It's
the
wrong kind of place to be thinking of you.
It's the wrong time for
somebody new.
It's a small crime and
I've got no excuse.
(9 Crimes –
Damien Rice &
Lisa
Hannigan)
When the days
they seem to fall through you, well, just let
them go.
(The Universal –
Blur)
But I have
grown older,
and you have grown
colder;
and nothing is very much
fun,
anymore.
(One Of My Turns
– Pink Floyd)
This is a kind
of love that only hate could understand.
(Amanda
– Green Day)
UNPREDICTABLE
“Remember!
It seems like forever ago.”
Oakland, Capodanno 1990
Apro
violentemente la porta di casa, la rabbia che mi fa
schizzare il sangue alla testa, facendomi avvampare il volto.
Bell’anno
di merda,
mi dico.
Fuori
rimbombano fuochi d’artificio che dentro il mio
petto risuonano come bombe a mano lanciate dritte al cuore. Non ho
voglia di
sentire nessuno, a parte me stesso urlare quanto mi faccia schifo
questa vita e
che sì, vaffanculo, non voglio vedere nessuno.
-
Nemmeno te, Mike! – dico, sbattendo furiosamente la
porta della mia stanza in faccia al mio migliore amico per poi
chiuderla a
chiave. Non mi sorprenderei se dopo tutto quello che è
successo, domani
trovassi un biglietto con su scritto che se n’è
andato, che non sopporta il mio
vittimismo, la mia faccia da culo imbottita di anti-depressivi e
marijuana e i
miei modi di fare.
Andare
via. Dopo tutto questo tempo, se ne vuole andare
via, con quattro parole sparate a vuoto, ma che mi hanno preso in
pieno, lasciandomi
tramortito, un cane randagio preso a pedate. Così ho preso a
mordere. Il
Gilman, la fottuta gente del Gilman, la puzza di merda del Gilman, lei
che si
perde nella folla e Mike che viene a chiedermi che cazzo ho. In tutta
risposta,
l’ho centrato in faccia con un pugno, il lungo naso che
scolava sangue sulla
maglietta già lercia e pregna di sudore. Troppo lucido per
essere fatto e
ricordare tutto, direte? Bene, v’insegno una cosa, il dolore
è l’antidoto a
qualsiasi merda, non viceversa. Anestetizzarlo non funziona, lo senti
comunque
pulsare sotto pelle e prima o poi ritorna, più forte di
prima.
-
Billie, apri la porta.
-
Vattene Mike. Lasciami solo.
Se
urlo ancora così sputo le corde vocali. Fanculo anche
quelle, servissero almeno a sistemare le cose. A cosa son servite,
invece? A
suonare in una cucina davanti a cinque persone e con la puzza di vomito
perché
il coglione di turno si è ubriacato marcio?
-
Billie, per favore.
Può
supplicare quanto gli pare. Qui dentro non ci mette
piede. Nemmeno gli rispondo. Anche perché questa faccia che
mi ritrovo e che
ora fisso contro uno specchio non è abbastanza tosta per
dirgli che mi
dispiace, che si è trovato nel posto sbagliato e al momento
sbagliato, e che
gli ho sganciato un destro solo perché avevo i coglioni
girati.
-
Io ti aspetto qui fuori. Quando vuoi, sai che sono qui.
E
così sento la sua schiena strisciare contro la porta,
così vicina che avvicinando la mano al legno potrei sentirne
il calore, ma non
è questo il momento. Ora devo restare
solo, o rischio di distruggere tutto ciò che mi circonda.
Sempre
che mi sia rimasto qualcosa da distruggere. Lei
vuole andarsene, mandare a fanculo questa città e anche me.
E se lei se ne va,
a me cosa rimane? Non avrò più le mani piene dei
suoi capelli e il naso pregno
dell’odore della sua pelle; non sentirò
più il suo sudore bagnarmi le dita e il
suono della sua voce tormentarmi il cervello. Se lei se ne va, a me non
rimane
niente. Solo qualche fotografia da tenere a mente, un tatuaggio fatto
apposta
per lei e la pelle morta sotto di esso.
Se
mi sto chiedendo se ne sia valsa la pena? Sì, lo sto
facendo e puntualmente mi ritrovo a maledire me e la cattiva stella
sotto la
quale sono nato.
-
Non ne vale la pena, Billie, cerca di capirlo.
Capire?
