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Autore: AlexisLestrange    25/10/2013    2 recensioni
Le prime volte Sherlock gli diceva di stare perfettamente bene, e che sarebbe stata ora per lui di uscire. Ma quelli erano ancora i tempi in cui, andandolo a visitare, lo trovava seduto compostamente al tavolo a leggere i libri che gli venivano portati, o a sorseggiare i resti dell'ultimo tè. Più avanti, erano arrivati gli insulti. Ma si erano fatti più deboli. Le risposte, semplici monosillabi. Poi, neanche quelle. Sherlock Holmes, l'uomo dall'ultima parola, taceva, lo sguardo vacuo fisso oltre la parete.
[AU, Post-Reichenbach. La separazione porta Sherlock e John alla pazzia.]
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Sarah Sawyer, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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I.


Mycroft si passò la mano sul mento, lasciando che un solo, lento, sospiro fuoriuscisse dalle sue
labbra, perfettamente controllato. Osservò la porta bianca davanti a lui. La maniglia metallica era a
pochi centimetri da lui -doveva solo spingerla ed entrare. Allungò le dita, le strinse intorno al pomo
freddo, e lo ruotò con un solo colpo. La serratura scattò, e la porta si aprì silenziosamente.

Camminò piano nel piccolo corridoio bianco che gli si proiettava davanti; una seconda porta.
Questa volta, attese un secondo di più. Mycroft non era persona da avere paura -ed infatti, il
sentimento che gli tormentava il petto era qualcosa di completamente diverso ed infinitamente più
complicato. Una persona dalla mente meno brillante della sua, tuttavia, lo avrebbe senza alcun
dubbio definito senso di colpa. Quasi infastidito dal pensiero, aprì anche la seconda soglia.

Lo scenario che si ritrovò davanti era sempre lo stesso. Una stanza completamente bianca, senza
alcuna distinzione tra pavimento, pareti, e soffitto, illuminato da luci al neon. Un solo tavolo di
metallo sulla destra, sul quale stavano appoggiato un vassoio con un pasto completamente intatto.
Un armadio, proprio di fronte. E sulla sinistra, una branda perfettamente rimboccata sulla quale
stava seduta una figura ossuta, le ginocchia strette contro al petto, il viso nascosto tra le braccia che
lasciava intravedere una massa disordinata di ricci neri.

Mycroft aprì la bocca per parlare, ma l'altro, senza muovere un muscolo, lo anticipò.

«Va' via».

Ignorò le sue parole, avvicinandoglisi. I suoi passi risuonavano lenti e cadenzati sul pavimento. Si
sedette sul bordo del letto, inclinando appena la testa per osservarlo meglio. Poi pronunciò la
domanda che ripeteva ogni singolo giorno, a quella stessa ora, in quella stessa stanza, da ormai più
di due anni.

«Come stai, Sherlock?»

Nei mesi, aveva collezionato risposte diverse. Le prime volte il fratello gli diceva di stare
perfettamente bene, e che sarebbe stata ora per lui di uscire, perché non c'era più bisogno di tenerlo
là dentro. Ma quelli erano ancora i tempi in cui, andandolo a visitare, lo trovava seduto
compostamente al tavolo a leggere i libri che gli venivano portati, o a sorseggiare i resti dell'ultimo
tè. Più avanti, erano arrivati gli insulti. Se me stava steso sul letto con aria insofferente e gli diceva
di sparire dalla sua vista. Lo aveva minacciato e calunniato in diversi modi, lanciandogli contro i
pochi oggetti nella stanza, con risposte sarcastiche e pungenti che doveva aver passato la giornata a
comporre.

I tentativi si erano fatti più deboli. Le risposte, semplici monosillabi. Poi, neanche quelle. Sherlock
Holmes, l'uomo dall'ultima parola, taceva, lo sguardo vacuo fisso oltre la parete. Mycroft non era
sicuro se preferiva le menzogne o gli insulti, ma questa terza opzione si era rivelata decisamente la
peggiore. Anche se il suo fratellino, sempre così abile nel sorprenderlo, gli aveva riservato la batosta
finale a soli due mesi prima, quando, davanti alle porte spalancate della stanza, si era rifiutato di
uscire. “Perché dovrei?” aveva chiesto, e si era rannicchiato sulla branda, le lenzuola tirate al
massimo che nascondevano il corpo spigoloso.

