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Autore: Soqquadro04    26/10/2013    2 recensioni
[Malinconica con Fluff velato | Mama!Salvatore&Child!Damon | Gatta estranea e innominata]
Elizabeth Salvatore è malata di tisi, e anche se ancora non vuole credere, non completamente, che le resta poco, scrive una lettera.
E c'è un bambino, un piccolo angelo dagli occhi chiari, che non può starle vicino.
«La mamma è malata, Damon. Non vuoi ammalarti anche tu, vero? Su, da bravo.» lo esorta con tono stanco, celando la paura. Non è sicura che la ascolterà.
È troppo simile a lei, e quando lei stessa sente stonato quel “da bravo” sulle sue labbra, come può sperare di convincere lui?
Quante volte le hanno ripetuto quelle stesse parole, troppe persone per poterle ricordare tutte?
Da brava, Elizabeth, indossa questo bell'abitino verde.
Corse per sfuggire a mani fredde e gonne pesanti.
Signorina Blanchard*, la prego, faccia la brava, lasci che Anne le sistemi il corpetto!
Un salto in avanti, uno indietro, il rumore di uno sbuffo contrariato.
Elizabeth! Non ti azzardare a salire su quell'albero! Da brava, scendi.
Una risata che si leva alta.
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Damon Salvatore, Giuseppe Salvatore
Note: Missing Moments, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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N/A - Note dell'Autrice - Premessa

Gente, eccomi qui a mezzanotte di Venerdì, mentre cerco di non svegliare il parentado intanto che impreco contro la mia idiozia suprema e aspetto gli ultimi dieci minuti del downolad della 5x04 (voi non volete sapere, davvero).
Sappiate soltanto che qualcuno (non faccio nomi, ma sappiate che ringrazio tanto questa persona perché mi ha infuso speranza) mi ha rivelato che

SPOILER SPOILER SPOILER SPOILER
Damon si decide a nominare sua madre!
Era anche ora, dopo che tutta quelle belle personcine sadiche che si divertono a infilare nei pasticci Mystic Falls ci hanno ridotto al punto di inventarci la signora Salvatore ù.ù
Infatti io non so se reggerò al colpo di, forseforseforse, vederla in un flashback, con un volto vero, perché me ne sono fatta un'idea tutta mia ç****************ç
Diooooooo non ci possooooo creeeeedere *WWWWWWWWWWWWWW*
FINE SPOILER

Cooomunque, qualche piccola precisazione:

1. Potrebbe dirsi una Missing Moment, oppure una What if?, perché comunque non sappiamo nulla di mamma Salvatore (per lei, come faccio solitamente, ho utilizzato il nome “Elizabeth”).
Proprio perché non abbiamo informazioni su di lei, l'ho caratterizzata a mio piacimento, perciò forse potrebbe essere necessaria la dicitura OOC >.<

2. La gattina è una tipetta completamente inventata, e il fatto che sia bianca è da intendere come un velato omaggio alla Katherine Pierce cartace :) Ah, e il nome è “Blanche” per assecondare un'altra caratteristica che associo a Mrs. Salvatore: nella mia testa ha origini francesi ù.ù

3. La storia potrebbe risultare un po' "strana" perché, anche se in terza persona, ho narrato dal punto di vista di Elizabeth: qualcuno di nuovo, a cui non sono stati dedicati molti lavori, a quel che ho visto ù.ù

4. *Blanchard; mi sono inventata un cognome da nubile, sempre assecondando le ipotetiche origini francesi <3

Spero vi piacerà,
la vostra Soqquadro

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Le silence de la nuit
 

La madre è orgogliosa del figlio che è salito in alto, ma darebbe la vita per l'altro: per il figlio senza fortuna.
Libero Bovio

La madre ha inventato l’amore sulla terra.
Edmond Haraucourt
 

Il bambino chiama la mamma e domanda: / "Da dove sono venuto? / Dove mi hai raccolto?"
La mamma piange e sorride, / stringe al petto il suo bambino e dice: / "Eri un desiderio dentro al cuore."

Rabindranath Tagore



Elizabeth Salvatore è malata.