E chi ne ha la forza, Mike? Tu puoi riuscirci,
sei sempre stato bravo in queste cose. Io no. Io sono quello che si fa
mille
seghe mentali e non, quello che scribacchia canzoni d’amore a
chi non sa amare,
quello che suona riff sparati a cazzo sempre sugli stessi quattro
accordi,
alcuni dei quali stanno iniziando a vorticarmi nella testa senza darmi
pace.
Mi
giro a guardare la stanza. Un disastro. Abiti ovunque,
volantini, giornali, i libri di Mike e i miei quaderni di canzoni, un
tappeto
di mutande e calzini, la mia chitarra acustica abbandonata sul mio
letto
disfatto.
C’è
ancora l’odore
di lei su quelle lenzuola.
Mi
lascio sfuggire un grugnito disperato, battendomi i
palmi delle mani contro le tempie come a voler trattenere un mal di
testa
imminente, le stesse quattro note che come un cerchio ruotano nella
mente. È
assurdo come l’ispirazione, se così si
può chiamare, venga a trovarmi quando
non la vorrei, quando preferirei calare una mano nella tasca dei
pantaloni,
afferrare l’accendino e dare a fuoco ogni traccia della sua
fottuta presenza.
Il che comprende anche la delicata operazione di strapparsi il cuore
dal petto
e dar fuoco anche a lui. Ma no, non sono abbastanza forte per farlo. E,
come ha
detto quello spilungone dietro la porta, non ne vale la pena.
Così mi siedo sul
letto, le dita che immediatamente rintracciano le corde della mia
chitarra.
Della mia compagna; di vita, di
disavventure, di musica, rabbia e amore. Un sentimento così
forte che non
riesco nemmeno a riceverlo, ma solo a sentirlo. La prendo tra le
braccia,
rintracciando quasi subito le note che m’intralciano i
pensieri, ma perdendole
così come le avevo provate. Ritento, dita di nuovo sulla
tastiera, le note
ritornano, sfuggono ancora.
-
Cazzo. – sussurro roco.
Ci
provo ancora e questa volta è quella giusta. Gli
accordi prendono a rincorrersi tra le corde esattamente come nella mia
testa,
interrompendo il silenzio che i fuochi d’artificio hanno
lasciato dietro di
loro. Le mie dita si muovono decise, mentre i miei occhi si sono
fermati sulla
porta. Lì dietro, Mike sta sentendo tutto. Starà
pensando che è stanco, che
vorrebbe dormire nel suo letto come è giusto che sia e non
aspettare su un
pavimento freddo che il suo amico paranoico gli apra la porta e lo
faccia entrare.
Così, dopo circa tre minuti, abbandono la chitarra sul
materasso, raggiungo la
porta, ma subito torno indietro, afferro un quaderno abbandonato sulla
sedia di
fronte alla scrivania e appunto le frasi che si erano aggiunte alle
note mentre
suonavo.
Tattoos of memories and dead skin of trial.
For what it’s worth, it was worth all the while.
Abbandono
il quaderno, afferro la maniglia. Quando la
porta è aperta, trovo Mike seduto a terra, la schiena
appoggiata lungo lo
stipite della porta e la testa abbandonata all’indietro.
Dalla bocca socchiusa,
il suo russare risuona profondo, il naso adunco sporco di sangue e
sollevato in
alto, gli occhi chiusi. Mi viene da ridere, finalmente, ma non posso
evitare
che un moto di tenerezza mi si annidi nel petto. Così prendo
a scuotere
delicato la sua spalla sinistra, prima di vederlo sobbalzare, gli occhi
azzurri
inumiditi di sonno che rintracciano i miei.
-
Ti sei deciso ad aprire. – sussurra, la bocca
impastata.
-
Entra dai. – dico, aiutandolo ad alzarsi – Hai
bisogno
di dormire.
-
Mi fa piacere che te ne sia accorto. – esclama, per poi
lasciarsi sfuggire un gemito di dolore, portandosi la mano al naso
– Anche se
rimani comunque un bastardo. – aggiunge entrando nella stanza
e buttandosi sul
letto.
Questa
volta rido sul serio, prima di richiudere la
porta, lasciando fuori quest’anno di merda e le sue
preoccupazioni.
♣
Los
Angeles, Conway Studios, Giugno 1997
-
Di nuovo sta canzone, Armstrong?
Sì,
sbuffa pure Rob, a questo giro non mi fotti.
-
Sì. Qual è il problema? – chiedo,
spazientito.
-
Canzoni retrospettive. Non hanno mai funzionato,
Billie!
