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Autore: DK in a Madow    23/10/2013    6 recensioni
Amavo il suo sorriso, amavo la sua pazzia. L’amavo ancora quando Adie è arrivata nella mia vita e, senza pretese e senza fare rumore, ha preso il suo posto. Ma, nonostante tutto, il ricordo è vivo nella mente. È il momento giusto per pensare a lei, ma il posto è sbagliato.
***
Billie Joe alle prese con la nascita e la crescita di Good Riddance, la maturità di Whatsername e una notte stellata sopra di lui.
Il tutto intrecciato con un tipo d'amore che solo l'odio può comprendere.
Scritta in un giorno, questa è una OS senza pretese.
Solo un umile omaggio alle mie canzoni preferite.
Leggete, ma se recensite non vi mangio.
Genere: Introspettivo, Song-fic, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Billie J. Armstrong
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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It's the wrong kind of place to be thinking of you.
It's the wrong time for somebody new.
It's a small crime and I've got no excuse.
(9 Crimes – Damien Rice & Lisa Hannigan)

When the days they seem to fall through you, well, just let them go.
(The Universal – Blur)

But I have grown older,
and you have grown colder;
and nothing is very much fun,
anymore.
(One Of My Turns – Pink Floyd)

This is a kind of love that only hate could understand.
(Amanda – Green Day)













UNPREDICTABLE

“Remember! It seems like forever ago.”






Oakland, Capodanno 1990

Apro violentemente la porta di casa, la rabbia che mi fa schizzare il sangue alla testa, facendomi avvampare il volto.

Bell’anno di merda, mi dico.

Fuori rimbombano fuochi d’artificio che dentro il mio petto risuonano come bombe a mano lanciate dritte al cuore. Non ho voglia di sentire nessuno, a parte me stesso urlare quanto mi faccia schifo questa vita e che sì, vaffanculo, non voglio vedere nessuno.

- Nemmeno te, Mike! – dico, sbattendo furiosamente la porta della mia stanza in faccia al mio migliore amico per poi chiuderla a chiave. Non mi sorprenderei se dopo tutto quello che è successo, domani trovassi un biglietto con su scritto che se n’è andato, che non sopporta il mio vittimismo, la mia faccia da culo imbottita di anti-depressivi e marijuana e i miei modi di fare.

Andare via. Dopo tutto questo tempo, se ne vuole andare via, con quattro parole sparate a vuoto, ma che mi hanno preso in pieno, lasciandomi tramortito, un cane randagio preso a pedate. Così ho preso a mordere. Il Gilman, la fottuta gente del Gilman, la puzza di merda del Gilman, lei che si perde nella folla e Mike che viene a chiedermi che cazzo ho. In tutta risposta, l’ho centrato in faccia con un pugno, il lungo naso che scolava sangue sulla maglietta già lercia e pregna di sudore. Troppo lucido per essere fatto e ricordare tutto, direte? Bene, v’insegno una cosa, il dolore è l’antidoto a qualsiasi merda, non viceversa. Anestetizzarlo non funziona, lo senti comunque pulsare sotto pelle e prima o poi ritorna, più forte di prima.

- Billie, apri la porta.

- Vattene Mike. Lasciami solo.

Se urlo ancora così sputo le corde vocali. Fanculo anche quelle, servissero almeno a sistemare le cose. A cosa son servite, invece? A suonare in una cucina davanti a cinque persone e con la puzza di vomito perché il coglione di turno si è ubriacato marcio?

- Billie, per favore.

Può supplicare quanto gli pare. Qui dentro non ci mette piede. Nemmeno gli rispondo. Anche perché questa faccia che mi ritrovo e che ora fisso contro uno specchio non è abbastanza tosta per dirgli che mi dispiace, che si è trovato nel posto sbagliato e al momento sbagliato, e che gli ho sganciato un destro solo perché avevo i coglioni girati.

- Io ti aspetto qui fuori. Quando vuoi, sai che sono qui.

E così sento la sua schiena strisciare contro la porta, così vicina che avvicinando la mano al legno potrei sentirne il calore, ma non è questo il momento. Ora devo restare solo, o rischio di distruggere tutto ciò che mi circonda.

