendo fiato fra una frase e l’altra. Ora che lo guardava meglio, John riusciva a vedere un rivolo di sudore colare sulla guancia di Sherlock, da sotto i riccioli scuri. Doveva aver corso fino a lì.
Nonostante la frettolosa spiegazione, John non riuscì ancora a capire. « Chi, Sherlock? » chiese.
« I Rivoluzionari! » esclamò il detective con rabbia, ringhiando letteralmente in direzione di John. « Stanno andando di casa in casa a cercare i robot per distruggerli. E sono centinaia, se non migliaia. Dobbiamo andarcene! » esclamò rapidamente, urlando.
John squadrò le spalle. « Calmati » gli disse.
« Non posso stare calmo » gli rispose Sherlock nella foga del momento. « Non posso aspettare, devo portarti al sicuro. Devo portarti alla Holmes Robotics ».
John lo osservò con ansia crescente.
Non voleva tornare alla Holmes Robotics Corporation. Non apprezzava l’essere richiuso in quei laboratori, dove tutti lo consideravano una bambola meccanica super avanzata o un errore di progettazione che non era stato smantellato solo per il capriccio di un bambino.
« Logicamente parlando, fatico a considerare la HRC un posto sicuro » disse John.
Sherlock si fermò e lo guardò con insistenza. « È un’azienda super tecnologica con un sistema di protezione sviluppato dal genio militare e perfezionato prima da mio padre poi da mio fratello. Probabilmente è il posto più sicuro di questa città » spiegò. « E ora muoviti ».
Non poté dire molto altro perché Sherlock, avvicinandosi a lui in due falcate, gli prese il polso e lo trascinò verso la porta, poi giù per le scale.
 
 
 
