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Autore: Gaia Bessie    25/10/2013    4 recensioni
Qualcuno dice che, per Annabeth Castellan, la guerra non è mai finita. Lo s'intuisce dal sorriso carico di malinconia che dedica ai sottomessi della gerarchia di Crono, o dalle parole troppo dure che rivolge al marito. Siamo come estranei, Luke, estranei con dei ricordi. Eppure si dice che la vita non ci lasci mai cicatrici che non siamo in grado di sopportare. Oppure ci lascia sulla terra per essere trafitti con aghi d'acqua.
[Luke/Annabeth/Percy; OC | Post fine quinto libro alternativo| Mini long| Angst]
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annabeth Chase, Luke Castellan, Nico di Angelo, Percy Jackson, Rachel Elizabeth Dare
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Questa storia esiste perché, fondamentalmente, sono una persona parecchio egoista: è insito in me il bisogno continuo di poter dimostrare che le cose potevano andare anche come sostenevo io. E così è nata l'idea per questa storia, un progetto ambizioso per una serie "Le rose che non colsi" formata da diverse parti. Questa è la prima, il frutto di qualche mese di lavoro (e che nessuno mi chieda perché word ha cancellato un paio di volte il documento. La mia frustrazione ha giunto livelli epici) e di tantissimi scleri. Perché chiaramente è mio diritto urlare contro i personaggi quando non si comportano come voglio io. E non lo fanno, perché quest'amosfera cupa e opprimente (ma, d'altronde, come poteva essere la corte di un Crono vincente?) confonde un po' tutti. E, sì, questo è un modo carino per dire che sono entrata nel più completo OOC.
Chiaramente, la storia segue una linea diversa dal Canon: Luke non ha mai ospitato Crono nel suo corpo, ma si è limitato a servirlo come "Generale" e a portargli Dedalo, il quale gli ha gentilmente fornito un corpo. Imperfetto, ma pur sempre un corpo. Come da copione, quindi, i cattivi hanno vinto e Crono ha insediato la sua corte un po' particolare. Il resto della trama, spero, si chiarirà con il continuare della storia: sono sei capitoli, già scritti (ma, ehi, abbiamo un sequel) che verranno pubblicati ogni venerdì. Altre note le trovate a fine capitoli, con i vari prompt/citazioni. Per qualsiasi cosa, trovate il riquadro del mio ask nella mia pagina autore, basta un click. Buona lettura.
(... E tantissimi auguri alla mia Silvietta, che oggi compie gli anni. Ha assistito a quasi ogni minuto della stesura di questa storia, insieme alla mia sorellina, che saluto con tantissimo affetto. Altrimenti mi uccide e poi qualcuno dovrà pulire lo scempio sul tappeto).

 



 
Non posso scriverlo nella dedica,
perché ci sono cose che, oltre a non poter essere urlate,
non possono nemmeno essere scritte.
(Dimmi che mi ami).

 

C'è qualcosa di strano, in Annabeth Castellan: qualcosa che stordisce e depista, un aggettivo insito in lei che svia da una qualunque supposizione. Perché succede che, quando qualcuno si ferma a guardarla, nota solo l'alone sbiadito di malinconia che l'avvolge e, il secondo dopo, lei è già sparita.
E qualcuno dice che è il suo sorriso, freddo e di quella malinconia che scioglie il cuore, lo stesso sorriso che – così si dice – è stato in grado di stregare il Generale Castellan, che certamente non è noto per il suo buon cuore. Eppure, sua moglie è tutta un cuore, perché è lei che piange quando passa davanti al cimitero e pensa che alcuni bambini sono rintanati nel ventre della madre più grande di tutti, mentre lei è fuori ad accettare fiori blu da un galantuomo che certamente non riscontrerà il favore del Generale. Lui è sempre con lei, sempre pronto a coprirle le spalle con il braccio e a dimenticare la provenienza già nota di quelle lacrime, poiché ha la certezza di non averle provocate lui.
È stato Luke Castellan a raccoglierla e a portarla via dalle rovine del campo di battaglia, strappandola dalle grinfie di un fato troppo duro per lei, e poi sposata con il benestare di una divinità che può essere corrotta solo con il sangue, poiché è di sangue e disperazione che si nutre. Probabilmente il Generale si era dannato per sua moglie: l'avevano visto tornare, lacero e insanguinato, dalla battaglia. E si era già perso, con quel corpo sottile abbandonato fra le sue braccia, scosso da tremiti.
Era tornato che tremava, sotto la scorza dura del soldato, per quell'unica paura che gli scuoteva l'anima, dilaniandolo. Le stringeva la mano e la trascinava via dalla polvere.
C’è qualcosa di strano, in lei, anche mentre si muove per la stanza, al braccio del marito: la signora Castellan si trascina dietro la polvere della battaglia e le lacrime delle vedove, quelle che ti rimangono dentro e non escono più, quelle che lei versa per una morte abolita dalla memoria comune. Eppure si palesano nel suo sorriso – e succede che suo marito, ogni volta che la guarda, rimane pietrificato: come una statua o un soldato davanti a una ferita vecchia di anni – e nelle sue movenze accorte, sotto il mantello di sicurezza che il Generale le tiene addosso e non le toglie mai di sopra, per proteggerla da un pericolo che probabilmente vede solo lui.
E qualcuno dice che, per Annabeth Chase, la guerra non è mai finita.