Sempre che mi sia rimasto qualcosa da distruggere. Lei vuole andarsene, mandare a fanculo questa città e anche me. E se lei se ne va, a me cosa rimane? Non avrò più le mani piene dei suoi capelli e il naso pregno dell’odore della sua pelle; non sentirò più il suo sudore bagnarmi le dita e il suono della sua voce tormentarmi il cervello. Se lei se ne va, a me non rimane niente. Solo qualche fotografia da tenere a mente, un tatuaggio fatto apposta per lei e la pelle morta sotto di esso.

Se mi sto chiedendo se ne sia valsa la pena? Sì, lo sto facendo e puntualmente mi ritrovo a maledire me e la cattiva stella sotto la quale sono nato.

- Non ne vale la pena, Billie, cerca di capirlo.

Capire? E chi ne ha la forza, Mike? Tu puoi riuscirci, sei sempre stato bravo in queste cose. Io no. Io sono quello che si fa mille seghe mentali e non, quello che scribacchia canzoni d’amore a chi non sa amare, quello che suona riff sparati a cazzo sempre sugli stessi quattro accordi, alcuni dei quali stanno iniziando a vorticarmi nella testa senza darmi pace.

Mi giro a guardare la stanza. Un disastro. Abiti ovunque, volantini, giornali, i libri di Mike e i miei quaderni di canzoni, un tappeto di mutande e calzini, la mia chitarra acustica abbandonata sul mio letto disfatto.

C’è ancora l’odore di lei su quelle lenzuola.

Mi lascio sfuggire un grugnito disperato, battendomi i palmi delle mani contro le tempie come a voler trattenere un mal di testa imminente, le stesse quattro note che come un cerchio ruotano nella mente. È assurdo come l’ispirazione, se così si può chiamare, venga a trovarmi quando non la vorrei, quando preferirei calare una mano nella tasca dei pantaloni, afferrare l’accendino e dare a fuoco ogni traccia della sua fottuta presenza. Il che comprende anche la delicata operazione di strapparsi il cuore dal petto e dar fuoco anche a lui. Ma no, non sono abbastanza forte per farlo. E, come ha detto quello spilungone dietro la porta, non ne vale la pena. Così mi siedo sul letto, le dita che immediatamente rintracciano le corde della mia chitarra. Della mia compagna; di vita, di disavventure, di musica, rabbia e amore. Un sentimento così forte che non riesco nemmeno a riceverlo, ma solo a sentirlo. La prendo tra le braccia, rintracciando quasi subito le note che m’intralciano i pensieri, ma perdendole così come le avevo provate. Ritento, dita di nuovo sulla tastiera, le note ritornano, sfuggono ancora.

- Cazzo. – sussurro roco.

Ci provo ancora e questa volta è quella giusta. Gli accordi prendono a rincorrersi tra le corde esattamente come nella mia testa, interrompendo il silenzio che i fuochi d’artificio hanno lasciato dietro di loro. Le mie dita si muovono decise, mentre i miei occhi si sono fermati sulla porta. Lì dietro, Mike sta sentendo tutto. Starà pensando che è stanco, che vorrebbe dormire nel suo letto come è giusto che sia e non aspettare su un pavimento freddo che il suo amico paranoico gli apra la porta e lo faccia entrare. Così, dopo circa tre minuti, abbandono la chitarra sul materasso, raggiungo la porta, ma subito torno indietro, afferro un quaderno abbandonato sulla sedia di fronte alla scrivania e appunto le frasi che si erano aggiunte alle note mentre suonavo.

Tattoos of memories and dead skin of trial.
For what it’s worth, it was worth all the while.

Abbandono il quaderno, afferro la maniglia. Quando la porta è aperta, trovo Mike seduto a terra, la schiena appoggiata lungo lo stipite della porta e la testa abbandonata all’indietro. Dalla bocca socchiusa, il suo russare risuona profondo, il naso adunco sporco di sangue e sollevato in alto, gli occhi chiusi. Mi viene da ridere, finalmente, ma non posso evitare che un moto di tenerezza mi si annidi nel petto. Così prendo a scuotere delicato la sua spalla sinistra, prima di vederlo sobbalzare, gli occhi azzurri inumiditi di sonno che rintracciano i miei.

- Ti sei deciso ad aprire. – sussurra, la bocca impastata.

- Entra dai. – dico, aiutandolo ad alzarsi – Hai bisogno di dormire.

- Mi fa piacere che te ne sia accorto. – esclama, per poi lasciarsi sfuggire un gemito di dolore, portandosi la mano al naso – Anche se rimani comunque un bastardo. – aggiunge entrando nella stanza e buttandosi sul letto.