Il silenzio che seguì la sua domanda, dunque, fu tutt'altro che inaspettato. Mycroft attese
pazientemente per lunghi minuti, in caso il fratello avesse qualche nuovo sviluppo da proporgli, ma
dopo aver aspettato un tempo ragionevolmente lungo, aprì di nuovo la bocca per parlare.

«Dovresti uscire da qui, Sherlock».

Rimase di nuovo in silenzio, attendendo una reazione che non venne. Lo aveva previsto -era quello
che succedeva ogni volta, per cui, era tutto nella norma. Continuò, esattamente come aveva
pianificato.

«Vuoi una ragione? Posso elencartene».

Con un movimento lento, stanco, l'uomo sul letto alzò la testa. Mycroft lo osservò con distacco,
qualsiasi cosa stesse passando per la sua mente in quel momento. Suo fratello era sempre stato
magro, ma ora c'era decisamente qualcosa di malsano nelle guance bianche e scavate, e nelle
occhiaie profonde che solcavano le sue iridi azzurre, ora macchiate di rosso. Le labbra pallide si
aprirono per parlare, rivelando sottili tagli e screpolature.

«Non lo farò di nuovo».

La sua voce era rauca dal non parlare, ma sentirla diede comunque un certo sollievo a Mycroft.
Oggi doveva essere uno di quei giorni in cui era possibile avere un accenno di conversazione, anche
se la sensazione che quelle chiacchierate gli davano era quella di un taxi che andava ad infilarsi
ripetutamente in strade a fondo chiuso. Lasciò che il fratello continuasse a parlare.

«Non andrò di nuovo fuori a giocare per te, Mycroft. A fare il bravo burattino per farti sentire meno
in colpa».

Questa era decisamente una frase lunga e complessa, molto più del solito. Doveva averci lavorato
nelle ore precedenti. Mycroft si concentrò su quello, piuttosto che sul vero significato.

«Non ti ho mai chiesto di giocare, Sherlock».

Parlò lentamente. Sapeva che cosa intendeva dire il fratello, lo aveva sempre saputo, anche se lui
non avesse provato a comunicarglielo con quel comportamento testardo ed ostinato che lo stava
portando alla rovina. Esprimersi meglio, tuttavia, non poteva che giovargli. Se doveva farlo parlare,
l'unico modo era discutere. Contraddirlo era l'unica forma di comunicazione che il fratello aveva
finito per usare.

«Avevo i tuoi addosso fin dall'inizio. La prigione è solo una formalità».

«“Prigione” suona eccessivo, Sherlock. È solo una camera. Non sei rinchiuso -ed infatti, puoi uscire
quando vuoi».

«E per cosa?»

Vicolo chiuso. Retromarcia, imboccare una nuova via. Riprovare da un'altra strada. Era due anni
che Mycroft non faceva altro. Non era il tipo di persona che si stancava in fretta. Specie quando si
trattava di un lavoro che andava portato a termine.

«John».

La rapidità con cui Sherlock voltò di scatto la testa verso di lui, puntandogli lo sguardo perforante
addosso, fu quasi eccessiva, ma Mycroft non fu, ancora una volta, affatto sorpreso. Si sentì,
piuttosto, vagamente meschino, ad utilizzare l'unica carta che era certo funzionare tutte le volte,
anche se le conseguenze risultavano sempre peggiori. Meglio porre rimedio subito -la pillola e lo
zucchero non dovrebbero essere mai separati.

«Non puoi vederlo».

Sherlock abbassò nuovamente il viso, con un movimento lento, e in quel momento assomigliò
davvero al bambino a cui Mycroft aveva negato tante, troppe cose. Uscì dallo schema che si era
prefissato. Parlò ancora.

«Non ancora».

«E quando?»

La risposta del fratello arrivò soffocata; aveva di nuovo il viso immerso nelle braccia incrociate.

«Quando sarà fuori pericolo. Esattamente come avevi chiesto tu, giusto?»