Costretta a letto, le imposte accostate per non ferire i suoi occhi ormai troppo sensibili, il volto molto più pallido del solito e notevolmente più emaciato.

Tisi, sentenziano tutti quei distinti, tronfi dottori dal vestito nero e gli occhi grevi che ormai da settimane fanno a gara a chi passa più tempo nella sua stanza. Le controllano la gola, la fanno respirare – e i polmoni fanno così male.

Quindi è tisi, a quanto pare.

Lei dice di no.

Dice che con un po' d'aria fresca e un po' di sole – quanto le manca il sole sulla pelle – starebbe subito meglio, ma loro sono più ostinati. E anche Giuseppe lo è.

Quando lo vede entrare in camera, la sua fronte è sempre più corrugata e il suo respiro sempre più ansioso, mentre chiude la porta, ignorando i continui richiami di Damon – gli impedisce di entrare, per evitare il contagio. Non sopporterebbe di vederlo stremato dal suo stesso male, di vederlo morire per il suo egoismo.

E anche se lei vorrebbe solo alzarsi e correre ad abbracciare i suoi bambini – da quanto tempo è che non vede Stefan, il piccolo Stefan, che non ha nemmeno un anno? Oppure suo fratello, quel frugoletto che ha i suoi stessi occhi e che è cresciuto tanto in fretta da rendere quasi impossibile credere che meno di sei anni fa lo cullava ancora fra le braccia – sa che Damon, che ormai è abbastanza grande da capire, si spaventerebbe soltanto e rischierebbe invano.

Così si rassegna alla compagnia di Blanche – il suo regalo di compleanno, da parte di quel burbero di suo marito che tanto burbero non è, vista la facilità con cui ha ceduto a quella sua richiesta –, una minuscola, morbida palla di pelo candido. Assomiglia a uno di quei piumini che si usano per spargere la cipria, che fanno bella mostra di sé sul ripiano della sua toeletta.

Sì, proprio un piumino da cipria con gli occhi arancio.
Palla di pelo che in questo momento sta dormicchiando, evidentemente annoiata, oppure imitando la sua padrona.

È stanca, Elizabeth. Sfinita.

Sa che non è normale. Sa che probabilmente non le resta molto, mentre un attacco improvviso di tosse la fa piegare in due.
Blanche sobbalza, svegliandosi, e soffia spaventata, girando intorno un paio di volte prima di rendersi conto che il rumore proviene proprio dalla donna.

Così inclina la testolina di lato, le orecchie ancora piegate all'indietro, e miagola timidamente.

Elizabeth si sente strappare via i polmoni, come se qualcosa si lacerasse, e lo sterno brucia.
Poi l'attacco passa, il respiro veloce e terrorizzato che le raschia la gola, la schiena che ricade pesante sui cuscini.

Chiude gli occhi, reclinando la testa all'indietro e tentando di ritrovare il ritmo regolare dell'inspirazione.

Per un secondo non ci riesce, e rischia di farsi prendere dal panico, vanificando anche quei pochi risultati, ma poi si accorge di essere riuscita a calmarsi.
Rimane ferma ancora un poco, respirando cautamente.

All'improvviso, sente qualcosa di soffice e tenero e profumato che si struscia contro le sue dita, e un sorriso le si dipinge in volto quando un altro leggerissimo miagolio le raggiunge le orecchie.

Spalanca gli occhi, sospirando e accarezzando delicata le orecchie della gattina che, felice, le si arrampica in grembo.
Ed Elizabeth capisce che non c'è più tempo, che forse il prossimo attacco sarà ancora peggiore e che quello dopo potrebbe non arrivare mai.

Si solleva di scatto, attirando un'indignata e acuta protesta da parte di Blanche, notando con ansia crescente che il movimento improvviso le ha fatto girare la testa.
Rimane immobile per qualche secondo, attendendo che il capogiro passi, poi si libera dal bozzolo di coperte e si alza, rabbrividendo al contatto con il marmo gelido del pavimento della camera.

Le farà male, probabilmente, ma non le importa, mentre si dirige verso lo scrittoio.
A tentoni, trova l'acciarino e un moccolo di candela ancora utilizzabile.