Questa volta rido sul serio, prima di richiudere la porta, lasciando fuori quest’anno di merda e le sue preoccupazioni.

 

 

Los Angeles, Conway Studios, Giugno 1997

- Di nuovo sta canzone, Armstrong?

Sì, sbuffa pure Rob, a questo giro non mi fotti.

- Sì. Qual è il problema? – chiedo, spazientito.

- Canzoni retrospettive. Non hanno mai funzionato, Billie!

Lo guardo negli occhi con fare omicida, i suoi che tremano dietro le lenti degli occhiali che in questo momento vorrei spaccare a suon di schiaffi.

- È il tuo cervello che non funziona, Cavallo! – esclamo, la voce che alza inevitabilmente di volume – Poteva non andare bene per Dookie, e lì avevi ragione. Poi l’abbiamo infilata come una cazzo di b-side e adesso, dopo che in questo album ci stiamo mettendo anche la merda, mi vieni a dire che non va bene? Sai cosa c’è, Rob?

Si è ammutolito e riesce solo ad accennare un “no” con la testa.

- Che io quella canzone, a questo giro, la pretendo. Ricordati che ci sono anche i miei fottuti soldi in questo disco.

E detto questo, faccio per entrare in sala registrazione, ma la voce di Rob mi blocca ancora.

- Accetta un consiglio almeno. – la voce trema.

- Quale? – sbuffo.

- Mettici dei violini.

Mi metto a ridere, abbassando la maniglia della porta.

- Mettici il cazzo che ti pare, Cavallo. Quella canzone la voglio a tutti i costi. – e così dicendo mi rifugio nella sala. Raggiunto lo sgabello di fronte al microfono, afferro la mia chitarra, la stessa che sette anni fa è servita a comporre Good Riddance, e prendo ad accordarla con calma, il suono delle corde che spezza il silenzio cristallino attorno a me. Esso è lo stesso di allora. Sempre la solita di vita di merda. Alcool e insonnia si sono aggiunti alla classica dieta di dolore e anti-depressivi, mentre la fede che porto al dito è fredda come il letto dove, fino ad Febbraio, tentavo di dormire di fianco ad Adrienne, sempre così presa da Joey e sempre così stanca delle mie paranoie, stufa, come dice lei, “di dover crescere due figli e non uno”.

Sette anni sono passati in un battito di ciglia e io sento che non sto crescendo, ma che sto invecchiando. L’amore è freddo, grigio, i colori dei primi tempi e delle carezze con Adie sembrano sbiaditi, distanti dall’arcobaleno che ci aveva uniti in Minnesota dopo un temporale che ci costrinse a chiuderci in casa e fare l’amore. Dopo il tour annullato, ritrovarsi con Mike e Frank è stato una benedizione. Nonostante la preoccupazione per gli attacchi di panico e il cuore traballante di Mike, siamo qui a Los Angeles da Marzo. Lontani da casa, lontani da una vita vera che non ci appartiene quasi più, quella con i piccoli problemi quotidiani che quasi abbiamo dimenticato, stretti in questi vestiti da rockstar che ormai ci soffocano, satelliti in un universo di compromessi che ti promettono che tutto andrà bene, che domani è il giorno fortunato e invece rimani fottuto. Di nuovo.

Sono trascorsi sette anni da quel maledetto capodanno, quando questa canzone si è trasformata nel mio personale invito a tirare fuori le palle e a dimostrare a me stesso e agli altri che, in quello che faccio, qualcosa di buono c’è. E proprio mentre mi decido a staccare gli occhi dal vuoto e iniziare a provare, ecco che la porta dello studio si apre.

- Ce l’hai fatta allora.

- Sì Mike, ce l’ho fatta. – annuisco, mentre lui si avvicina con passo tranquillo.

- Sento che stai facendo la cosa giusta. – dice, sedendosi a terra, di fronte a me.

- Dici? – sussurro incerto, lanciando un’occhiata incerta al microfono di fronte a me.

- Certo. – dice lui, battendosi una mano su un ginocchio – Scrivesti questa canzone che eri a pezzi e adesso è arrivato il momento di ricomporli.

Sospiro, le corde vocali che vibrano piano. Quanto vorrei che avesse ragione anche stavolta.

- Non sono così sicuro di riuscirci, Mike.

- Almeno provaci, amico. – risponde, per poi alzarsi, tornando alla porta – Buona fortuna. – e così dicendo mi lascia nuovamente da solo, la testa affollata dalle sue parole. Avvicino le labbra al microfono e metto le cuffie in testa.

