Anime & Manga > D.Gray Man
Ricorda la storia  |      
Autore: Fauna96    25/10/2013    2 recensioni
Tyki Mikk era nato un piovoso pomeriggio di settembre. In effetti, pareva che qualcuno lassù avesse aperto le cataratte del cielo: il villaggio era ridotto a un’unica, gigantesca pozzanghera, e i pochi che avevano messo il naso fuori casa si erano ritrovati grondanti e inzaccherati di fango da capo a piedi in pochi minuti.
***
Un paio di scarpine nere e lucide si fermarono davanti alle sue impolverate; alzò lo sguardo per incontrare gli occhi curiosi e maliziosi di una ragazzina. Poteva avere dieci, undici anni, e sorrideva con le piccole labbra rosee; indossava uno sfarzoso vestitino ricco di pizzi e fiocchi e si dondolava sui tacchetti bassi.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, Road Kamelot, Tyki Mikk
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Poker d’assi

I ASSO DI PICCHE
Lo scapaccione si abbatté su di lui, improvviso ma non inaspettato. La guancia si mise a pulsare in modo insopportabile e subito dopo avvertì il sapore metallico del sangue in bocca.
- Delinquente! –
Il secondo scapaccione fu così forte che le gambe esili del bambino cedettero, e Tyki cadde a terra.
- Sei una disgrazia! – la mano di suo padre gli afferrò brutalmente il braccio, torcendoglielo, e lo rimise in piedi.
Una disgrazia. Tyki sapeva di esserlo. Era dalla sua nascita che non faceva altro che seminare sciagure.
 
Tyki Mikk era nato un piovoso pomeriggio di settembre. In effetti, pareva che qualcuno lassù avesse aperto le cataratte del cielo: il villaggio era ridotto a un’unica, gigantesca pozzanghera, e i pochi che avevano messo il naso fuori casa si erano ritrovati grondanti e inzaccherati di fango da capo a piedi in pochi minuti.
Adélaide, la mammana, non era più tanto giovane e non avrebbe desiderato altro che starsene in casa propria, al caldo del camino; invece, quel piccino aveva proprio deciso di venire al mondo quel giorno. Sarà un bel tipetto, pensò Adélaide, uno di quelli che attirano guai come niente. Già la gravidanza era stata abbastanza difficile e faticosa per la povera Susana.
Per venire alla luce, il bimbo ci mise del bello e del buono: pareva quasi si divertisse a far agitare tutti quanti. Quando finalmente si degnò di mostrare la testolina scura e bagnata, Adélaide lo prese tra le braccia, aspettando con ansia i vagiti; anche la madre, seppur sfinita, allungò il collo preoccupata. Il neonato esitò ancora un poco, poi finalmente si mise a strillare con una bella vocetta squillante. Adélaide tirò un sospiro di sollievo e passò il piccolo a una delle donne che la assistevano. Uno fuori pericolo.
Susana, invece, era bianca come un cencio; l’emorragia non accennava a fermarsi, nemmeno dopo l’uscita della placenta.
Adélaide aveva visto abbastanza per sapere che la giovane difficilmente ce l’avrebbe fatta: quando una donna sanguina così, non c’è più nulla da fare. Pareva saperlo anche Susana stessa: nei suoi occhi scuri c’era una luce di paura. Mentre le donne ronzavano agitate intorno al suo letto, lei si allungò e pose una manina sul braccio robusto di Adélaide. – Dite a Jorge... di chamarlo Tyki -.
Lanciò un’occhiata amorevole al piccolo, che si era finalmente azzittito.
Adélaide la carezzò sulla testa e le assicurò che gliel’avrebbe detto senz’altro. Susana sorrise debolmente e chiuse gli occhi. Non li riaprì più.
 