Basterà.

Si siede, notando che c'è già un foglio pronto ad aspettarla e che il calamaio è pieno; non ricorda se è stata lei a lasciare tutto così, dopo l'ultima volta che ha scritto qualcosa.

Afferra il pennino, e sente la mano tremare. Cerca di tenerla ferma, perché è così umiliante capire che il suo stesso corpo la sta tradendo, che ormai è quasi troppo debole anche per impugnare senza esitazione uno stilo.

Ma se anche il suo corpo è debole, non lo è lei.
Non lo è la moglie, non lo è la madre, non lo è la donna.

Abbassa la mano, determinata – deve farlo, lo deve a lui –, e la grafia stretta ed elegante riempie la carta, l'unico rumore lo sporadico miagolio della sua gatta e il grattare leggero della punta di ferro.

Scrive parole che non serviranno a nulla, quando sarà tutto finito.
Scrive di amore e di morte, scrive con il suo cuore di madre trafitto da lunghi spilloni avvelenati d'angoscia.

Scrive non non dando importanza alle macchie d'inchiostro che lascia sulla carta quando preme troppo forte, sopraffatta, o ignorando l'istinto di accartocciare quel foglio e ricominciare a sperare.
Non credere a quella sensazione, quando sa che non servirà a nulla, anche se lo facesse.
Stringe i denti e finisce, vergando le ultime lettere incidendo così profondamente da rischiare di strappare le fibre delicate.

Elizabeth Salvatore sta piangendo, ora.

Pesanti singhiozzi le scuotono le spalle, andando a sforzare i suoi polmoni provati, minacciando di provocare un altro feroce attacco di tosse distruttiva.
Si allontana dal piano dello scrittoio, cercando di asciugare le lacrime che rotolano lente lungo le guance, rischiando di macchiare il foglio. Quando alza gli occhi, vede che la fiamma della candela – tremolante e incerta e umida, attraverso il velo che le impedisce una vista chiara – sta ormai esaurendosi.

Si piega in avanti e soffia, spegnendola.
Le dita ancora bagnate, afferra la lettera e la piega in due, nascondendola in uno dei cassetti.

Poi si alza e raggiunge nuovamente il letto, ignorando Blanche che le si strofina contro le caviglie, e si rimette sotto le coperte, piangendo ancora. Strofina il volto contro il cuscino, lasciandolo bagnato.
All'improvviso, sente la porta aprirsi in un cigolio traditore, e una pallida lama di luce riversarsi all'interno.

Trattiene il respiro, sollevando appena il capo e mormorando una domanda fra i denti.

«Chi c'è?» un'ombra scura si staglia contro il rettangolo di luce che proviene dal corridoio, per appena un secondo prima che la porta venga nuovamente richiusa e nel silenzio della stanza echeggi il rumore di piccoli piedi che calpestano il marmo.
Capisce, prima di avvertire il letto cigolare sotto il peso di qualcun altro, e un profumo fresco, di pioggia imminente e terra, riempirle le narici.

Si irrigidisce, mormorando qualcosa che fa fermare l'intruso.
Terrorizzata.

No, non può permettere che si ammali.
No.

«Damon, no. Oh, angelo mio, no. Vai via, ti prego.» un groppo in gola, il pianto che preme nuovamente per sfogarsi, la titubanza che avverte nei gesti del bambino.
No.

«Ma... mamma...» la voce esile, un poco acuita dalla tristezza, le trapassa il corpo.
Tocca la sua anima, ma non può cedere.

No.

«La mamma è malata, Damon. Non vuoi ammalarti anche tu, vero? Su, da bravo.» lo esorta con tono stanco, celando la paura. Non è sicura che la ascolterà.
È troppo simile a lei, e quando lei stessa sente stonato quel “da bravo” sulle sue labbra, come può sperare di convincere lui?

Quante volte le hanno ripetuto quelle stesse parole, troppe persone per poterle ricordare tutte?

 

Da brava, Elizabeth, indossa questo bell'abitino verde.
Corse per sfuggire a mani fredde e gonne pesanti.