L'ultima domanda, dovette ammetterlo, era stata quasi ingiusta. Mycroft sapeva esattamente che
non era quello che aveva chiesto, che quello che Sherlock intendeva fare era assicurarsi
personalmente di come e quando John sarebbe stato al sicuro. Ma era stato prima che le cose
precipitassero. E prima, si disse, di essere stato costretto a credere alla morte del fratello per mesi,
prima di averne notizie. La situazione attuale non lo risarciva certo di quello che aveva passato in
quelle settimane, ma certo evitava che si ripetesse. Già un ottimo vantaggio.

«Sherlock, davvero, dovresti uscire. John non vorrebbe vederti così».

Questo era stato troppo. Suo fratello alzò la testa, i denti digrignati dalla rabbia. Lo osservò per un
attimo, furente, la bocca aperta, come se si stesse sforzando di elaborare la risposta capace di
contenere tutto il suo risentimento. Mycroft lo anticipò.

«Esci fuori. Non devi aspettare qui. Esci, fa' qualcosa. Rimettiti in forma. E quando sarà tutto
sistemato, tornerà tutto come prima».

Ma suo fratello non era stupido. Non poteva credere alle sue false promesse, non era tanto ingenuo
da pensare che le cose sarebbero mai tornate alla normalità -ma di che normalità stavano parlando,
dopo tutto? La rabbia scomparve dal suo viso, che tornò alla sua quotidiana apatia.

«Non lo farò di nuovo».

Avevano imboccato di nuovo lo stesso vicolo cieco, vero? Questa volta, però, fu Sherlock stesso ad
imboccare la retromarcia: iniziò a parlare, lo sguardo fisso sulle sue stesse mani, come fosse solo.

«Andare là fuori e fare finta di essere una persona qualunque e vivere una vita ordinaria e dover
fingere, fingere, fingere, non lo farò di nuovo, è insopportabile e se mi devo nascondere, mi
nasconderò qui, finché devo, non farò finta di essere normale, la gente è stupida, la gente ci crede,
solo John sapeva, solo John non ci cascherebbe, e io non fingerò, non se non è per lui...»

Mycroft si alzò in piedi mentre il fratello continuava a parlare tra sé e sé, ormai totalmente
inconscio della sua presenza. Si allontanò, i passi che risuonavano sul pavimento, raggiungendo la
porta.

«Non è per questo che sono rimasto in vita, non è per questo che volevo tornare, non ho vinto per
nascondermi, perché ho vinto, ho vinto, vero, John? Lo sai, che ho vinto, perché devo fare finta che
sia andato tutto male?»

Aprì la porta e si allontanò lungo il corridoio bianco. La voce del fratello era capace di raggiungerlo
anche lì, o era solo la sua immaginazione. “Stai diventando impressionabile, Mycroft Holmes”, si
disse, mentre richiudeva il portone metallico alle sue spalle.

«Non l'avrei fatto se sapevo sarebbe finita così, John, davvero non volevo che finisse così, non
volevo che finisse con una bugia, non volevo mentire».

Uno scatto, e la serratura si richiuse, sigillandolo all'interno.

«O l'avrei fatta finita subito».



II.


Sarah esitò un attimo, mentre il rumore dell'acqua che bolliva nella teiera si faceva sempre più forte.
Alla fine, si decise a spegnere la fiamma; preparò con cura la tazza appoggiata sopra al vassoio,
raddrizzando il cucchiaino appoggiato di lato. Vi lasciò scivolare dentro la busta dell'infuso. Versò
lentamente l'acqua. Soffiò via il vapore, mentre prendeva il tutto e usciva dalla cucina.

La camera da letto era ancora mezza immersa nell'oscurità. Aprì a metà la porta scorrevole, e vi
entrò abbastanza luce da permetterle di entrare ed appoggiare il vassoio su un tavolino sulla destra.
La figura avvolta scompostamente nelle lenzuola bianche corrugò appena la fronte.

Sarah si lasciò sfuggire un sospiro. Raggiunse la finestra, e aprì le tapparelle, finché la luce del sole
pallido non riuscì ad infiltrarsi nella stanza. Poi, come ogni mattina, andò a sedersi sul bordo del
letto, e passò una mano sulla spalla dell'uomo addormentato, e lo sentì sussultare sotto al suo tocco.

«John?»