Tutti i compiti ingrati toccavano a lei, la levatrice. Anche riferire la morte e l’ultimo desiderio della moglie a Jorge. Il pover’uomo pareva non crederci, non capire più nulla. Adélaide gli posò una mano sulla spalla. – Il piccolo però sta bene. Sano come un pesce -. Fece un cenno a Dina, sua nipote, che cullava Tyki, e la ragazza si affrettò a porgerlo al padre. Adélaide credeva che vedere il figlio in buona salute avrebbe consolato in minima parte l’uomo. Invece, Jorge non volle nemmeno toccarlo; si limitò a lanciare al neonato uno sguardo colmo di dolore e rabbia.
***
Tyki per la sua età era alto, nonostante saltasse la cena due sere su tre. Un po’ perché il cibo scarseggiava, un po’ preferiva non tornare a casa a volte. Si adattava a rubacchiare qualcosa e a dormire in vicoli o in fienili. Tutto era meglio delle botte che suo padre, sobrio o ubriaco che fosse, gli somministrava.
A undici anni circa, Tyki era un ragazzino piuttosto silenzioso; come i suoi compagni, non sapeva né leggere né scrivere, ma sapeva osservare; e quando apriva bocca, la sua lingua affilata tagliava a fettine bambini e adulti.
Tutti dicevano che era tale e quale a sua madre, ma lui, sua madre, non la ricordava. Era svelto e sapeva cavarsela meglio di tanti ragazzi più grandi di lui.
Gli piaceva gironzolare dalle parti della cava in cui suo padre lavorava; be’, quasi tutti gli uomini lavoravano lì. Ogni tanto, quando capitavano incidenti, veniva chiamato il dottore; e allora, Tyki si sporgeva per vedere meglio, perché il sangue, le ferite che venivano ricucite lo affascinavano enormemente. Non sapeva perché lo attirasse tanto ... sta di fatto che anche quando si feriva giocando, si fermava a osservare il rosso che gli ricopriva la pelle. Era... strano. Bello. Pericoloso. Questo non vuol dire che Tyki fosse masochista o autolesionista: non gli faceva certo piacere venire picchiato da suo padre. Avesse saputo il motivo... E non riusciva nemmeno a ribellarsi, perché lui era un bambino e quell’uomo suo padre.
 
La pioggia gli aveva appiccicato tutti i ricci sulla fronte e rinfrescato i lividi e le ferite sulla pelle. A Tyki non dispiaceva bagnarsi. Osservò i propri piedi nudi e sporchi di fango.  Aveva solo un paio di scarpe, che usava una volta alla settimana per andare in chiesa. Magari per il suo compleanno avrebbe ricevuto un po’ di soldi da mettere da parte e, in futuro, comprarsene nuove. Molto in futuro.
- Ragazzo! Cosa fai lì? – Tyki si girò e vide una donna sulla porta della casa alle sue spalle. Adélaide, la levatrice. Tyki aveva sempre avuto un certo timore verso di lei, sia per la figura massiccia e il vocione, sia per il fatto che era nato grazie a lei. Be’, tutti erano nati grazie a lei.
Adélaide gli fece un cenno. – Vieni dentro! –
Tyki avanzò esitante. – Sono bagnato – replicò. - E sporco -.
Adélaide sbuffò. - Entra o ti prendi una polmonite -.
In men che non si dica, si ritrovò avvolto da una coperta abnorme e con una tazza di tisana bollente in mano. Rimase confuso da quella gentilezza: nemmeno a casa sua riceveva tante premure, anzi non ne riceveva affatto.
- Piove come il giorno che sei nato – sospirò la donna. – Mamma mia, se mi hai fatto penare! –
- Davvero? – chiese Tyki, incuriosito.
- Sì, non volevi proprio nascere. Eravamo tutti agitati -.
Tyki si morse il labbro. Lei era l’unica che poteva rispondere a quella domanda... Sbottò: - Perché mio padre mi odia? Non voleva un figlio?-
Adélaide ammutolì per un attimo di fronte alla durezza innaturale di quelle parole. Poi sorrise dolcemente. – Tuo padre non ti odia. Più che altro, forse, gli ricordi tua madre. E si sente arrabbiato con te, anche se non hai colpa -.
- Ce l’ha con me perché mamma è morta quando sono nato? – comprese Tyki, pallido in volto. Allora... se si guardavano le cose in quella maniera, se le meritava tutte quelle botte...
Improvvisamente si ritrovò stretto al’ampio seno di Adélaide. – Ascoltami, Tyki – disse seria.- Tu non hai colpa. E’ andata così, succede a tante donne di non sopravvivere al parto. Ma la cosa più importante è che tu sia vivo. Tu non sei l’assassino o il fantasma di tua madre. Tu sei tu, sei una persona con il diritto di vivere, come tutti su questa Terra -.
 