 

***

 

L'aveva colta che era appena finita l'estate, il vento freddo che la faceva oscillare pericolosamente come un fiore sul punto di cadere nell'erba: l'aveva trovata che era ancora sul campo di battaglia – e si tappava le orecchie, mentre le lame sfrecciavano sopra la sua testa. Ma non era veramente lì, mentre qualcuno avrebbe potuto ucciderla e lei non riusciva a muoversi – a fissare un punto non meglio precisato, all'incirca allineato con l'orizzonte, rannicchiata in un angolo. Tremava ancora, come se fosse sotto attacco. Scivolando accanto a lei, era riuscito a scorgere quella macchia rossastra, che poi aveva compreso essere il sangue di Percy Jackson ed era scattato in piedi animato da una piacevole vampata che gli scaldava le viscere. L'aveva sollevata come se fosse stata un fuscello, passandole le braccia attorno ai fianchi per tirarla su e poi caricarsela in spalla con un'estrema facilità. Lei non si era nemmeno opposta, non aveva gridato né pianto, si era semplicemente abbandonata sulla sua spalla, il viso nascosto dalla pelle tenera del collo del Generale. In quel momento, lui aveva deciso che l'avrebbe salvata: quando se l'era caricata sulle spalle e non aveva nemmeno pensato a ucciderla, solo a trattenerla per un po', solo per dimostrarle che poteva vivere anche senza la miserevole compagnia di Percy Jackson.
E l'aveva scaricata su un letto dalle lenzuola un po' ruvide e piene di quel profumo pungente da Generale, mentre si avvicinava alla porta con passi incerti. Lei l'aveva guardato con occhi piene di lacrime. La porta si era chiusa comunque.
Luke Castellan era tornato che erano passate circa cinque ore e si era gettato sul letto, mugolando di dolore per una ferita ancora aperta sulla schiena. Si era voltato con circospezione, piegando leggermente la testa, trovandosi dunque vicino allo sguardo tagliente di lei: aveva smesso di piangere, non avrebbe più ricominciato.
Le aveva circondato la vita con un braccio, stringendola fino a farle male quando lei aveva tentato di divincolarsi dalla sua presa. Si era avvicinato al suo viso, sfiorandole l'orecchio con le labbra sottili, che alla luce tenue della stanza sembravano più un'altra ferita nel suo stesso viso. Quando lei l'aveva guardato negli occhi, aveva trovato solo quel rancore eterno di cui Luke non riusciva a liberarsi, quella scintilla che era divampata quando si era accorto che lei non sopportava il suo tocco.
«Mi sposerai» aveva sussurrato, sfiorandole la guancia con la punta del dito. «Sarai la signora Castellan» e le aveva spinto una ciocca di capelli dietro le orecchie. «Sarai bella, ammirata, rispettata» e un po' aveva riso, sfiorando quei tasti che sapeva essere particolarmente sensibili. «Non dovrai mai più combattere, mai più».
Lei aveva aperto la bocca,come per dire qualcosa, ma lui l'aveva zittita con un respiro leggermente più rumoroso come per comunicarle che non poteva scegliere.
«Verrai ovunque con me, anche alle cene con gli altri Generali. Siederai accanto a me, a un posto di distanza da Crono. Porterai in grembo i miei figli, li crescerai» le aveva sussurrato, prima di fermarsi di fronte a quella presa di posizione che l'avrebbe certamente fatta tremare. «Mi amerai».
Lei non l'aveva nemmeno guardato, si era solo leggermente irrigidita fra le sue braccia. E non le era nemmeno saltato in mente di rispondere, di opporsi, mentre lui le sfiorava la pelle ancora solcata da ferite aperte. Lui, le ferite, sembrava nemmeno non sentirle più mentre il sangue macchiava le lenzuola.
«Resterò sempre con te» le aveva sussurrato, allentando un po' quella stretta possessiva che aveva mantenuto sul corpo fragile di lei. «Sempre».
E lei un po' aveva sorriso, svelando l'esistenza di un dolore che scompariva controluce. «Non mi lascerai mai andare?» aveva mormorato, sottovoce.
«Mai» aveva confermato lui, con il tono duro del soldato, che era solito a usare con quel manipolo di soldati ribelli che non obbedivano agli ordini basilari.
«Era proprio quello che temevo» era stata la risposta secca di Annabeth, che aveva spezzato quell'aria troppo tesa che si respirava. All'improvviso, l'aveva guardato negli occhi, con una calma che aveva quasi dell'inquietante, costringendolo inevitabilmente a voltarsi per non dover incontrare il rimprovero che lei gli rivolgeva.
Quando il sonno aveva cominciato a pesargli sulle palpebre, Annabeth aveva cominciato a muoversi, facendo attenzione a non far oscillare eccessivamente il materasso.
Lui aveva mantenuto gli occhi serrati, quasi come se avesse voluto mandar via qualcosa. O qualcuno. E in silenzio lei gli aveva sfiorato la mano, pietrificandolo.