Lo
guardo negli occhi con fare omicida, i suoi che
tremano dietro le lenti degli occhiali che in questo momento vorrei
spaccare a
suon di schiaffi.
-
È il tuo cervello che non funziona, Cavallo! –
esclamo,
la voce che alza inevitabilmente di volume – Poteva non
andare bene per Dookie, e
lì avevi ragione. Poi
l’abbiamo infilata come una cazzo di b-side e adesso, dopo
che in questo album
ci stiamo mettendo anche la merda, mi vieni a dire che non va bene? Sai
cosa
c’è, Rob?
Si
è ammutolito e riesce solo ad accennare un
“no” con la
testa.
-
Che io quella canzone, a questo giro, la pretendo.
Ricordati che ci sono anche i miei fottuti soldi in questo disco.
E
detto questo, faccio per entrare in sala registrazione,
ma la voce di Rob mi blocca ancora.
-
Accetta un consiglio almeno. – la voce trema.
-
Quale? – sbuffo.
-
Mettici dei violini.
Mi
metto a ridere, abbassando la maniglia della porta.
-
Mettici il cazzo che ti pare, Cavallo. Quella canzone
la voglio a tutti i costi. – e così dicendo mi
rifugio nella sala. Raggiunto lo
sgabello di fronte al microfono, afferro la mia chitarra, la stessa che
sette
anni fa è servita a comporre Good
Riddance, e prendo ad accordarla con calma, il suono delle
corde che spezza
il silenzio cristallino attorno a me. Esso è lo stesso di
allora. Sempre la
solita di vita di merda. Alcool e insonnia si sono aggiunti alla
classica dieta
di dolore e anti-depressivi, mentre la fede che porto al dito
è fredda come il
letto dove, fino ad Febbraio, tentavo di dormire di fianco ad Adrienne,
sempre
così presa da Joey e sempre così stanca delle mie
paranoie, stufa, come dice
lei, “di dover crescere due figli e non uno”.
Sette
anni sono passati in un battito di ciglia e io
sento che non sto crescendo, ma che sto invecchiando. L’amore
è freddo, grigio,
i colori dei primi tempi e delle carezze con Adie sembrano sbiaditi,
distanti
dall’arcobaleno che ci aveva uniti in Minnesota dopo un
temporale che ci
costrinse a chiuderci in casa e fare l’amore. Dopo il tour
annullato,
ritrovarsi con Mike e Frank è stato una benedizione.
Nonostante la
preoccupazione per gli attacchi di panico e il cuore traballante di
Mike, siamo
qui a Los Angeles da Marzo. Lontani da casa, lontani da una vita vera
che non
ci appartiene quasi più, quella con i piccoli problemi
quotidiani che quasi
abbiamo dimenticato, stretti in questi vestiti da rockstar che ormai ci
soffocano, satelliti in un universo di compromessi che ti promettono
che tutto
andrà bene, che domani è il giorno fortunato e
invece rimani fottuto. Di nuovo.
Sono
trascorsi sette anni da quel maledetto capodanno,
quando questa canzone si è trasformata nel mio personale
invito a tirare fuori
le palle e a dimostrare a me stesso e agli altri che, in quello che
faccio, qualcosa
di buono c’è. E proprio mentre mi decido a
staccare gli occhi dal vuoto e
iniziare a provare, ecco che la porta dello studio si apre.
-
Ce l’hai fatta allora.
-
Sì Mike, ce l’ho fatta. – annuisco,
mentre lui si
avvicina con passo tranquillo.
-
Sento che stai facendo la cosa giusta. – dice,
sedendosi a terra, di fronte a me.
-
Dici? – sussurro incerto, lanciando un’occhiata
incerta
al microfono di fronte a me.
-
Certo. – dice lui, battendosi una mano su un ginocchio
– Scrivesti questa canzone che eri a pezzi e adesso
è arrivato il momento di
ricomporli.
Sospiro,
le corde vocali che vibrano piano. Quanto vorrei
che avesse ragione anche stavolta.
-
Non sono così sicuro di riuscirci, Mike.
-
Almeno provaci, amico. – risponde, per poi alzarsi,
tornando alla porta – Buona fortuna. – e
così dicendo mi lascia nuovamente da
solo, la testa affollata dalle sue parole. Avvicino le labbra al
microfono e
metto le cuffie in testa.
-
Rob? – dico, la mia stessa voce che mi arriva
all’udito
ovattata – Rob, figlio di puttana, aprimi il microfono nelle
cuffie, dai!