Il braccio gli doleva. Era una disgrazia, sì... ma era anche una persona. Con un grido, Tyki strattonò via il braccio dalla presa ferrea.
Nella stanza cadde il silenzio. Gli occhi scuri di Tyki, uguali a quelli della madre, sembravano ardere; lui stesso pareva più grande, superiore a quell’umano che non lo sovrastava più, ma lo fissava sconvolto...
Non disse nulla, Tyki. Semplicemente si voltò, uscì di casa e non tornò mai più.
 
II ASSO DI DENARI
Avere sedici anni ed entrare in un pub soli non è sempre una buona idea. Tyki si sentì immediatamente osservato con minuzia, come per giudicare se valesse la pensa derubarlo. Ma lui, dopotutto, non era un novellino; sfoderò la sua migliore faccia di bronzo e ordinò una birra.
Non amava molto quelle bettole, anche se per uno come lui, che viveva per strada da quand’era un moccioso, il calore di una stanza fumosa era ciò che assomigliava di più a una casa. E comunque, non era così facile derubarlo.
Bevve un po’ di birra, osservando gli altri avventori con una smorfia. Era lì per una ragione ben precisa, non per ubriacarsi. Due ragazze lo guardavano ridacchiando da un angolo, sbattendo le ciglia con aria allusiva. Tyki abbassò in fretta gli occhi sul bicchiere. Stava crescendo, era ormai diventato un bel ragazzo, ma era ancora – suo malgrado – piuttosto goffo con le donne.
- Scusate – fece, rivolto al barista, che lo fissò con aria scocciata. – Dove posso trovare Juan? –
- Cosa vuoi da lui? – fu la brusca replica.
- Affari miei – rispose Tyki, altrettanto scortese.
L’uomo gli indicò il tavolo più lontano dalla porta. Tyki buttò un paio di monete sul bancone e si avvicinò al vecchio seduto lì, intento a fare un solitario. Alzò gli occhi, inaspettatamente luminosi e attenti, senza smettere di giocare, e osservò quel giovane alto e serio.
- Cosa posso fare per te? – si informò con voce roca.
- Voglio imparare a giocare a poker. O meglio, a barare. –
Era la prima volta che una persona gli chiedeva una cosa del genere, con tanta ingenuità sfacciata, poi.
- E perché lo chiedi a me? –
Sul bel volto del ragazzo apparve un sorrisetto. – Perché siete l’imbroglione più abile di cui abbia sentito parlare. E perché sono un ragazzo senza soldi che finora si è spaccato la schiena per mangiare -.
Juan non parlò. Vide l’ombra di barba appena accennata, le mani già ruvide e screpolate, la piega decisa delle labbra.
Raccolse le carte sparse sul tavolo e si mise a mescolarle con dita grosse eppure abili. – Spero saprai almeno le basi... –
 