Lui sbatté le palpebre un paio di volte. Lo vide agitarsi nel sonno, serrare gli occhi con forza, come
se non volesse aprirli, e sentì il familiare nodo alla gola impedirle di chiamarlo di nuovo. Sapeva
cosa stava sognando, e perché non voleva svegliarsi -lo aveva confessato, una di quelle sere in cui
era tornato dopo qualche drink di troppo. Il giorno dopo, lei aveva fatto finta di essersene
dimenticata.

«John».

Alla fine, lui smise di combattere cercando di restare incosciente, e aprì gli occhi. Era una sua
impressione, o erano rossi? No, doveva esserselo immaginata. Era passato tanto tempo, dopotutto.
Lui ormai aveva ricominciato tutto da capo, no? Ma i giorni in cui queste bugie riuscivano a farla
sentire meglio erano finiti da un pezzo.

«Io... buongiorno, Sarah».

La voce di lui, rauca, confusa, la raggiunse, ed immediatamente lei gli sorrise, cercando di non
lasciare trasparire nulla dei suoi pensieri dal suo sguardo. Si chinò e lo baciò appena sulla fronte. Di
nuovo, lui ebbe un piccolo scatto a quel contatto.

«Buongiorno a te. La colazione è pronta, ti aspetta sul tavolo».

Si allontanò appena, per lasciargli lo spazio per alzarsi, sedersi a bordo letto, passarsi una mano tra i
capelli, e poi strofinarsi il volto, come a spazzare via i frammenti dei sogni e della notte. Non smise
mai di sorridergli. Neppure sapendo che lui non la stava guardando, che a malapena si rendeva
conto della sua presenza lì.

John si alzò, camminando scalzo sul pavimento, individuò il vassoio preparato con cura, ebbe un
attimo di esitazione, poi si avvicinò al tavolino e prese posto.

«Grazie».

Parlò con solo un attimo di ritardo, come ricordandosi solo in quel momento delle buone maniere.
Aveva già la tazza in mano e stava saggiando la temperatura, quando ebbe un secondo pensiero
improvviso, e alzò lo sguardo.

«Vuoi qualcosa, hai già...?»

«Ho già mangiato, John. Non ti preoccupare. Tra poco vado a lavoro».

Il suo sorriso cominciava ad essere fin troppo forzato: sentiva quasi la mascella dolerle. Lo vide
recepire il messaggio, annuire tra sé, e bere un primo sorso di tè, per poi poggiare di nuovo la
tazzina.

«Magari, questa volta, potrei...»

«Ne abbiamo già parlato, John».

Lo interruppe ancora prima che il pensiero si imprimesse troppo a fondo nella sua mente. Almeno
ora poteva rilassare le labbra, prendere un'espressione appena più severa, mentre continuava.

«Sei in vacanza, d'accordo? Hai bisogno di riposare».

Gli indicò, con un cenno gentile del capo, di continuare a mangiare. John parve voler replicare, ma
poi lasciò andare le spalle, con un mezzo sospiro, e bevve un altro lungo sorso di tè, prendendo, con
la mano libera, uno dei biscotti nella ciotola di porcellana davanti a lui.

Sarah lanciò un'occhiata all'orologio. Tra una decina di minuti sarebbe dovuta uscire. Era venuto
quel momento della giornata, si disse, mentre un sorriso amaro le tingeva di nuovo le labbra, mentre
si preparava a parlare di nuovo.

«Come stai, John?»

Lui era diventato bravo a nascondere la sua esasperazione a quelle parole. Non sbuffò -non sospirò
nemmeno, come faceva le prime volte, quando le diceva che era una domanda sciocca, e che stava
benissimo, che non doveva preoccuparsi. Spesso agitava con noncuranza una mano, come se fosse
una questione che sarebbe passata in fretta.

Ma non era successo. E adesso, ogni volta che lei glielo chiedeva, lui alzava gli occhi a guardarla,
bene aperti, e rispondeva seriamente, come se avesse davvero bisogno di convincerla che andava
tutto bene, nonostante la disperazione che trapelava dalle sue iridi.

«Bene, sto bene».

Sarah annuì, ma non poté evitare che le labbra strette s'incurvassero in un sorriso scettico, mentre
scuoteva appena la testa. Lui lo notò. La voce gli si incrinò appena, mentre insisteva.

«Presto potrò tornare a lavorare».