Arrivarono a Canary Wharf, sede della torre di vetro della Holmes Robotics Corporation, quando ormai era passato mezzogiorno. Il cielo plumbeo ed il vento forte non avevano fermato l’onda crescente dei Rivoluzionari manifestati che, distruggendo tutto ciò che trovavano sul loro cammino, stavano pian piano raggiungendo il quartiere.
Sherlock non si era fatto scrupoli a requisire una motocicletta quando aveva notato l’impossibilità di utilizzare qualsiasi mezzo pubblico. Erano arrivati a Canary Wharf in meno tempo del previsto ma non potevano dire di non aver attirato l’attenzione di nessuno. John aveva notato lo sguardo dubbioso di molti passanti sulla strada, mentre Sherlock zigzagava fra le auto incolonnate con una discreta abilità, e questo non faceva altro che metterlo ancora più a disagio.
Non sapeva quali fossero le intenzioni del moro ma cominciava a pensare che non gli sarebbero affatto piaciute. Anzi, ormai quello era divenuto un presentimento pressante.
Sherlock inchiodò con la moto davanti all’ingresso dell’azienda, che sembrava vuota ed immobile. Tutte le luci erano spente e le immense vetrate della torre riflettevano solamente il cielo grigio sopra le loro teste.
« Cos’è successo qui? » domandò John, scendendo dalla motocicletta prima che Sherlock la abbandonasse a terra di malagrazia.
« Mycroft ha fatto evacuare l’intero isolato » disse Sherlock, prendendolo di nuovo per il polso e procedendo a passo svelto verso l’entrata.
John in disse niente, seguendolo in silenzio. Sherlock non era mai stato una persona costante, con i suoi silenzi e le sue crisi di noia, ma non era mai stato elusivo. Diceva le cose così com’erano senza preamboli.
Perché adesso si comportava in quel modo? Informazioni smozzicate e spiegazioni a metà. Cos’aveva in mente di fare?
« Sherlock... » cominciò allora il robot, cercando di frenarlo.
« Non ora » tagliò però corto Sherlock, passando come un fulmine attraverso le porte automatiche ancora in funzione e dirigendosi senza indugio ai laboratori sotterranei dell’azienda.
Proprio dove John non aveva intenzione di andare.
« No » si impuntò allora, strattonando la mano per liberarla dalla presa dell’uomo e fermandosi poco prima delle porte in acciaio dell’ascensore riservato ai dipendenti.
« John! » ringhiò, frustrato, Sherlock.
« No » ripeté il robot. « Adesso mi spieghi cosa ci facciamo qui, altrimenti non farò un passo in più ».
Vide il volto di Sherlock diventare una maschera di rabbia e preoccupazione. Sembrò quasi quello di una bestia ringhiante che una volta aveva visto nell’illustrazione di un libro di favole gotiche. Gli occhi chiari erano taglienti e, sotto quella furia, John poteva leggere la fretta, la premura di fare qualcosa e di farla al più presto.
« SBAT-5, ti ordino di seguirmi » disse poi il moro, la voce dura.
John lottò contro la Prima Legge che gli imponeva di obbedire agli ordini. Resistette.
La ignorò.
« Lo sai che con me non funziona » ribatté.
Si guardarono negli occhi per quelli che sembrarono minuti infiniti, ma che forse furono solo alcuni secondi.
Alla fine, Sherlock sospirò.
Si avvicinò piano a John, un passo dopo l’altro, fermandosi a pochi centimetri di distanza da lui. Ora il suo sguardo era calmo, ma di una tranquillità imposta. Una quiete triste.
« Non posso permettere che ti accada qualcosa » gli disse.
« Vale anche per me » rispose John. « Dimmi cos’hai intenzione di fare. Rendimi partecipe » aggiunse, spronandolo.
Sherlock rimase muto per i primi attimi, in cui guardò John alla ricerca di chissà quale rassicurazione, ma poi chiuse gli occhi e si arrese all’evidenza che John era ormai completamente autosufficiente e, se decideva di non collaborare, non l’avrebbe fatto.
« Voglio rinchiuderti nella capsula di mantenimento del Laboratorio Assemblaggio 5 » disse d’un fiato.
John indietreggiò di un passo. « Quella dove sono stato assemblato » disse.
Sherlock annuì. « È il laboratorio più tecnologicamente avanzato di tutto l’edificio e, di conseguenza, il più protetto. Una volta attivati i protocolli di difesa sarai al sicuro. Solo noi Holmes conosciamo tutti i procedimenti necessari per disattivare i protocolli. Sarà impenetrabile » gli spiegò.
John fece un altro passo indietro, scuotendo il capo. « No » negò.
« John... » cominciò Sherlock, ma venne interrotto.
« E tu cosa farai? ».
Il detective esitò per un istante, occhieggiando la porta. Le prime eco della folla inferocita cominciavano a sentirsi in lontananza, rimbalzando fra i palazzi.
« Mi nasconderò » rispose: « fingerò la mia morte con l’aiuto di Mycroft e sparirò per qualche anno. Forse in Medio Oriente, dove la distribuzione dei droidi non è così virale. Abbiamo già un piano ».
John cercò nei suoi occhi qualcosa che gli assicurasse che fosse la verità. « Io non posso venire... » sussurrò, non esattamente una domanda.
Sherlock scosse la testa. « Ho provato, ma... »
« No, non posso » rispose John con più sicurezza, come se ora toccasse a lui convincere Sherlock: « mi riconoscerebbero e ti metterei in pericolo. Verresti arrestato, o ucciso. Se non in città, ai controlli di frontiera » disse.