Tyki imparò in fretta, perché gli piaceva. Imparò a nascondere carte dappertutto, a fingere tic involontari e a rimanere sempre e comunque superiore e impassibile.
- Tu sei un ragazzo – diceva Juan – quindi ti sarà più facile imbrogliare, con quella faccina che ti ritrovi. Ma ricorda che c’è sempre qualcuno con più esperienza di te pronto a farti rimanere in mutande. Non farti mai prendere dalla superbia. E ti consiglio anche di tenere ben allenate le gambe -.
Lì per lì, Tyki non capì; fu quando iniziò a mettere in pratica gli insegnamenti di Juan e a spennare omoni irascibili che comprese quanto fosse importante non farsi prendere dall’ebbrezza della vincita e togliere immediatamente il disturbo.
Quando aveva iniziato a vincere, aveva offerto una percentuale a Juan: gli sembrava giusto, ma il vecchio l’aveva guardato come se gli fossero cresciute due teste. – Se proprio vuoi, offrimi da bere – aveva replicato. – Ma va’ a divertirti, chiedi a qualche ragazza di uscire... non perdere tempo con un vecchio! –
Presto circolarono storie sul ragazzo dal viso d’angelo che imbrogliava tutti a poker col sorriso sulle labbra, l’erede spirituale del vecchio Juan.
Quanto a Tyki, per la prima volta in vita sua, si stava davvero divertendo. Di giorno lavorava sodo ma senza ammazzarsi di fatica come prima, la sera giocava a poker, sia con Juan per allenarsi, sia per guadagnare qualcosa. Seduto al tavolo con i capelli sugli occhi e la sigaretta in bocca (finalmente poteva permettersene di decenti!) pareva incredibilmente giovane e adulto allo stesso tempo.
Ma la pacchia non poteva durare per sempre. Una sera, mentre tornava alla locanda piuttosto soddisfatto di sé, gli tesero un agguato. Tyki si accorse solo della mano che improvvisamente gli tappò la bocca e pensò automaticamente a comuni borsaioli. Ma quando lo gettarono per terra e iniziarono a tempestarlo di calci, capì che dei soldi importava loro solo in parte: volevano umiliarlo, proprio come lui aveva fatto con loro. Troppo tardi comprese di essersi trattenuto troppo a lungo, di aver pestato i piedi sbagliati.
Erano tanti, più forti, e Tyki non riuscì a far altro che incassare e soffrire com’erano anni che non gli capitava, da quand’era un bambino...
Fu come una scossa.
Tyki, tu sei forte?
Sì...
Sei più forte di loro?
Sì!
Sei superiore a loro?
SI!
Non sentì più dolore, solo bruciante umiliazione. Si dimenò come una belva, riuscì a rialzarsi e spingere via gli aggressori. Qualcosa di caldo gli colava sul viso. Si asciugò il sangue con la mano e sentì quell’oscuro fascino aggredirgli il cuore. Un ghigno gli distorse i lineamenti.
Gli uomini non si accorsero del cambiamento; estrassero i coltelli e si strinsero di più a lui.
Erano in cinque; Tyki ne uccise tre e ridusse gli altri male. Per la prima volta provò l’ebbrezza del sangue, il piacere di sentirlo caldo sulle mani, il piacere di togliere la vita.
 
E poi si risvegliò, con le mani rosse stringendo un coltello e con tre corpi immobili ai suoi piedi. Li ho... uccisi io? Con queste mani?
Oh sì, era stato lui...e aveva provato piacere nel farlo. Un oscuro e malsano piacere... Ebbe paura. Paura di se stesso, di quelle mani che non poteva e non voleva riconoscere più come sue...
Corse via, lontano da quel luogo pieno di morte, fino all’unico posto che poteva considerare quasi come una casa. Entrò nel pub con gli occhi fuori dalle orbite, come se avesse visto un fantasma, e si precipitò da Juan. Gli raccontò tutto e fu solo alla fine che si rese conto delle lacrime che gli rigavano le guance.
Il vecchio non parlò per un poco come stesse riflettendo; poi gli posò la mano sulla spalla e gli disse con dolcezza che doveva andarsene dalla città. Tyki sgranò gli occhi. – Ma... io... sono un assassino. Dovrei andare in prigione... pagare... – balbettò.
Juan scosse il capo. – Ragazzo, non sai cosa ti fanno in quelle prigioni. Ne esci fuori che non sei più tu. Ti succhiano via la giovinezza, la vita, tutto. Non mi farebbe piacere vederti ridotto così. Ti sei difeso, ragazzo, e nessuno può biasimarti per questo. Ma sei un ragazzo e nessuno ti darà ascolto. – Gli diede una pacca e fece un pallido sorriso. – Te ne saresti comunque dovuto andare presto: hai già spennato tutti, qui. –
Tyki annuì, facendosi forza. – Grazie – sussurrò – per tutto quello che mi avete insegnato. Non lo dimenticherò – E grazie per avermi fatto da padre, almeno un poco.
Le dita callose di Juan presero le sue e gli diedero qualcosa. – Regalo di buon viaggio e di buona fortuna, ragazzo -.
 
Chi si fosse aggirato per la stazione, quella notte, avrebbe notato un ragazzo con i ricci neri e una sigaretta in bocca, serio in volto, che giocherellava con un mazzo di carte malconce.
 