Signorina Blanchard*, la prego, faccia la brava, lasci che Anne le sistemi il corpetto!
Un salto in avanti, uno indietro, il rumore di uno sbuffo contrariato.

Elizabeth! Non ti azzardare a salire su quell'albero! Da brava, scendi.
Una risata che si leva, alta.

 

Troppe volte, troppi volti, troppi ricordi sfumati e confusi.
È per questo che non è certa dell'efficacia della sua richiesta: ha sempre cercato di evitare di rivolgersi a Damon così.

Ma lui sembra rendersi conto della disperazione che ha cercato di mascherare.
Si limita a ripercorrere a ritroso il tragitto, dal letto alla porta, cercando di distinguere la sua figura nel buio.

Quando ci riesce, a malapena, sussurra qualcosa che fa riaffiorare le lacrime.

«Ti voglio bene, mamma.» Elizabeth chiude gli occhi, tentando di impedirsi di buttare all'aria qualsiasi successo, di alzarsi e correre verso di lui e stringerlo e non lasciarlo più andare.
Ma non può.

L'unica sua possibilità è rispondergli, provando a fargli capire con quel mezzo limitato che è la voce umana, quanto le fa male non poterlo abbracciare.

«Anche io, amore mio. Piccolo mio.» la porta si richiude, e sa che suo figlio è fuori, alla luce.

E lei è rimasta sola, confinata in un buio opprimente, senza nemmeno la compagnia della sua gatta, rintanatasi chissà dove.

Elizabeth Salvatore si rannicchia sotto le coperte, tremando appena.
Prima di cedere al sonno, spera solamente che Giuseppe, quando arriverà il momento, sappia cosa fare con la sua lettera.

*****

Piccolo, dolce Damon,
sono la mamma.

Quando leggerai questa lettera sarai forse troppo grande per ricordarmi nitidamente, forse troppo infuriato con me per queste mie debolezze terrene per riuscire a perdonarmi, quando – se lo farai – avrai esaurito le parole.

Sono malata, amore mio, ma questo già lo sai o forse solamente lo intuisci, mentre tuo padre ti impedisce di entrare. Vorrei tanto abbracciarti, stringerti. Baciarti i capelli, accarezzarti le guance.

Chiederei alla balia di rimanere con noi, insieme a Stefan, e voi due potreste giocare con Blanche e riderei, e forse non inizierei a tossire, prostrata da un mostro orribile che mi strazia il petto.
Ma non starei meglio, piccolo mio, nemmeno se potessi respirare tutta l'aria pura di primavera, nemmeno se il calore del sole stesso agisse come un balsamo su di me.

E quindi mi rassegno a non vederti, per non spaventarti – non so neppure se mi riconosceresti, pallida e arruffata come sono, e non più abituata alla luce e ai giochi in giardino.
E per non contagiarti con questo male che mi corrode dentro, per non costringerti al mio destino.

Questa sarà una lettera breve, una lettera che rimarrà solo un ricordo o che forse dimenticherai.
Una lettera in cui ti chiedo di fare qualcosa per me, tesoro mio.

Ti chiedo di rimanere accanto a tuo fratello, così piccolo e ingenuo, così privo di preoccupazioni che lasciarlo solo mi fa sanguinare il cuore, perché non sarò lì a prepararlo quando arriveranno i primi dolori – così come non sarò lì ad accudire te, e il saperlo non può che farmi incollerire verso me, verso questo stupido dolore.

Ti chiedo di non odiarmi, se puoi, perché lasciarvi è già la peggiore punizione che il Signore possa impormi, e non sopporterei di vedere anche la tua rabbia.
Ti chiedo di raccontare a Stefan di me, qualche volta, per donargli almeno un po' di quel calore che non potrò regalargli di persona.

E ti chiedo di ricordare che ti voglio bene, che ti amo come solo una madre può amare il proprio bambino, che mi fa soffrire il pensiero che non ti vedrò crescere e affidarti a un'altra donna, che non potrai chiedermi consiglio e io non potrò consigliarti, che quando ti innamorerai per la prima volta io non riuscirò a vedere i tuoi occhi accesi da quel fuoco gioioso.

Ti prego, angelo mio.

Ti voglio bene,
la mamma

   
 
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