 

***

 

E poi sono tornati, seguendo quella marea che portava verso il fulcro del potere della sesta era: Crono attrae traditori e voltagabbana, mezzosangue pentiti che hanno cambiato fazione per rivoltarsi contro il divino genitore. Si sono riversati nel palazzo di Crono e vi hanno preso dimora, trasferendosi nel lato oscuro in pianta stabile, poiché non esiste nemmeno un esiguo gruppo di ribelli a contrastare il potere cieco che emana il nuovo supremo signore del mondo.
Annabeth Castellan è perennemente appesa al braccio di suo marito, la testa abbandonata contro la sua spalla, i capelli che sembrano una colata dorata contro l'uniforme neve e sangue del Generale. La sfiora, lui, quando la sente dibattersi un po' per allentare quelle funi che le ha legato addosso. E aspetta che lei torni a far aderire il suo corpo con quello di lui, come aveva fatto quando l'aveva portata via dalla battaglia. Lo sfiora, lei, quando la sua stretta s'intensifica e non le permette di respirare. E forse un po' si cercano, quando si separano nella folla e si trovano subito dopo, in una stretta lieve di mani che si sfiorano con discrezione, trovandosi.
Forse lei un po' li ricorda, i tempi in cui lui doveva trascinarla, in mezzo ai corridoi dei Tenenti: aveva sempre le braccia piene di lividi – di quando lui le si era premuto contro, bruciandola e ferendola – e lo sguardo timido e un po' rassegnato di una prigioniera eterna. Adesso sorride, anche se il suo sorriso rimane sempre un concentrato di malinconia che spiazza e confonde chiunque lo guardi. Stringe la mano di suo marito e non si guarda mai attorno, senza nessuna voglia di soffermarsi su qualcosa.
Ogni tanto nota un volto che conosce bene, un fantasma che si palesa nel volto stanco di Silena Beauregard – ed è ancora più sciupata da quando si è liberata del peso del primo figlio, ancorata al braccio di un marito violento che Crono le ha affibbiato – o nello sguardo triste di Charles Beckendorf – quando guarda Silena e la vede ancora felice, senza le lacrime sul volto e i fianchi dilatati da un figlio non suo. E lui non è riuscito a morire prima di esser catturato dall'ennesima ricca ereditiera a caccia di un marito ben più giovane – e di tutti quelli che le passano accanto senza sfiorarla. Se si volta, nota i fratelli Stoll in un angolo che lucidano bicchieri, e Katie Gardiner che regge lo strascico della moglie
del Sergente Greengrass1. Lei, però, è quella che li ha traditi nella maniera più plateale: li ha lasciati nella polvere, proprio lei che aveva giurato di non tradirli mai. È quello che pensa mentre si trascina nelle sale dei ricevimenti, sorride davanti all'ennesimo sfoggio di potere di un regime che non è il suo.
Sorride, Annabeth Castellan, ma l'attimo dopo se n'è già andata in un turbine di raso che non lascia scampo. Nemmeno al marito, che la segue con lo sguardo, sempre.
Eppure, si ferma all'improvviso che è ancora in mezzo alla sala, il Generale che la segue a pochi passi di distanza: li ha visti, ne è certa. E alza la mano per trattenerli, un grido che le si blocca in gola. Scuote la testa, nessuno si è accorta che Annabeth Castellan è stata rimasta colpita da qualcosa, qualcuno. Quando però lei rialza lo sguardo, loro se ne sono già andati, correndo quasi in un turbine rossastro di una veste da generale e una coda vermiglia che si agita sulle spalle. Ma le sembra ancora di vederli, mentre si addentrano con circospezione nella coltre di invitati. Il bagliore noto di un paio di occhi verdi, due teste così vicine che sembrano quasi una sola.
«Sono loro» conferma Luke, sottovoce, stringendola a sé. «Lui è uno dei nostri, adesso, uno dei nuovi Sergenti. Uno dei migliori voltafaccia di tutta la guerra».
Annabeth annuisce, si lascia offrire un bicchiere pieno di un liquido rosato e beve, quasi senza pensarci, appoggiandosi al corpo del marito in una muta preghiera. Che lui coglie, quando le stringe la mano e lentamente la scorta a casa, passando per quei campi sfioriti che circondano il cimitero. Non salutano nessuno, non parlano, ma camminano insieme e lui saltuariamente si china per cogliere un fiore scampato all'eccessiva calura. Lo offre sempre a sua moglie ma lei non li prende mai.
Si fermano che sono in mezzo alle pietre marmoree, cicatrici biancastre nel campo sfiorito. C'è una tomba, lì vicino, piena di nomi che Annabeth Chase conosce bene: il ventre della terra ha accolto tanti figli, in un'accozzaglia di carni che diventano polvere fin quando non è più semplice distinguerne la provenienza genetica. E loro sono lì.
Le basta alzare leggermente lo sguardo per scorgerli con chiarezza e non come macchia sfocata sullo sfondo. Sono davanti a lei, si avvicinano con passi misurati, in un ondeggiare di gonne color panna che si tendono su un ventre leggermente più pieno per ospitare una creatura in arrivo. Luke le posa una mano sulla spalla, in un accenno di carezza che si perde nelle volute pervinca delle maniche fumose del suo vestito, la mano scende fino a sfiorare la pelle delle spalle. E lei nemmeno li ricorda più, i tempi in cui non era la mano ruvida e callosa di Luke, che scendeva lungo i solchi lasciati dalle cuciture troppo strette; ma forse lui lo fa, quando sobbalza perché lei si è allontanata troppo bruscamente o si è messa a discorrere con un ragazzo dai capelli neri – e lui si ritrova a controllare se ha anche gli occhi azzurri.
Annabeth inclina la testa, facendo scivolare sulla guancia una ciocca color miele. Lei – loro – certamente lo ricorda, com'era, dato che suoi erano quegli sguardi che tentavano di incenerirla. Luke la scuote leggermente, stringendole il braccio per farla andare avanti. Lei si volta solo per un momento, quando li superano.
È un attimo, ma si accorge che la stanno ancora guardando: Apollo le sorride con aria comprensiva, proprio lui che li ha abbandonati tutti quanti.
Però, è soltanto lo sguardo freddo di Rachel Elizabeth Dare che non le lascia tregua.