III ASSO DI FIORI
Appoggiato con indolenza al muro, Tyki osservava la gente passare veloce, cercando di ripararsi dalla pioggia. Dal canto suo, stava benissimo semicoperto da un balconcino e in ogni caso, la pioggia gli piaceva. Teneva una sigaretta spenta tra le labbra e ne masticava il filtro; doveva risparmiare, non aveva quasi più tabacco.
Affondò le mani nelle tasche, sfiorando con le dita i bordi arrotondati delle carte, le sue fedeli compagne di viaggio insieme alle sigarette. Si chiese che fine avesse fatto il vecchio Juan; da quando aveva passato i confini del Portogallo per vedere il resto del mondo, non aveva più avuto sue notizie. Tornando ancora più indietro, ricordò il suo vecchio villaggio, suo padre, Adélaide, i suoi compagni di giochi... non riusciva a ricordarsi nemmeno uno dei loro nomi... Le giornate di pioggia mettono sempre un po’ di malinconia addosso.
In quel momento, si trovava in Germania; stava imparando il tedesco, sebbene il suo accento facesse ridere tutti e si divertiva a unirsi a quei poderosi canti di osteria. Lì erano per gran parte chiari di pelle e capelli, e subito la sua carnagione abbronzata e i ricci scuri avevano attirato l’attenzione. Ma nonostante fosse straniero, Tyki sapeva farsi benvolere un po’ da tutti, se voleva.
In effetti, quel posto gli piaceva tanto che stava meditando seriamente di trasferirsi lì per qualche tempo; solitamente, lui si fermava in un luogo giusto i giorni necessari a spennare tutti i polli e poi ripartiva con le tasche piene, alla ricerca di nuove avventure. Se si fosse davvero fermato, però, avrebbe dovuto cercarsi un lavoro quantomeno semi – rispettabile, decente, ecco, giusto per non avere problemi.
Osservò pensieroso un gruppo di bambini sguazzare nelle pozzanghere di fronte a lui; quando anche l’ultimo lo superò, lui lo richiamò indietro con il suo buffo tedesco.
Il bambino si avvicinò esitando, scrutandolo con grandi occhi grigi che brillavano nel visino lucido di pioggia. – Sì, Herr? –
- Di’ un po’, conosci qualcuno che cerca un bracciante, un aiutante, un garzone...? –
Il bambino esitò. – No... però se cercate lavoro, andate alla cava! Per di là – indicò col ditino oltre le mura della città.
Ragazzino sveglio. – Tieni – Tyki gli lanciò una moneta e il bambino rise afferrandola, mettendo in mostra i denti mancanti. – Grazie, Herr! Buona fortuna! –
 
E così la ruota gira, pensò Tyki con amara ironia, trovandosi a picconare; mio padre lavorava in una cava ed eccomi qua, come lui.
Ma lui, Tyki, non avrebbe seguito le sue orme: sempre che si decidesse a sposarsi e a metter su famiglia, non avrebbe mai e poi mai toccato suo figlio nemmeno con un dito. Non sarebbe mai tornato a casa ubriaco tanto da non reggersi in piedi. No.
Ma erano solo pensieri oziosi, perché Tyki aveva vent’anni e nessuna intenzione di sistemarsi, per il momento. Anche se ogni tanto si sorprendeva a pensare che non doveva essere così male avere una casa, una bella donna che lo aspettava la sera e un marmocchio tra i piedi.
Al suono della campana che annunciava il pranzo, raddrizzò la schiena sudata, accorgendosi solo in quel momento quanto gli brontolasse lo stomaco. E si accorse anche che era decisamente uno dei più giovani tra gli operai: quasi tutti erano uomini fatti, maturi, con alle spalle anni di lavoro. Lui... be’, era un uomo, questo sì, perché a vent’anni ormai si è uomini, ma in confronto a loro era un novellino, uno sbarbatello.
Divorando la zuppa che veniva offerta dal padrone, seduto instabile su un masso, si guardò in giro. Accanto a lui, due uomini parlavano e ridevano; uno di loro lo notò e gli fece un cenno amichevole. Tyki esitò, poi si avvicinò a loro.
- Sei nuovo? –
- Sì... ho iniziato oggi. Mi chiamo Tyki, Tyki Mikk -.
I due gli strinsero la mano, presentandosi come Frank e Momo. Dovevano avere una decina d’anni in più di lui ed erano mesi ormai che lavoravano lì. Erano tedeschi, ma non avevano una dimora fissa: si fermavano dove trovavano lavoro, un po’ come lui.
- Da dove vieni? – gli chiese Momo, quando ripresero il lavoro.
- Sono nato in Portogallo ma ormai sono... tre anni che non ci torno. Anch’io ho sempre viaggiato, fin da quando ero un bambino -.
Sebbene per Tyki fosse facile attaccar bottone, era sempre stato per natura un tipo un po’ solitario, di quelli che bevevano in compagnia un paio di birre, ma che poi ritornano a casa prima di tutti gli altri per poter restare da soli. Inoltre, per i suoi continui viaggi, non era mai riuscito (e non aveva voluto) stringere amicizie. Per cui, neanche a distanza di anni, seppe mai dire che cosa lo avesse spinto ad accettare ospitalità da Frank e Momo, quella sera; loro avevano una stanzetta in affitto e lui avrebbe potuto benissimo andarsene in una locanda come aveva sempre fatto; e invece si ritrovò seduto al loro stesso tavolo, a ridere come non gli capitava da anni.
Al contrario, sapeva che cosa avesse spinto i due ad invitarlo: probabilmente si erano rivisti in lui, non più ragazzo ma neanche ancora uomo, spensierato ma non troppo, già abbastanza esperto del mondo.
Fu facile fare amicizia con loro, semplice e confortante, e per la prima volta in vita sua, Tyki sentì di aver trovato una casa.
 