«Certo».

Sapeva che lui non lo sopportava -non sopportava essere guardato come se avesse un qualche
problema. Sapeva fin troppo bene quanto John odiasse gli sguardi pieni di compassione che
parevano accollarglisi addosso ovunque andasse. Quanto gli risultasse intollerabile la maniera in cui
tutti avevano iniziato a parlargli, con la voce piena di commiserazione.

Quasi non poteva biasimarlo, per aver consegnato le dimissioni. Per essersi cercato un nuovo
lavoro, un nuovo appartamento, una nuova vita lontano da tutto quello che era stato. Voleva fuggire.
Non aveva bisogno di essere compatito. O forse non aveva bisogno di essere ricordato di quello che
era successo, ancora ed ancora. Ricordava abbastanza bene senza bisogno di altro aiuto.

«Tu vuoi tornare a lavorare, vero?»

La domanda le sfuggì dalle labbra. Erano giorni che ci pensava, senza riuscire a trovare il coraggio,
o il momento, di sollevare la questione. Forse non era stata una gran scelta farlo ora, a cinque
minuti dall'inizio del suo turno.

Lui, tuttavia, la guardò senza capire -o forse capendo troppo, ma in entrambi casi, parve appena
confuso. Esitò appena prima di risponderle.

«Ma certo che voglio, io non...»

S'interruppe appena, come cercando una maniera migliore di esprimersi. Sarah non distolse neppure
un secondo lo sguardo da lui, aspettando la sua risposta quasi come se ne dipendesse la sua vita. E
dopotutto, non era troppo lontana dalla verità.

«Ho solo bisogno di abituarmi, d'accordo? Di prendere la mano con questa nuova... cosa».

Era strano, ed altre persone si sarebbero sorprese, dal fatto che a quanto pareva, a John Watson era
bastata una mezza giornata per fare l'abitudine a una vita di scene dal crimine e pluriomicidi
psicopatici, mentre due anni e mezzo non erano un tempo sufficiente per fargli accettare una
quotidiana routine di turni all'ospedale da sei ore al giorno, un'ora per il pranzo, mezz'ora per il
caffè a metà mattinata.

«Lo so che non è facile, d'accordo?»

Sarah non riuscì a non dirlo. Sentiva il bisogno urgente di fargli sapere che capiva, o che le
sembrava di capire, quello che gli passava per la mente ogni singolo giorno. Che aveva visto come
la banalità alla quale aveva puntato per tanto tempo, ora sembrava in grado di distruggerlo, di
prendersi pezzo per pezzo quello che restava di quell'uomo spezzato.

«Che cosa non è facile?»

La replica di lui la sorprese. La stava guardando risoluto, lo sguardo accigliato, come se non capisse
quello che stava cercando di dire. Esitò un attimo. Non era sicura di quale risposta sarebbe stata
meglio per lui sentire.

«Io... questo tornare alla quotidianità, un'altra volta».

Lui inclinò appena la testa, passandosi rapidamente la lingua sulle labbra, e Sarah lo prese come un
avvertimento. Doveva chiudere l'argomento. Scoppiò in una stupida risata forzata, odiandosi per
quello che stava facendo.

«Deve sembrarti piuttosto noioso, adesso che-»

«Adesso che?»

Il sorriso scivolò via dal viso di lei, che deglutì. Tuttavia, John non aggiunse nient'altro. Tacque,
abbassò lo sguardo, bevve un ultimo sorso di tè, e la tazzina vuota risuonò quando lui la appoggiò al
vassoio. Un solo respiro soffiò lento dalle sue labbra, e per un istante, tutto quello che fu possibile
sentire, era il ticchettio delle lancette dell'orologio. Sarah vi gettò un'occhiata frettolosa.

«Va tutto bene, puoi andare, ora. Non voglio che arrivi in ritardo per colpa mia».

La voce di lui la riscosse. Le stava sorridendo nello stesso modo in cui aveva fatto lei da quella
mattina, le labbra tirate, con un piccolo sforzo appena visibile. Si alzò in piedi, si abbottonò la
giacca, poi prese la borsa da un attaccapanni sulla destra, esitando di nuovo sulla soglia.

«Torno per pranzo, d'accordo?»