 

***

 

Luke le si preme addosso, sussurrandole qualcosa all'orecchio, parole che lei non riesce mai a comprendere. Meno una.
«Voglio un figlio» le soffia, accasciandosi sopra di lei – dentro di lei – e le passa le mani sul ventre, come per coccolare un bambino che ancora non c'è. Al suo posto, però, stanno quei lividi scoloriti di una settimana prima, quando il passato è tornato a essere presente e futuro. E sembra vagamente giusto, quando lui usa troppa forza e lei è così fragile da non riuscire a sopportarlo. «Dammi un figlio e avrai tutto ciò che vuoi».
Non lo trova mai, il coraggio di dirgli che sta già arrivando, un figlio. E lei non lo vuole.

 

***

 

Luke la ritrova che si è come fossilizzata sul dondolo, in giardino, la testa gettata all'indietro e le mani che strofinano le braccia per contrastare il freddo che avanza. Ha sempre lo sguardo fisso sulla porta, ad aspettare qualcuno o qualcosa. Lui riesce a malapena a camminare, incerto su quelle gambe che non sembrano poi in grado di reggerlo. Luke crolla sul dondolo, inerme, fa scivolare le mani sulle gambe scoperte della moglie in una muta domanda – anche se non avrebbe poi bisogno di chiederlo: lei lo ricorda bene. E poi lo dice, strascicando le parole, perché anche parlare gli provoca un dolore eccessivo e insopportabile.
«Oggi è martedì2» mormora, mentre le mani di lei si insinuano fra i suoi capelli. «Ricordi?».
Annabeth annuisce, ogni volta. Lo ricorda bene, quel martedì in cui l'ha raccolta dal campo di battaglia, per poi sparire e tornare con le ossa rotte e poco sangue nelle vene.
È sempre stato così, ogni martedì che avanzava e lasciava posto al seguente, e Luke che tornava con contusioni sparse sul corpo, ogni volta.
Lei si allontana, come ogni volta, scostandosi bruscamente dal corpo di lui, ancora umido di sangue e sudore. Lui la guarda, disorientato, pietrificato.
«L'hai promesso, Annabeth» mormora lui, affranto. «Avevi detto che saresti stata mia moglie».
Lei lo squadra, perplessa. «Lo sono già» e le mani tornano, inerti, sulla sua gonna. «Sono già tua moglie, lo sai».
«Pensavo che mi avresti amato» mormora, alzandosi con cautela. «Pensavo che lo avresti dimenticato, prima ho poi. Ti ho dato tutto, pensavo che sarebbe stato bello».
«Lo è stato» mormora lei, senza il coraggio di guardarlo in volto. Solo che lui se n'è già andato, sparito in quel silenzio opprimente che li avvolge.
Sorride al nulla, come per rincuorarlo, ma forse lo fa solo per sentirsi un po' meno in colpa. Per tornare, per poco, dalla parte giusta del mondo.

 

***

 

«Cosa siamo, Annabeth?» la domanda esce come un sibilo mentre il sangue nerastro gli cola giù dalla schiena. «Eravamo amici, un tempo».
Lei gli passa un panno umido sulla schiena, sobbalzando davanti a quelle ferite che eruttano pus e sangue attraverso striature nerastre che deturpano la pelle.
«Siamo come estranei» sussurra, strizzando il panno. Le mani le s'imbrattano di sangue. «Estranei con dei ricordi3».

 

***

 

Nel cortile c'è solo un silenzio teso e opprimente, impossibile da spezzare: Annabeth Castellan è seduta sull'erba, fra quei fiori di un blu sbiadito che nessuno coglie più. Suo marito si è abbandonato sul pavimento, la testa sepolta nel grembo di lei, la gonna come un sudario steso sotto il suo collo. Lui si lascia trafiggere da aghi d'acqua per non togliere a lei il riparo della tettoia, lasciando che l'acqua gelata lavi via i rimasugli di sangue incrostati sulla pelle. Alcuni passi paiono arrivare da un luogo lontanissimo, in un altro mondo, in un altro tempo che non c'è già più. Luke si volta, lo sguardo liquido di pioggia. O di lacrime.
«Mi ami?» sussurra, muovendo leggermente la testa sulle gambe della moglie. Una mano si arrampica fino ad afferrare quella di lei.
La risposta di lei è così gelida che nemmeno quell'acqua che gli scorre addosso ha il potere di farlo rabbrividire in quel modo. «No» dice lei, in un sussurro.
I passi si fermano. Per un attimo, Rachel Elizabeth Dare crede davvero di aver visto Luke Castellan sull'orlo delle lacrime.

 

***

 

Luke si alza di scatto, senza guardarla negli occhi: e, per un attimo, è gelido come quella pioggia che gli si insinua fin sotto i vestiti. Scuote la testa, mentre la pioggia lava via dal viso tracce d'altro genere. E mentre si allontana, Rachel comprende che è vero che il Generale è tremendamente difficile da cogliere. Come la pioggia.