Holmes non rispose e nemmeno annuì. Si limitò solo a guardarlo negli occhi come a confermargli che sì, aveva capito bene, molto probabilmente era ciò che sarebbe successo.
« Non posso permettere che ti accada qualcosa » ripeté poi: « e se questo è l’unico modo per proteggerti, lo userò ».
John strinse le labbra. L’idea di rimanere indietro mentre Sherlock fuggiva, fuori, in un mondo che John non avrebbe potuto più vedere una volta deattivato e rinchiuso nella capsula, lo spingeva a negare, a difendersi. Lo respingeva come un magnete di carica uguale alla sua. Ma Sherlock aveva ragione: sarebbe stato un pericolo non solo per se stesso, ma anche per lui. E l’ultima cosa che John voleva, era che Sherlock soffrisse per causa sua.
Alla fine, Mycroft aveva sempre avuto ragione.
Convinto, finalmente annuì. « Va bene » disse a voce, riavvicinandosi di nuovo a Sherlock, pronto a seguirlo.
Holmes gli mise una mano sulla guancia e gli accarezzò le labbra con il pollice. « Grazie » gli disse.
John sorrise. « Andiamo ora ».
Salirono sull’ascensore e scesero di cinque piani verso i laboratori sotterranei. Le porte di metallo si aprirono sul corridoio di piastrelle bianche e pareti di vetro rinforzato John non aveva mai dimenticato, alla fine del quale si vedevano le porte in titanio che nascondevano la parte vitale dei laboratorio di ricerca, il cuore dell’azienda stessa: la sezione Ricerca e Sviluppo.
Sherlock attraversò il corridoio a passo svelto e John lo seguì. Si sottopose ai controlli della retina e delle impronte digitali, ottenendo l’accesso illimitato all’area, ed attraversando le pesanti ante metalliche penetrò nei laboratori più interni, costruiti in vetro antiproiettile ed acciaio. La grande porta si richiuse automaticamente dietro di loro mentre percorrevano un altro corridoio e svoltavano a destra, diretti verso il Laboratorio di Assemblaggio 5, l’ultimo della struttura.
Una volta arrivati di fronte alla porta scorrevole, Sherlock inserì un codice. Essa si aprì con un soffio idraulico.
Era dal giorno della sua “nascita” che John non vedeva quel laboratorio. E, nonostante fossero passati quasi vent’anni, non era cambiato.
Al centro della stanza, di fronte ad un lungo tavolo semicircolare con sopra computer di nuovissima generazione, vi erano tre capsule di vetro, ancorate al terreno e al soffitto tramite basamenti di acciaio nero. Tubi di plastica e cavi a fibra ottica scendevano dall’alto penetrando nella capsula e, a terra, dei tubi più grossi collegavano singolarmente le tre alcove ad un bocchettone nel muro, sopra cui vi era la scritta H.D.A.A.L. (High-Density Amino Acid Liquid).
John si sentiva a disagio. L’ultima volta che si era trovato al di là di quel vetro gli era stato detto di essere un errore di programmazione, uno scherzo della scienza.
In realtà, stava solo inconsapevolmente cercando l’umanità a cui aveva stupidamente rinunciato.
Sherlock schizzò verso il computer centrale e lo avviò, digitando la password di accesso al sistema. Una volta dentro, avviò il programma di preparazione della capsula centrale, che si sollevò verso l’alto in un movimento lento e meccanico.
Poi, Sherlock si girò a guardarlo.
Era arrivato il momento. E, chissà perché, anche se teoricamente non lo era, sembrava in tutto e per tutto un addio. Uno di quegli addii silenziosi che a John era capitato di vedere in televisione a tarda notte; quelli dei vecchi film in bianco e nero con l’audio ridondante e faticoso da capire.
Si avvicinò a Sherlock e accarezzò la sua guancia, lo zigomo pronunciato, le sue labbra sottili. Gli sorrise prima di allungare il collo e baciarlo, lo sguardo di Sherlock sempre puntato sui suoi occhi, sull’anima che, da qualche parte, anche lui, un robot, sentiva di possedere.
Non disse niente, Holmes. Non ce n’era davvero bisogno. Lo aiuto semplicemente a spogliarsi, un abito dopo l’altro, una carezza ed uno sfiorarsi di dita. Lo osservò salire sul piedistallo e lo aiutò a collegarsi alla macchina, i cavetti a fibra ottica inseriti nel vano dietro la nuca, i tubi neri fissati tramite spinotti alle braccia e alle gambe, poi lungo la spina dorsale uno ogni cinque vertebre. L’ultimo cavetto, Sherlock lo inserì con un lungo ago nel cuore artificiale di John.
Una volte terminato, il programma di conservazione amminoacida intra-capsulare si attivò autonomamente. La capsula di vetro scese piano fino a rinchiudere John che, per tutto il tempo, non distolse lo sguardo da quello di Sherlock.
L’androide allungò una mano a toccare il vetro. Sherlock, dall’altra parte, fece combaciare la sua a quella di John.
« Tornerò a prenderti » disse il detective. « Te lo prometto ».
John sorrise. « Lo so » rispose.
Il liquido di conservazione ad alta densità di amminoacidi cominciò a salire, sommergendolo. I cavi di collegamento avviarono la sequenza di spegnimento del proprio sistema interno.
Con il viso di Sherlock come ultima immagine registrata, John chiuse gli occhi.
 