-
Agli ordini, Armstrong! – mi urla, dritto dal suo
microfono in regia, rischiando di spaccarmi il timpano.
-
Fottiti. – gli dico ridendo, per poi sistemarmi meglio
sullo sgabello, la mia voce che arriva perfettamente dagli auricolari.
Poi
abbraccio la chitarra, le mie dita che trovano l’accordo
giusto, esattamente
come quella notte e decido di fare una cosa, richiamando quel momento
alla
mente nel modo più realistico possibile. Così,
“sbaglio” una volta, poi di
nuovo ancora.
- Fuck!
Un
sussurro e tutto ha inizio.
♣
The
National Bowl, Milton Keynes,
2005
-
Vai Billie!
La
mano di Mike mi lascia una pacca
sulla spalla, la mia camicia ormai fradicia di sudore. Non oso
immaginare che
fine abbia fatto la matita che avevo messo sugl’occhi. Ma non
mi preoccupo, lì
fuori il pubblico è in delirio, impaziente di vedere il
finale di questo show.
Guardo ancora una volta negli occhi il mio amico, Frank dietro di lui
che
sorride un ghigno folle. Annuisco e a grandi (per quanto me lo
consentono le
gambe) passi raggiungo la pedana sul palco. La folla è un
delirio di lacrime e
sudore, di urla e accendini alzati nel buio della platea a formare lo
specchio
del cielo inglese sopra di noi, l’unica luce un occhio di bue
puntato su di me.
Prendo fiato e faccio partire, per l’ennesima volta da otto
anni a questa parte,
la canzone di un amore adolescente finito male e che, a distanza di
tempo,
ancora brucia sul fondo del cuore.
Amavo
Amanda.
Amavo
il suo sorriso, amavo la sua
pazzia. L’amavo ancora quando Adie è arrivata
nella mia vita e, senza pretese e
senza fare rumore, ha preso il suo posto. Ma, nonostante tutto, il
ricordo è
vivo nella mente. È il momento giusto per pensare a lei, ma
il posto è
sbagliato. Ora che il mio posto
è il
cuore di una donna a cui ho promesso amore per tutta la vita. Eppure,
ogni
volta che mi avvicino al microfono, quel primo Gennaio del 1990 in cui
il mio
cuore è andato in frantumi torna alla mente, il volto di lei
che trova spazio
tra i pensieri.
Chissà
se è sposata. Chissà che
faccia ha lui. Ricordo la sua, nonostante non mi sia rimasta nessuna
fotografia, bruciata una ad una dopo il suo addio. Della cenere rimasta
ne ho
fatto una canzone, quella che adesso abbandona gli amplificatori per
arrivare
al cuore di settantacinque mila anime che, come me, hanno sentito il
bisogno,
almeno una volta nella vita, di mandare qualcuno a farsi fottere quando
il
cuore avrebbe voluto dire “resta ancora un po’ con
me”.
Poi
passa il tempo e lui, come
qualsiasi altra droga, non funziona contro il dolore, ma ti aiuta a
conviverci,
a farti rendere conto che finché sei vivo, stai solo
crescendo e che la
vecchiaia, in realtà, non esiste. Non finché
senti che puoi farcela, che quella
che hai appena scritto non è l’ultima canzone e
che, sì, la voce che hai è
abbastanza buona per parlare al cuore della gente, ad un mare di anime
che
cantano insieme alla tua, con i cuori rivolti verso un cielo pieno di
stelle.
Ed
è questo il momento in cui
dimentico tutto.
Non
c’è niente oltre le loro mani
che applaudono e un brivido che mi attraversa le vertebre, mentre le
ultime
parole attraversano le mie labbra come una brezza leggera.
It’s
something of unpredictable,
but
in the end is right.
I
hope you have the time of your life.
Angolo
della pazza:
E
chi non muore, si rivede!
Salve, salve famiglia dei nani. Son tornata. Più o meno.
Era da tempo che sognavo di scrivere qualcosa sia su Good
Riddance che su Whatsername.
Alla fine è uscito questo. Non so quanto possiate apprezzare
questa storia. L’ho
scritta in un giorno, attraverso vari momenti di delirio.
Niente, come altre storie pubblicate ultimamente, so perfettamente che
in pochi
si cagheranno questa cosa, ma la pubblico lo stesso perché
penso ne valga la
pena.
Un abbraccio,
Franny