 

***

 

Tenendole la mano come una bambina, Rachel la riporta dentro casa, nel tepore un po' artefatto del camino sempre acceso: Luke è lì, seduto sulla sua poltrona, la pelle che cattura la luce riflessa del fuoco. Non si muove quasi, se non per il ritmo regolare delle spalle mosse da un respiro inudibile. Si raddrizza quando la sente arrivare.
«Cos'altro vuoi, Annabeth?» domanda in un sussurro stanco, distrutto. Nel tempo che avanza sul suo volto mentre pronuncia quelle parole. «Ti darò qualunque cosa».
Lei sorride nel buio un po' innaturale che la circonda, mentre i suoi occhi riflettono la medesima oscurità. «Uccidimi» gli sussurra, provocatoria. «Per favore, uccidimi».
Lui scuote la testa, voltandosi definitivamente verso di loro, lo sguardo un po' stralunato di fronte alla richiesta di sua moglie. «Questo no» risponde, semplicemente.
In quel momento Rachel Dare capisce perché lui le ha chiesto – ordinato – di prendersi cura di sua moglie. Si volta a guardarlo un'ultima volta, prima di uscire dalla stanza, perplessa dal suono un po' ovattato che giunge dalla poltrona: il Generale Castellan sta piangendo.

 

***

 

Si è distratta un secondo e poi l'ha trovata nascosta nella vasca da bagno, immersa nell'acqua gelida, le labbra pallide e le mani già cianotiche. È corsa accanto a lei e ha notato con immenso sgomento che si è tagliata i polsi, un solo taglio che si stagliava irregolare sulla superficie uniforme della pelle, deformandola.
Urla, facendo accorrere il Generale e il Divino Apollo, ancora vestiti con le uniformi e freschi del consiglio di Crono. Luke è subito crollato accanto alla vasca, accogliendo fra le braccia quella personcina apatica, silenziosa, sollevandola in un turbine di aghi d'acqua che lo impalavano per far uscire altro sangue.
Si infradicia i vestiti di acqua e sangue, premendosela addosso per portarla via da lì: Annabeth gli posa la testa sulla spalla, gli occhi socchiusi nella luce prepotente del mattino. Lo sente a malapena mentre spalanca cassetti e s'industria per rimettere pelle e carne al posto del sangue, costringendola a ingoiare quel quadratino di ambrosia che lei rifiuta con ostinazione assolutamente degna di lei. Quando riesce finalmente a farle ingoiare il cibo degli Dei – almeno questo non è mutato con l'avvento di Crono – si stende accanto a lei, esausto. Le stringe la mano, nascondendo il volto nell'incavo della sua spalla, trafiggendola con qualcosa che somigliava alla pioggia.
Si sorprende, quando la sente avvolgerlo con le sue braccia, stringendolo contro di sé. Alza lo sguardo, certo di incontrare nuovamente quegli occhi vuoti che non fanno altro che riflettere la tortura a cui veniva sottoposto. Rimane pietrificato, come ogni volta, quando si accorge che lei sta piangendo.
«Mai più» le sussurra, bagnandole i capelli con quella pioggia, come per lavarla da tutte le sue colpe. «Non potrò più lasciarti sola, Annabeth, non più».
Lei lo guarda semplicemente, senza dire nulla, sorridendo leggermente mentre il tremore la lascia andare. Nasconde il volto nel torace di suo marito.
«Lo so» sussurra, bagnandogli la camicia. «Voglio andarmene Luke, voglio che finisca tutto».
Lui, per una volta, non sa cosa dire. E così ascolta il suo silenzio, disorientato: è abituato a quei fiumi di parole che lei gli riversa contro quotidianamente, con quella cadenza regolare che è propria di Annabeth. Per una volta, lei ha smesso di pronunciare tutte quelle parole assolutamente prive di qualsiasi significato: gli ha lanciato addosso un'accusa implicita e silenziosa, dirette a affilata come un coltello che si pianta nella carne.
«Cosa ti manca?» sussurra Luke, reprimendo quell'istinto che quasi lo costringe a singhiozzare. «Posso darti tutto quello che vuoi».
Annabeth ride, in una cadenza un po' melodiosa e un po' forzata che risuona nella stanza. «Mi manca lui» aveva detto, citando quello che Luke non le potrà mai restituire. E sorride di fronte alla sua espressione rabbiosa, mentre la cicatrice sembra intenzionata a dividergli in due il volto.

 

***

 

Ogni notte, lui le si preme contro, baciandola fino a rubarle il respiro dalla bocca per farlo suo. E lei tace, ostinata, piantandogli le unghia nella schiena con forza, facendolo sanguinare. E Luke dice qualcosa solo quando inarca la schiena e scivolava accanto a lei, sul lenzuolo ruvido che fa male a contatto con la pelle ferita.
Chiede una sola cosa, una sola proposizione che come ghiaccio entra nelle ossa finché lui non sente più nulla. Annabeth non risponde mai.
«Dimmi che mi ami».

 

***

 

«Perché hai scelto di sposarmi, quando potevi arrivare proprio dove desideri trovarti?» Luke la sfiora, avendo la sensazione di non carpirla mai realmente.

(Nell'alto dei cieli).

«La scelta era solo la morte, Luke» risponde sempre lei, calma. «E so che lui non avrebbe voluto che rinunciassi senza combattere».