Lui annuì, sempre con un sorriso fiacco sulle labbra. Lei ricambiò, e cercò di dimenticarsi le sue
preoccupazioni e di non pensare a nulla, mentre si allontanava. Quando si ritrovò ad un passo dalla
soglia, sentì la sua voce parlare di nuovo, e si voltò indietro.

Vide John ancora seduto, le mani intrecciate sulle ginocchia, le labbra ancora incurvate in un sorriso
amareggiato. Guardava un punto imprecisato sul pavimento, e la sua mano sinistra stava tremando.

«Volevi dire “adesso che lui non c'è più”, vero?»

Sarah non rispose. Parzialmente nascosta tra il muro e la porta, si sentì estremamente meschina a far
finta di non aver sentito nulla, di essere già lontana. Ma era più o meno tutto quello che desiderava
in quel momento.

«Oppure, “adesso che è tutto finito”?»

Sarah indietreggiò silenziosamente, raggiunse la porta dell'appartamento, l'aprì senza fare il minimo
rumore, scivolandovi attraverso, e solo allora cominciò a correre sulle scale, per uscire fuori, per
andare via, per non essere costretta a vedere la singola lacrima che percorreva la guancia di John
mentre pronunciava le ultime parole.

«Perché è finita. Vero, Sherlock?»



III.


Non si aspettava di sorprendere nessuno, in realtà. Anzi, sarebbe stato decisamente prevedibile,
quasi ne era infastidito. Forse nessuno se ne sarebbe davvero accorto, o preoccupato. Ma dopotutto,
non faceva molta differenza.

Dopotutto, era così che doveva andare, si disse, e questo parve cancellare la paura, l'eccitazione, la
rabbia, tutto quanto. Era così che tutti si aspettavano che andasse, in realtà, no?

Quando Mycroft aprì la porta bianca della stanza, dicendogli che davvero sarebbe dovuto uscire
fuori, Sherlock voltò appena la testa verso di lui, e si alzò lentamente dalla sedia, annuendo piano,
senza esagerata convinzione.

Quando Sarah gli domandò se davvero si sentisse pronto a tornare a lavoro quel giorno, John strinse
le sue labbra in un sorriso stanco, e le assicurò che non vedeva l'ora di uscire da quella stanza e
rimettere tutto a posto.

Mycroft aveva osservato ogni suo movimento, senza dire una parola, studiandolo mentre si avviava
verso l'armadio, ne tirava fuori gli indumenti che aveva addosso il giorno in cui era entrato in quella
stanza, e si vestiva, con assoluta calma. Il cappotto gli stava appena troppo largo.

Sarah aveva indugiato fin troppo sulla soglia, le braccia incrociate contro al petto, trattenendo un
sospiro d'esasperazione -o era semplicemente confusa?- mentre lui osservava la sua immagine allo
specchio, sciacquandosi il viso, passandosi appena il pettine tra i capelli. Quando tempo prima era
comparse, esattamente, quelle occhiaie?

La sensazione dell'aria fresca sulla pelle gli diede un'indescrivibile fremito di esaltazione. Era come
se la chiassosa città tutt'attorno fosse stata messa improvvisamente a tacere. Le uniche cose che
sentì, mentre camminava lentamente, passo dopo passo -la strada sembrava infinita, poteva andare
ovunque, avanti, all'infinito- era il pulsare sordo del sangue alla testa.

Un piede davanti all'altro, piano -avvertì i muscoli flettersi, obbedire al suo comando. Stese le dita
della mano sinistra, sentendola perfettamente immobile. Nessun taxi per arrivare al suo nuovo
ufficio, oggi, non ce ne sarebbe stato bisogno.

Mycroft doveva aver messo delle persone a sorvegliarlo, come l'ultima volta. L'uomo seduto al bar,
leggeva il giornale, ma non sembrava particolarmente interessato. La donna che portava a passeggio
il cane -un golden retrevier di media stazza, appena vaccinato. Una giovane coppia, mano nella
mano, gli gettò un'occhiata troppo lunga, per la norma.

Sarah si era preoccupata, quando lo aveva visto uscire a piedi. Gli aveva chiesto se ne fosse sicuro
almeno un paio di volte, e gli aveva detto di avvertirla non appena fosse arrivato in ufficio. Lui
aveva riso, come se trovasse la cosa assurda. Aveva aggiunto che se la sarebbe presa comoda. Non
si poteva mai sapere.