Era sera di festa in paese, la birra scorreva a fiumi, i bambini gridavano allegri correndo dappertutto e Tyki si sentiva piacevolmente brillo. Insieme a Frank e Momo mangiava, beveva e lanciava qualche apprezzamento alle ragazze che passavano.
- Perché non vai a ballare, Tyki? – sghignazzò Frank dandogli una pacca sulla schiena.
- Non dire cavolate! So ballare quanto un sacco di patate! –
Alla fine, nonostante le sue doti inesistenti, si ritrovò sulla pista da ballo a saltellare come tutti gli altri, in compagnia di ridenti ragazze bionde.
Non era poi così malaccio, si disse, accettando l’ennesimo boccale di birra... anche se...
Si girò di scatto e afferrò al volo il bambino che stava cercando di frugargli nelle tasche. Il piccolo strillò e si dimenò, terrorizzato, ma Tyki lo teneva ben stretto. Aveva sì bevuto, ma non così tanto da non accorgersi che lo stavano derubando! Così goffamente, poi!
Con stupore, riconobbe lo stesso bambino a cui aveva chiesto informazioni per trovare lavoro, ormai più di un mese prima.
- Ehi, Tyki ha pescato qualcosa! – intervenne Momo, che traballava un po’.
- Un ladruncolo – ripose Tyki, dando un (lieve) scrollone al bambino, che tremava come una foglia.
- E si sa che cosa facciamo ai giovani ladri! – fece Frank assumendo un’aria minacciosa, sebbene si vedesse che gli scappava da ridere.
Tyki si divertì a tenere un po’ sulle spine il ragazzino poi afferrò una bella salsiccia arrostita. – Gli offriamo la cena! –
 
Il bambino si chiamava Ease, aveva sei o sette anni e viveva per strada come molti altri ragazzini. Era stato mandato a rubare in quanto più piccolo dai “capi” della sua banda, ragazzotti con un piede già in traffici piuttosto loschi. Ease era abbastanza imbranato, forse anche perché non gli piaceva rubare; ma se non obbediva, lo lasciavano a digiuno, in quanto doveva guadagnarsi il pane.
Non dovettero neanche parlarne: Ease restò con loro. Sarebbe stato anche impossibile fare altro, dato che il bambino si era immediatamente affezionato a loro e in particolare aveva preso a seguire Tyki come un’ombra.
Se lo portarono dietro anche alla cava, perché, nonostante fosse gracile, potesse dare una mano. Sebbene con qualche brontolio, il capo accettò anche quel piccolo lavoratore, che passava a distribuire il pranzo con quel bel sorriso che faceva sembrare deliziosa la sbobba più disgustosa del mondo.
E così Tyki, senza quasi accorgersene, aveva trovato in quattro e quattr’otto ciò che non aveva mai avuto: una famiglia. Una famiglia traballante, impolverata di miniera e che si manteneva barando a poker – Frank e Momo erano dei giocatori niente male e loro tre insieme stavano guadagnando dei bei gruzzoli – ma pur sempre una famiglia.
 