(Eppure Percy Jackson l'aspettava ancora, mentre sulla terra lei veniva crocifissa con aghi d'acqua).

 

***

 

Il martedì è il riposo: il giorno in cui t'affacci lungo le vie impolverate del Nuovo Continente e noti il Generale Castellan che s'incammina con sua moglie, verso il cimitero. Dietro di loro avanzano un Dio decaduto e il suo Oracolo, una vergine profanata dal fautore delle antiche leggi. Li vedono avanzare, in massa, fra le lapidi.
Il martedì è rimpianto. Non c'è una persona che non sappia che Annabeth Chase rimpiange di non essere fra quei corpi che si fondono nella terra e nella polvere, il sangue che si è seccato sui brandelli di vesti nascosti nel ventre della madre più grande di tutte. Eppure Luke Castellan l'accompagna ovunque, sopportando il suo rimpianto cieco di fronte a quella perdita davanti il quale è stata messa davanti, brutalmente. Ma lei non piange, né nasconde il volto nella camicia di suo marito.
Fissa la terra, come se si aspettasse quella risposta che non arriva mai. E, ogni tanto, Luke le fa scivolare le mani lungo il ventre, accarezzando un rigonfiamento appena percepibile con la punta delle dita, quando fruga con attenzione oltre a tutte quelle pieghe di stoffa candida così inadatta alla sua condizione.
Gliel'ha detto. Gliel'ha sussurrato un martedì mattina, quando si è svegliata e non ha fatto in tempo a raggiungere il bagno, rimettendo sul pavimento. Lui le ha tenuto la fronte, mentre lei si contorceva per espellere quel poco di cibo che l'avevano costretta a ingerire – e aveva mormorato qualcosa, mentre Luke la raccoglieva dal pavimento per l'ennesima volta. Aveva detto, urlato, che lei quel bambino non lo voleva – per poi rialzarsi per correre via, lontano da lui.
Adesso camminano mano nella mano, lei un po' incerta mentre passano davanti a quelle tombe senza nome, quelle in cui avrebbero gettato anche lei, se avessero potuto.
Gliel'ha chiesto. Una mattina si è svegliata e ha comunicato al marito che, se fosse stato un maschio, avrebbe voluto chiamarlo Perseus. E Luke non si era scomposto.
Le aveva detto di no e si era chiuso la porta alle spalle, senza altre parole, lasciandola da sola a dedurre quel rifiuto che gli pesava sulla lingua.
E lui l'ha lasciata. Quando un giorno si è svegliata e ha trovato un biglietto inutile e troppo silenzio che si spandeva nella stanza come gas velenoso, ubriacandola di quella libertà un po' improvvisa che aveva ricevuto. Poi si era voltata e aveva visto Rachel scuotere la testa, in lacrime, come se nascondesse qualcosa – o qualcuno.
È tornato per portarla al cimitero, come per mostrarle la vita che avrebbe dovuto fare se lui non l'avesse salvata, raccogliendola dalla polvere.
«Mi sei mancata» le sussurra, chinandosi verso di lei con una naturalezza che disarma. «Non volevo lasciarti sola». E lei lo sa già, anche se lui sente l'esigenza di ripeterlo.
Lei non dice nulla, facendolo sospirare. Luke nasconde il viso nei suoi capelli, distanziandosi dagli altri membri della sua compagnia.
«Vorrei mancarti almeno quanto tu manchi a me» mormora, scrollando le spalle. «Sarebbe bello, riuscire a farti dimenticare qualcosa». Qualcuno.
«Sono poche le persone che riescono a mancarmi» risponde lei, semplicemente. «E quando succede, me ne accorgo solo io».
E lui le dà le spalle, in silenzio, quel muro ostinato con cui si circonda ogni volta che riceve una di quelle risposte che non vuole sentire. Si rannicchia su sé stesso, come un bambino, il cuscino lasciato al centro di quel letto vuoto e la fronte che sfiora le sue stesse ginocchia. Forse, aspetta quel conforto che non merita e mai arriva quando lui si ripiega sui suoi angoli e Annabeth rimane a fissare il vuoto, con lo sguardo spento di una divinità pagana e mal riuscita. In un barlume di pensiero sconnesso, Luke ogni volta ripensa a quando lei gli ha narrato di aver udito il canto delle sirene – e ogni maledetta volta, si rende conto che adesso lei non desidera nemmeno più salvarlo.
Nonostante la passione di Annabeth per le cause perse, lui si trova al di sopra perfino della passione di Annabeth per i reietti. E lui è il peggiore: il più codardo, quello meno affidabile. E ricorda tutte le volte in cui l'ha ferita, brutalmente respinta, promettendole quella luna che poi non le prendeva mai.
«A te manca un'altra cosa» le risponde lui, sottovoce. Un'altra persona. E, mentre si volta e nota che lei sta dormendo – e sua è l'espressione un po' pacifica e un po' tormentata che assume quando dorme, e arrivano quegli incubi che sono troppo colorati per essere sogni e con quella parvenza di realtà filtrata che la confondono – e non l'ascolta già più. E mentre l'avvolge con le sue braccia, si domanda se un giorno le mancherà mai a tal punto da costringerla ad ammetterlo.