 
 
 
 
 
P a r t     I V
I   c a n   ( n o t )   l o v e   y o u
 
 
 
« Scusami, John. Ho mentito ».
Sherlock fece scivolare la mano via dal vetro distogliendo lo sguardo dalla figura di John, sospeso nel liquido ambrato che lo preservava.
Tornò a passo lento verso il computer principale. Il sistema di preservazione era operativo al 100% e non si erano verificati errori di avviamento. Nonostante non venisse usato da più di vent’anni, rimaneva sempre una delle più geniali invenzioni di suo padre.
Suo padre. Il pensiero lo portò automaticamente alla sua famiglia.
Degli Holmes non era rimasto niente. I Rivoluzionari erano penetrati nella tenuta principale la notte prima, uccidendo sua madre e tutti gli inservienti, rivoltando la villa da cima a fondo e bruciandola. Non era rimasto niente.
Poi, avevano braccato Mycroft. Aveva resistito fino ad un certo punto, protetto dalla sicurezza, ma alla fine la folla se lo era portato via. Sotto gli occhi di Sherlock che, quella mattina, si era diretto a casa sua chiamato dallo stesso Mycroft (probabilmente per riferirgli della morte di loro madre e della distruzione della villa).
Sherlock aveva guardato tutto dall’altra parte della strada e aveva capito che non sarebbe stato risparmiato. E non avendo più nulla da proteggere doveva preservare la cosa più importante, l’unica, che gli era rimasta.
John.
John, che non si sarebbe più svegliato.
Poggiò le dita sulla tastiera.
 
--- Accesso diretto sistema operativo principale Holmes Robotics Corporation. Nominativo: HOLMES, SHERLOCK.
 
Controllo database...
HOLMES, SHERLOCK.
Codice d’accesso livello Alfa.
Accesso consentito.
 
--- Accesso protocolli di sicurezza.
 
Accesso consentito.
 
--- Avviare protocollo “Pandora”.
 
Protocollo di protezione “Pandora” in fase di avviamento...
 
Chiusura automatica porte principali: eseguito.
 
Chiusura automatica accessi del personale: eseguito.
 
Chiusura automatica accessi secondari: eseguito.
 
Chiusura forzata uscite di emergenza e porte antincendio: eseguito.
 
Attivazione blocco porte e finestre: eseguito.
 
Avvio protocollo di cancellazione dati...
 
Server Aziendale: dati cancellati.
 
Server personale CEO HOLMES, MYCROFT: dati cancellati.
 
Server Laboratori Ricerca e Sviluppo: dati cancellati.
 
Server Diagnostica: dati cancellati.
 
Server Archivio: dati cancellati.
 
Server Progetto SBAT: dati cancellati.
 
Avvio spegnimento sistemi in corso...
 
Sistema idraulico: disattivato.
 
Sistema di ventilazione: disattivato.
 
Sistema elettrico: disattivato.
 
Sistema informatico aziendale: disattivato.
 
Sistema operativo secondario: disattivato.
 
Sistema operativo primario: disattivato.
 
Sistema operativo autonomo Laboratorio 5: disattivazione in 10 secondi...

 
Sherlock non rimase a guardare quei pochi secondi scivolare via. Sarebbe morto per mancanza d’aria, asfissiato nell’anidride carbonica che lui stesso stava producendo, e anche se ci avrebbe impiegato ore, probabilmente giorni, almeno non sarebbe morto di sete o di fame.
Almeno, sarebbe morto vicino a John.
Si sedette di fianco alla capsula che conteneva il corpo dell’androide, l’unico sistema che non sarebbe colato a picco insieme alla Holmes Robotics Corporation. Lo avrebbe mantenuto al sicuro per secoli, immutato, immobile, nel buio e nel silenzio di un sonno senza fine.
Nell’oscurità rotta solo dalla luce del computer e dal conto alla rovescia, Sherlock sorrise.
Dopotutto, era esattamente dove voleva essere: al fianco di John.
Per il resto, morire era una scelta come un’altra.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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1- Le Tre Leggi della Robotica sono opera di Isaac Asimov e sono le leggi a cui ogni robot deve sottostare. Dalla loro creazione, nel famoso romanzo “Io, Robot”, sono diventate la base di ogni opera di fantascienza robotica.
   
 
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