L’incidente avvenne esattamente all’ora di pranzo, proprio quando Ease stava passando col mestolo pieno. Tyki non riuscì a ricordare nulla in seguito: solo rumori, una sorta di esplosione, poi qualcosa che gli crollava in testa e dolore bruciante in viso.
Si risvegliò in un letto bianco, il capo e gli occhi fasciati e un estremo malessere.
Molto semplicemente, la galleria era crollata direttamente sui minatori, come troppo spesso accadeva. Tyki si era ferito agli occhi e non poteva assolutamente esporli alla luce; Frank e Momo erano ridotti abbastanza male ed Ease si era rimediato un brutto taglio che gli sfregiava la bocca. Tuttavia, erano stati fortunati: in tutto erano morti dodici loro compagni per non parlare dei feriti più gravi di loro.
Decisero di andarsene dal villaggio: era chiaro che la miniera avrebbe chiuso e comunque Tyki non avrebbe mai più permesso a Ease di metter piede lì dentro. Si sarebbero trovati un altro posto, un altro lavoro, un’altra casa.
Dopo lunghi, estenuanti giorni di convalescenza, uscirono dall’ospedale un po’ zoppicanti – finalmente si poteva fumare! – Ease con una mascherina a coprirgli la bocca sfregiata e Tyki con un buffo paio di occhiali protettivi sul naso (- Non se li deve togliere assolutamente, almeno per le prime settimane! Ha capito? - - Sì, sì.... -).
 