 

***

 

Luke sparisce una volta al mese, con la cadenza regolare che a volte hanno i mariti con le amanti: ma lei non se ne preoccupa, persa com'è nelle poche stanze in cui passa il suo tempo a sognare chi non c'è più. Rachel Dare passa il tempo con lei, trascinandosi dietro il peso di un ventre occupato da una creatura che vive da otto mesi, sforzandosi di non farsi lasciare indietro da quella ragazza che le sembra di non conoscere più. Non che prima il loro rapporto fosse prettamente idilliaco, ma come spesso accade, la guerra aveva sfumato i confini prima netti e definiti che separavano le emozioni. È con ingenuità che un giorno esci in giardino e aghi gelati ti trafiggono la pelle, facendoti riflettere, obbligandoti a porti quella domanda che prima ignoravi sempre: a cosa serve vivere se nessun altro riesce a sopravvivere?
È allora, che Annabeth ha compreso dov'è che vuole arrivare, appena ne avrà la possibilità. Nell'alto dei cieli, le ha detto Luke, in silenzio.
È lì che guarda, quando getta indietro la testa per farsi impalare meglio dalla pioggia – e in quel momento vede solo un sorriso non suo, che a stento ricorda.
«Oggi è martedì» le sussurra Rachel, in un attimo, probabilmente mentre lo stesso pensiero le invade la mente. La stessa cosa, persona, che continua a tornare.
«Lo so» risponde Annabeth, senza nemmeno voltarsi nel freddo che imperterrito continua ad avanzare. «Ma lui oggi non c'è».
Gliel'ha spiegato, Rachel, che Apollo l'ha sposata per proteggerla: per non doverla affidare all'ennesimo Tenente violento e sgradevole, per non creare una variante un po' meno bella di Silena Beauregard. E, anche se Luke non gliel'ha mai detto, lei ha sempre saputo che probabilmente l'Oracolo era destinato a lui, un dono rifiutato per quella sensazione che lei gli aveva trasmesso quando l'aveva raccolta anche a costo di lasciarsi trafiggere dai coltelli dei nuovi sgherri di Crono.
«Ti manca, almeno un po?» Rachel appare sciupata davanti la luce fievole che buca le nuvole. La sua stanchezza le si è dipinta sul viso all'improvviso, senza avvisare.
Più o meno quando ha dovuto abbandonare lo spirito dell'Oracolo per diventare la moglie di un Dio decaduto, una donna con i piedi ostinatamente ancorati sulla terra.
Annabeth la guarda, perplessa, come se non comprendesse il senso reale della domanda. Poi, scuote la testa, laconica, lasciando che la pioggia le schizzi sul volto.
«Sai, Annabeth» le sussurra Rachel, con un sorriso debole che le riscalda il volto. «A volte dovremmo solo rassegnarci a essere ciò che siamo4, senza mirare troppo in alto».
Nell'alto dei cieli, dove la pioggia accarezza e non trafigge, separando pelle e sangue. Annabeth sorride, gli occhi socchiusi, tende le mani per abbracciare il nulla.
«Non ho a cosa mirare, Rachel» dice, senza aprire gli occhi. La colpiscono i rumori dei passi nelle pozzanghere, e l'impossibilità che Luke sia tornato prima, per lei.

(A cosa le servirebbe morire, se poi finirebbe sempre per accamparsi all'inferno per festeggiare le prossime calende greche?)

 

***

 

Quando è tornato, non sembrava nemmeno lui – invecchiato e smagrito in due settimane di assenza, in due martedì saltati che probabilmente aveva passato a patteggiare col padrone più grande di tutti – spento nei vestiti un po' larghi, laceri e cadenti sul suo corpo esausto. Le è crollato addosso, sul letto ancora sfatto, senza parlare.
Lei l'ha guardato solo per un attimo, prima di correre a recuperare panni e disinfettante. Luke non se n'è accorto, ma una lacrima le è sfuggita dagli occhi.

(E adesso lo guarda e non parla, per non dovergli porre quell'interrogativo che la tormenta. Per non dovergli chiedere di sottrarla agli aghi d'acqua e lacrime).

Adesso lo guarda dormire – e non sa se dorme davvero o finge soltanto – le lenzuola scostate per non fargli pesare la fitta lieve della stoffa sulla ferita. È stata lei a ricucirla, cercando di unire quei lembi di pelle che si allungavano per toccarsi, senza mai farlo realmente. L'ha raccolto e gli ha tolto di dosso la polvere, senza chiedere nulla, senza domandare di chi fossero quegli artigli conficcati nella carne – come l'acqua che scorreva sulle ferite e si fermava sempre.
«Mi dispiace» le sussurra, scandendo a fatica le parole. Ha il labbro inferiore spaccato, sanguinante. «Mi dispiace, Annabeth, mi dispiace».
Lei lo zittisce con un'occhiata tempestosa, mentre riprende in mano il panno umido da passargli sulla schiena. «Cos'è successo?» domanda, impassibile.
Luke tossisce, si divincola, cerca di scampare quella risposta che teme tanto. E poi si arrende, come ogni volta. «Una ribellione» mormora, esausto. «Che non doveva esserci, l'ho scoperta che stava già prendendo forma. Troppo tardi, Lui è venuto a saperlo». Trema sotto il panno, per quanto stringa i denti per impedirlo.
«Cosa devi fare, adesso?» domanda Annabeth, posando il panno in una bacinella. «Suppongo che non sia finita lì». Lo guarda, in attesa di una risposta.
«Dobbiamo partire» sussurra Luke, piano. «Crono mi ha mandato a indagare sulle ribellioni al nord. Dicono che l'esercito degli Olimpi si stia riformando» scuote la testa, come se non ne potesse più. «Ha mandato i migliori lì. Devo andarci, non posso rifiutarmi» le stringe la mano, dolcemente. «Vorrei che tu venissi con me».
Lei gli sorride e, per un attimo, lui crede di vedere la pioggia in quegli occhi. Ma è solo un'illusione, perché Annabeth piange solo quando c'è di mezzo Percy Jackson.
«Ho forse altra scelta?» gli domanda, ironica. «Potresti mai lasciarmi andare?».
«Non lo farò mai» è la risposta calma, laconica di Luke. «Te l'ho promesso, non ti lascerò mai, nemmeno da morto».