- Rob? – dico, la mia stessa voce che mi arriva all’udito ovattata – Rob, figlio di puttana, aprimi il microfono nelle cuffie, dai!

- Agli ordini, Armstrong! – mi urla, dritto dal suo microfono in regia, rischiando di spaccarmi il timpano.

- Fottiti. – gli dico ridendo, per poi sistemarmi meglio sullo sgabello, la mia voce che arriva perfettamente dagli auricolari. Poi abbraccio la chitarra, le mie dita che trovano l’accordo giusto, esattamente come quella notte e decido di fare una cosa, richiamando quel momento alla mente nel modo più realistico possibile. Così, “sbaglio” una volta, poi di nuovo ancora.

- Fuck!

Un sussurro e tutto ha inizio.

 

 

The National Bowl, Milton Keynes, 2005

- Vai Billie!

La mano di Mike mi lascia una pacca sulla spalla, la mia camicia ormai fradicia di sudore. Non oso immaginare che fine abbia fatto la matita che avevo messo sugl’occhi. Ma non mi preoccupo, lì fuori il pubblico è in delirio, impaziente di vedere il finale di questo show. Guardo ancora una volta negli occhi il mio amico, Frank dietro di lui che sorride un ghigno folle. Annuisco e a grandi (per quanto me lo consentono le gambe) passi raggiungo la pedana sul palco. La folla è un delirio di lacrime e sudore, di urla e accendini alzati nel buio della platea a formare lo specchio del cielo inglese sopra di noi, l’unica luce un occhio di bue puntato su di me. Prendo fiato e faccio partire, per l’ennesima volta da otto anni a questa parte, la canzone di un amore adolescente finito male e che, a distanza di tempo, ancora brucia sul fondo del cuore.

Amavo Amanda.

Amavo il suo sorriso, amavo la sua pazzia. L’amavo ancora quando Adie è arrivata nella mia vita e, senza pretese e senza fare rumore, ha preso il suo posto. Ma, nonostante tutto, il ricordo è vivo nella mente. È il momento giusto per pensare a lei, ma il posto è sbagliato. Ora che il mio posto è il cuore di una donna a cui ho promesso amore per tutta la vita. Eppure, ogni volta che mi avvicino al microfono, quel primo Gennaio del 1990 in cui il mio cuore è andato in frantumi torna alla mente, il volto di lei che trova spazio tra i pensieri.

Chissà se è sposata. Chissà che faccia ha lui. Ricordo la sua, nonostante non mi sia rimasta nessuna fotografia, bruciata una ad una dopo il suo addio. Della cenere rimasta ne ho fatto una canzone, quella che adesso abbandona gli amplificatori per arrivare al cuore di settantacinque mila anime che, come me, hanno sentito il bisogno, almeno una volta nella vita, di mandare qualcuno a farsi fottere quando il cuore avrebbe voluto dire “resta ancora un po’ con me”.

Poi passa il tempo e lui, come qualsiasi altra droga, non funziona contro il dolore, ma ti aiuta a conviverci, a farti rendere conto che finché sei vivo, stai solo crescendo e che la vecchiaia, in realtà, non esiste. Non finché senti che puoi farcela, che quella che hai appena scritto non è l’ultima canzone e che, sì, la voce che hai è abbastanza buona per parlare al cuore della gente, ad un mare di anime che cantano insieme alla tua, con i cuori rivolti verso un cielo pieno di stelle.

Ed è questo il momento in cui dimentico tutto.

Non c’è niente oltre le loro mani che applaudono e un brivido che mi attraversa le vertebre, mentre le ultime parole attraversano le mie labbra come una brezza leggera.

It’s something of unpredictable,
but in the end is right.
I hope you have the time of your life.
































Angolo della pazza:

E chi non muore, si rivede!
Salve, salve famiglia dei nani. Son tornata. Più o meno.
Era da tempo che sognavo di scrivere qualcosa sia su Good Riddance che su Whatsername. Alla fine è uscito questo. Non so quanto possiate apprezzare questa storia. L’ho scritta in un giorno, attraverso vari momenti di delirio.
Niente, come altre storie pubblicate ultimamente, so perfettamente che in pochi si cagheranno questa cosa, ma la pubblico lo stesso perché penso ne valga la pena.
Un abbraccio,

Franny

   
 
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