IV ASSO DI CUORI
Il cuore batteva come impazzito, il sudore gli ricopriva la pelle gelida. E le mani... le mani terribilmente rosse del sangue di un uomo.
Era successo di nuovo, quella terribile frenesia di sangue... come l’altra volta, aveva provato piacere nell’uccidere, nel sentire la linfa calda dell’uomo schizzargli il volto e i vestiti...
Si tolse gli occhiali, che aveva preso l’abitudine di portare sempre, e nascose il viso tra le mani. Non doveva succedere più. E soprattutto non doveva far del male a Frank o Momo... o Ease... lo stomaco si attorcigliò al solo pensiero dei suoi amici morti, massacrati da lui. Per questo avrebbe preso un treno e se ne sarebbe andato lontano da loro...
Ma cos’aveva che non andava? Era pazzo, forse? Soffriva di qualche strana malattia? Stavolta era stato sì provocato, ma non così tanto da reagire in quel modo... Rabbrividì, seduto su quella scomoda panchina della stazione.
Forse avrebbe dovuto farsi visitare da un dottore, per capire cosa avesse... Si passò una mano tra i capelli e al contatto sentì la fronte bruciargli. Ma cosa...? Si osservò le dita sporche di sangue, il suo sangue stavolta. Si era ferito? E quando? Provò a sfiorarsi di nuovo quelli che parevano tagli, tentando di ignorare il dolore. Ma... erano una serie di ferite, che andavano da una tempia all’altra! Gocce di sangue presero a colargli lungo il volto, come lacrime cremisi.
Tyki iniziò a sentire una spiacevole sensazione di panico farsi largo dentro di sé. Imponendosi di restare calmo, per quanto possibile, afferrò un fazzoletto e se lo legò intorno alla testa. Ok, Tyki. Prendi un bel respiro e tieni la mente lucida.
Un paio di scarpine nere e lucide si fermarono davanti alle sue impolverate; alzò lo sguardo per incontrare gli occhi curiosi e maliziosi di una ragazzina. Poteva avere dieci, undici anni, e sorrideva con le piccole labbra rosee; indossava uno sfarzoso vestitino ricco di pizzi e fiocchi e si dondolava sui tacchetti bassi.
Così come prima impressione, Tyki avrebbe detto che fosse una piccola nobile; eppure, c’era qualcosa di strano in lei...
- Ti sei persa? –le chiese gentilmente.
Lei scosse il capo, sempre con quel sorriso malizioso. – No. E tu? –
Tyki sospirò. – In un certo senso... –
- Quando ci si perde, bisognerebbe cercare di tornare a casa. – La bambina estrasse una caramella e la scartò velocemente, per poi mettersela in bocca; un profumo di fragola si sparse nell’aria.
- E se non hai più una casa? – fece Tyki, rivolto più a se stesso che alla sua interlocutrice.
Con suo stupore, la ragazzina sedette accanto a lui, dondolando le gambe coperte da buffe calze viola.
- Vuoi una caramella? – gli mise sotto al naso un dolciume avvolto in carta colorata.
Tyki quasi ridacchiò: di solito erano i bambini a non dover accettare caramelle dagli sconosciuti, non il contrario.
- Guarda che io di solito non le do a nessuno. E’ solo che mi stai simpatico – lo informò lei.
Il giovane stavolta rise apertamente e accettò la caramella, che sapeva di latte e menta.
- Se non hai una casa, perché non vieni da me? – propose sorridendo con dolcezza.
Tyki la squadrò, tentando di capire se scherzasse. – Che direbbe la tua famiglia nel vederti arrivare con uno sconosciuto? E dov’è adesso, sei qui da sola? –
- La mia famiglia sa che sono qui e gli farebbe solo piacere avere un altro parente! E poi – cinguettò – tu non sei uno sconosciuto, Tyki! –
Un brivido gelido gli corse lungo la schiena. – Come... come fai a sapere il mio nome? – balbettò, voltando la testa per guardarla in viso. Ma non vide più una bambina, bensì una creatura antica e potente, che lo osservava con occhi d’oro. E una parte di lui rimpicciolì, perché la temeva; ma l’altra, più forte, la comprese e l’accettò come sua pari.
- So tante cose – sussurrò la bambina che bambina non era. – Ma soprattutto so chi sei tu, Joyd –
Joyd... Joyd...
Lei fu di nuovo davanti a Tyki e gli sciolse la benda dalla fronte. Il sangue gli colò sugli occhi, mentre la pelle bruciava, insopportabile. Gli tese la mano, non più rosea ma color cenere.
- Andiamo, Tyki. Andiamo a casa –
Tyki... o Joyd... o tutti e due... Ma che importava? Afferrò le dita paffute con le sue, anch’esse grigie.
- Yume – bisbigliò.
Lei si voltò sorridendo, le croci in fronte come una corona. – Sì. Ma puoi chiamarmi Road -.
***
- Sei un grandissimo idiota! – ululò Frank. – Avvisarci no?! –
- Scusate – borbottò Tyki, accarezzando la testa di Ease che gli era corso incontro. – Non... ecco, non pensavo vi preoccupaste tanto -.
- Ma va’ a quel paese! – sbottò Momo, infuriato quanto l’amico.
Tyki sorrise, accettando un piatto di zuppa calda. – In verità, ho incontrato uno strano tipo, che mi ha offerto una sorta di lavoro part – time... –
***
Braccia minute gli stringono la vita.                               Una manina gli afferra l’orlo della
Profumo di caramelle alla fragola,                                 camicia. Profumo di sapone economico,    
quelle morbide che Road mangiucchia                           quello con cui strigliano Ease la sera.     
sempre. – Ci vediamo presto, vero Tyki? -                     - Torna presto, Tyki, ok? -   
  

 
Yo a tutti ;) Questa storia doveva essere scritta per il compleanno di Tyki (20 settembre) ma a io arrivo sempre in ritardo u.u E’ la mia primissima storia su D. Gray – Man e spero con tutto il cuore di aver reso bene Tyki – pon, dato che ha una personalità assai complessa. Ok,un paio di spiegazioni e mi levo dai piedi. Il significato degli assi dei vari semi:
Asso di picche significa disgrazia, ostacolo o malattia;
Asso di denari una grossa entrata di denaro;
Asso di fiori un’offerta di lavoro vantaggiosa;
Asso di cuori matrimonio ma anche riunione felice tra amici e/o parenti.
Che altro... probabilmente devo aver letto da qualche parte che Ease è tedesco, perciò ho esteso la nazionalità pure a Frank e Momo... E per quanto riguarda la partecipazione di Road, so che ha più senso che sia il Conte ad accogliere in famiglia un nuovo membro, ma adoro il modo in cui lei strapazza Tyki e sono sicurissima che in realtà si vogliono tanto bene, perciò ho deciso così U.u Lasciate un commento se vi va... see ya xD 
  
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > D.Gray Man / Vai alla pagina dell'autore: Fauna96