(Era proprio quello che temeva, che un giorno lui ripetesse la sua prima promessa: non l'avrebbe lasciata, proprio lei che non voleva nessuna compagnia).

«Nemmeno per un'altra donna?» chiede lei, scrollando le spalle. «Nemmeno per qualcosa?». O forse per qualcuno che non sarebbe mai esistito, dopo di lei.

(Nemmeno per Thalia, Luke, proprio tu che avevi promesso che non l'avresti mai lasciata?).

«Mai» risponde. E la sua affermazione suona definitiva.

 

 

***

 

Gettando abiti in grandi bauli, Luke si ritrova a far fronte alla prorompente esigenza di continuare a parlarle, forse pieno della speranza di riuscire a convincerla che lui è la scelta migliore – l'unica – da sempre. Per sempre.
«Potevi lasciarmi nelle polvere» sussurra lei, gettando a terra una gonna strappata e sporca di fango e piena delle spine delle rose. «Potevi salvare Thalia».
Lui nemmeno alza lo sguardo, un po' sorride e, per un secondo, sembra essere il Luke di parecchi anni prima. Scuote la testa, i capelli color sabbia gli ombreggiano gli occhi.
«Non avrei potuto» risponde, chinandosi per raccogliere quel vecchio sudario. «Io volevo te».

(O, forse, la verità è che non ha mai avuto il coraggio di dirglielo prima, quando ancora lei poteva pensare che Luke fosse in grado di provare sentimenti umani. Ma non l'ha mai fatto).

 

 

***

 

L'ultima volta, prima della partenza, sa di rimpianto: Luke le si preme contro, cieco e arrabbiato, facendosi strada in quella pelle troppo delicata. Rimpianto.
Sembra biasimarle qualcosa, un suggerimento che vola via perché lei non è ancora in grado di coglierlo, di leggerlo nella sua interezza. Non lo fa mai.

(Rimpianto).

Così si limita ad ascoltarlo sussurrare parole fintamente dolci e amorevoli, quasi stucchevoli, mentre le si avvicina con l'approccio un po' finto e ingenuo che assume ogni volta che sa di farle male. Si spande a ondate l'odore di cocco sintetico e gelsomino, l'odore della stanchezza che lei gli ha lavato via di dosso per l'ennesima volta. Rimpianto.

(Oggi è martedì, ma lei non se lo ricorda).

 

 

***

 

I capelli di Rachel Dare sono una macchia vermiglia nell'uniformità del cielo: si muovono oscillando, seguendo il ritmo della nave, mossi da una brezza quasi invisibile.
Luke la guarda, da lontano, mentre sussurra qualcosa ad Annabeth, facendola ridere. Un po' lo vede, l'eco della stessa perdita che hanno subito.

(Amico, amante: un passo breve che magari non avevano il coraggio di compiere. Poi è arrivato lui e le ha tirate entrambe nel Tartaro).

Annabeth si volta, per un attimo, un cappello di paglia calcato sui capelli color miele. Le sorride e lei urla qualcosa che lui non sente.

(Una maledizione o un augurio?).

Luke crolla sul ponte, mentre lei corre via.

 

 

***

 

Annabeth china la testa, portando con sé l'odore di mare che si respira sulla nave: controluce, sembra che i suoi occhi abbiano assunto una dolorosa tonalità verdemare.
«Quanto è grave, questa ribellione?» domanda, sottovoce, al mare. «Chi può essere così pazzo da comandarla?».
Domanda al mare, ma è Rachel a rispondere, in un sorriso triste e un po' consapevole.
«Troppo» mormora. «Annabeth, Percy sta raccogliendo i ribelli». La guarda, gli occhi pieni di lacrime. «Percy non è morto, è ancora vivo. Ti sta cercando».





1 Greengrass, ovviamente, è un chiaro e palese riferimento alla prima saga fantasy che ho amato, "Harry Potter" e quindi un chiarissimo omaggio a uno dei personaggi che mi ha spinta a scrivere (troppe) fanfiction. Asteria Greengrass meritava questo omaggio.
2 "Oggi è martedì e non ha niente a che vedere con Foreman o House. E' solo il giorno in cui ti ricordo che ti amo e voglio stare con te. Martedì mi sembrava un buon giorno per farlo" - Chase, Dr House M.D. Ovviamente il mio personaggio preferito mi ha ispirato questo passo, lol.
3 "We aren't friend, we are strangers with memories". Fonte: tumblr.
4 "Dobbiamo rassegnarci a essere ciò che siamo" - Margaret George, Il re e il suo giullare.
   
 
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