Poteva confonderli facilmente. Ci aveva lavorato a lungo. Entrò in un supermercato alla sua sinistra,
ed immediatamente venne risucchiato dalla folla di persone intente a correre da una parte e
dall'altra. Non fece alcuna opposizione. Girò tra gli scaffali, con aria distratta. Osservò la gente
banalmente alle prese con i loro problemi quotidiani.

Si lanciò un'occhiata intorno. Tutti parevano essere in ritardo, come se avessero una scadenza da
rispettare stampata addosso, che premeva loro da tutte le parti, impedendogli di indugiare anche
solo per un istante. Rallentò ancora di più il passo.

Sentì il cuore battere contro al petto, e si fermò curiosamente ad ascoltarlo. Aveva davvero sempre
fatto tutto quel rumore? Ad ogni pressione, immaginò il sangue schizzare lungo le vene, pronto ad
animargli il corpo fino alla punta delle dita, reggendolo in piedi.

La calma piatta che sentiva dentro di sé era quasi terrifica. Era come se non ci fosse che un vuoto,
uno spazio immenso, un abisso che lo inglobava tutto. Deglutì. Lasciò che il fiato gli sfuggisse dalle
labbra, condensandosi in una nuvola di vapore davanti a sé. Dio, aveva sempre fatto tutto quel
freddo? Lo notava solo ora.

Contò fino a centottanta, prima di mescolarsi di nuovo ad un gruppo di cinque turisti, probabilmente
olandesi, che usciva dal negozio. Svoltò rapidamente in una stradina laterale. Camminò più in fretta.
Non aveva ancora abbastanza vantaggio. Si sentì leggermente nauseato al pensiero che poco tempo
prima -ma non era davvero poco, vero?- sarebbe riuscito a distanziarli con una facilità quasi
disarmante. L'affanno iniziò a pesargli contro al petto. Digrignò i denti, senza accennare a
rallentare.

Esitò un attimo, prima di scegliere la strada giusta. Era tanto, troppo tempo che non tornava in
quella parte di Londra, ma una volta che svoltò l'angolo, gli parve di non essere mai andato via.
Come fosse appena tornato dalla guerra. Lasciò scivolare la mano destra verso la tasca. Avvertì il
metallo freddo a contatto con le dita. Strinse le chiavi che Sarah non gli aveva visto prendere,
mentre si preparava.

Era una mossa poco saggia, si disse, perché di nuovo, era inevitabile che sarebbe finito lì. Chiunque
lo avrebbe capito. Ma non c'era altro modo, dopotutto. Allungò la strada di qualche minuto, facendo
un giro più largo dell'isolato che gli avrebbe permesso di evitare di passare accanto a Scotland Yard.
Anche se dopotutto, era sciocco -dovevano essere cambiate molte cose, là. O forse era ancora tutto
come prima? Non c'era occasione, per lui, di scoprirlo.

Baker Street era ad un paio di strade parallele alla sua, lo sapeva. Gli parve che lo stesse chiamando,
attirandolo come una calamita. Non si sarebbe lasciato trarre in inganno. Non era là che era diretto,
non poteva lasciarsi distrarre. Volse lo sguardo dall'altra parte, continuando a camminare. Aveva
ripreso a zoppicare? O forse non aveva mai davvero smesso.

Un taxi, dopotutto, non sarebbe stata un'idea così malvagia, si disse, fermandone uno con un cenno
della mano. Gli avrebbe fatto risparmiare tempo prezioso sugli uomini di Mycroft, e sarebbe stato
anche meno visibile. Un uomo solo con un lungo cappotto nero poteva essere fin troppo
riconoscibile. Mormorò un indirizzo poco lontano dalla sua reale destinazione.

Salì sul sedile rivestito di pelle, sbottando il nome di una via. Si frugò in tasca, controllando di
avere i soldi per pagare la corsa. Sì, glieli aveva dati Sarah -sarebbero serviti, teoricamente, per
pagargli il pranzo. Ma non aveva importanza, non davvero.

Seduto, senza possibilità di accelerare o interferire con l'avvicinarsi del momento fatidico, non poté
che trovarsi di nuovo incastrato nei propri pensieri, intrappolato tra le sbarre di metallo che
reggevano le mille costruzioni che si erano intrecciate nella sua mente durante tutta quella attesa,
ergendosi come torri pendenti, come ragnatele che appannavano la vista in una soffitta.

Si chiese per l'ennesima volta se fosse la cosa giusta da fare. Si passò la lingua sulle labbra secche.
Forse, davvero, non avrebbe dovuto. Forse non ci sarebbe riuscito. Forse sarebbe semplicemente
scappato davanti all'evidenza. Certo non sarebbe stato come se l'era aspettato. Per quanto spesso
avesse vagato la possibilità con la mente, era sicuro che la realtà sarebbe stata completamente
opposta alla sua immaginazione.

Sarebbe stato un sollievo, forse? O avrebbe peggiorato le cose? Non poteva più aspettare. Non
sapeva con esattezza quanto tempo fosse passato, ma era stato molto. Troppi.

Era il momento di fermare il corso degli eventi. Due anni e undici mesi, si disse, erano più di quanto
fosse disposto a sopportare senza fare nulla.

Era quello che tutti si aspettavano che succedesse. Ne era certo. Nessuno ci aveva forse voluto
credere fino in fondo, ma era inevitabile. Avrebbe confermato le apparenze, ancora una volta?

Sarebbe stato, dopotutto, un uomo qualunque che lasciava il finale della sua storia svolgersi come
da copione.

Un uomo ordinario che non fa niente di diverso dagli altri. Non ci sarebbe stato davvero nulla di cui
stupirsi. Nessuna ragione per gioire o struggersi, nessun colpo di scena. Le cose non facevano che
ripetersi, la ruota non smetteva mai davvero di girare.

Il taxi era arrivato. Gli allungò il denaro dovuto, estraendo la mano dalla tasca con un'usuale
lentezza. Aprì la portella, scese, si ritrovò di nuovo sulla strada. Ogni movimento parve acquistare
una nuova, assoluta importanza.

Osservò l'asfalto umido, il marciapiede. Lo percorse lentamente. Raggiunse la porta, vi infilò le
chiavi. Esitò solo un istante prima di girarle. Avvertì lo schiocco. Nessuno aveva cambiato la
serratura. La porta si aprì su una scalinata di metallo.

Un gradino dopo l'altro, con lentezza. Il tempo pareva essersi fermato. La giusta pressione ad ogni
passo. Nessuna fretta. Il quasi inavvertibile sforzo ad ogni slancio. Il suo corpo ribolliva di vita, in
un fascio di nervi.

Percorse la scala a chiocciola fino alla fine. Un'altra porta, un'altra chiave, un altro scatto del
meccanismo.

Era arrivato. Mosse qualche passo in avanti. Le gambe lo tradivano, tremando. Era la debolezza, o
qualcos'altro di più umano, che gli si era infiltrato nelle ossa nei mesi di prigionia?

Paura. Non era sicuro fosse la parola giusta. Era una sorda, costante eccitazione, che gli vibrava in
ogni cellula. Raggiunse la scrivania, aprendo il cassetto di legno.

Fine del terzo atto, ultima scena. Non gli rimaneva che un ruolo da interpretare. Avrebbe avuto un
pubblico ad applaudirlo, anche questa volta? Nessuno sarebbe mai riuscito davvero a comprendere.

Solo un ultima mossa, dopotutto. Forse, era più facile di quanto si sarebbe mai aspettato. Forse gli
era stata assegnata la parte giusta, in fin dei conti. O almeno, era quello che avrebbero pensato tutti.

Un solo pensiero gli attraversò la mente.

Lui avrebbe capito.

Lui lo avrebbe saputo.

Ne era certo.

Non poté evitare di schiudere appena le labbra, sentendole secche e tagliate dal vento.

Aprì la bocca, in un mezzo sorriso di amarezza.

«Mettiamo fine alla finzione, John?»

«Pronto quando lo sei tu, Sherlock».



Un falso genio si suicida gettandosi dal tetto di un edificio.


Un soldato ferito da un proiettile di ritorno dalla guerra.



Sollevò la pistola, e premette il grilletto.

Allargò le braccia, e saltò.
   
 
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