Titolo: L’amore
che serve
Fandom: Free! Iwatobi Swim Club
Eventuale pairing: RinHaru (accenni
MakoHaru)
Frase: La vita è tua.
Fa’ quello che
ti pare.
–
L’amore che serve
Era
impossibile costringere Rin e tutto
quello che rappresentava per lui in una prigione fatta di carta e
inchiostro. Haru
guardò ancora una volta lo schizzo che
aveva disegnato e poi il ragazzo addormentato con la testa posata sulla
sua
coscia: quel foglio non gli muoveva niente dentro, neanche una
scintilla di
tutta l’emozione che avrebbe dovuto provare. Poi
pensò al viso di Rin e al suo
sorriso, e al modo in cui respirava piano, al peso della sua nuca sulla
pelle,
al calore che gli trasmetteva la sua presenza: non era riuscito a
disegnare
tutto questo. Accartocciò il pezzo di carta con un gesto di
stizza e ne prese
un altro, testardo, decidendo di ricominciare da capo.
Tratteggiò i muscoli,
sfumò l’ombra proiettata dalla lampada sui
capelli, riempì con la china i punti
più scuri. Stilisticamente non c’era nulla da
obiettare: era uno dei suoi
disegni migliori. Ma non era Rin, non ancora, c’era qualcosa
che continuava a
sfuggirgli, e aveva l’impressione che gli sarebbe sfuggito
per sempre. Era così
concentrato in quel passatempo che era diventato una sfida da non
accorgersi
del leggero movimento che produsse il ragazzo mentre si svegliava e
apriva gli
occhi.
«Cosa
fai?»
Haru
sussultò, colto di sorpresa dalla
sua voce ancora impastata dal sonno. «Niente.»
borbottò, ma le guance già gli
si stavano tingendo di rosso. Voltò il foglio per non fargli
vedere il disegno
quasi ultimato.
Rin
si era appena svegliato e le sue
capacità intellettuali erano ancora sopite, ma non gli
sfuggì il suo gesto e
con un sorriso furbo si puntellò con i gomiti sul pavimento,
dove si era
addormentato qualche ora prima; Haru era seduto accanto a lui, davanti
al
tavolino basso che usava per disegnare, ed era rimasto immobile tutto
quel
tempo per evitare di svegliarlo. Rin lo spinse via con un braccio e con
l’altra
mano girò di nuovo il foglio, ignorando le sue flebili
proteste. Sgranò
leggermente gli occhi quando vide lo schizzo a penna che Haru aveva
cercato di
nascondergli.
«Wow»
mormorò, stupito. «Hai… disegnato
me?»
«Mi
stavo annoiando.» si schernì lui,
ed era vero. Aveva cominciato quasi per gioco, quando si era accorto
che Rin si
era addormentato mentre guardavano un film. Allora aveva spento la
televisione
e l’aveva fissato per qualche secondo, chiedendosi se si
sarebbe svegliato se
avesse provato al alzarsi, ma poi aveva visto il torace lasciato
scoperto dalla
zip della felpa completamente abbassata, i fianchi abbracciati dai
pantaloni
della tuta, il viso di profilo per
una
volta tanto privo del suo ghigno di sfida. La mano appoggiata sulla sua
coscia,
possessiva anche nel sonno, il petto che si alzava ed abbassava
seguendo un
ritmo che, incoscientemente, anche lui aveva fatto suo. È
bellissimo, aveva pensato Haruka.
«È
bellissimo.» disse Rin, sinceramente
colpito.
«Non
è ancora finito.» borbottò lui,
schivo. «È solo uno schizzo. L’ho fatto
tanto per fare.»
Il
ragazzo gli restituì il foglio.
«Allora finiscilo.»
Haru
si voltò a guardarlo, cercando i
suoi occhi per la prima volta da quando era stato scoperto in un
momento tanto
intimo. Si era sentito quasi violato da quella prepotente intrusione,
forse
perché, mentre disegnava, era talmente concentrato da
entrare in un mondo solo
suo. Dove Rin c’era, ma gli permetteva di studiarlo senza
muoversi in
continuazione per evitare il suo sguardo. Quando era sveglio era
impossibile da
capire; immortalato in un disegno, magari, avrebbe rivelato quello che
Haru non
era mai riuscito a capire di lui, ma doveva rimanere una cosa sua.
Mostrargli
come lo vedeva significava abbattere tutte le barriere che li rendevano
due
essere umani distinti, e non era molto sicuro di volerlo.
«Vuoi
davvero che lo finisca?»
«Sì.
Mi piace.»
Haru
guardò lui e poi di nuovo il
disegno. Come poteva piacergli qualcosa di così imperfetto?
Avrebbe voluto
dirgli che, se non si fosse svegliato, l’avrebbe
già strappato in mille pezzi.
Però sospirò e alzò gli occhi al
cielo, fingendosi annoiato, e prese la penna
in mano.
«Rimettiti
come eri prima.» ordinò.
«Così
va bene?»
«No.
Cerca di essere più naturale. E
chiudi gli occhi.»
Rin
obbedì e lui ricominciò a
disegnare. Dopo pochi istanti si fermò di nuovo, guardandolo
storto. «Ti ho
detto di chiudere gli occhi.» gli ricordò, notando
che lo spiava da sotto le
ciglia abbassate.
«Voglio
guardarti mentre lo fai.»
«Mentre
faccio cosa?»
«Mentre
mi studi come un quadro in un
museo.» ridacchiò per qualche secondo, poi smise
di colpo. Tutto a un tratto i
suoi occhi sembravano pieni di una tristezza amara e bruciante, che
poche altre
volte aveva incontrato. «Non mi guardi mai
così.»
Haru
ignorò volutamente il suo sguardo,
macchiato da una lieve sfumatura d’accusa, e tornò
a concentrarsi sul disegno,
ma ormai gli tremava la mano e rischiò di rovinare
l’ombreggiatura del torace
con un tratto troppo deciso. «Perché non ti
disegno mai.»
Rin
si zittì per un po’, senza smettere
di guardarlo, e non gli chiese perché avesse posato di nuovo
la penna. Per
qualche minuto non parlò più nessuno.
«Haru»
disse poi, piano. «Ma tu sei
felice?»
Haruka
aspettava quella domanda da fin
troppo tempo, da così tanto che in lui era penetrato un
sottile astio verso
Rin, che si era macchiato della colpa di non averglielo mai chiesto.
Quell’astio si trasformò in un istante nel no
che aveva intenzione di pronunciare, senza scuse né
spiegazioni, e poi si
scontrò con l’amore burrascoso che aveva imparato
a provare per il suo ragazzo.
Il suo ragazzo. Non
l’aveva mai
chiamato così. Non lo avrebbe mai fatto. Non sarebbe mai
stato suo.
«Perché
me lo chiedi?» decise di
rispondere. Tanto qualunque cosa diversa da sì
era un no e lo sapevano tutti e
due.
Scoprì che Rin se ne era accorto dal modo in cui
sollevò la testa dalla sua
coscia per guardarlo in faccia. Aveva imparato a conoscerlo bene, in
quegli
anni.
«Perché
voglio saperlo.» mormorò.
«C’è
qualcosa che non va?»
Haruka
si scrollò di dosso la mano che
lo teneva per un lembo della felpa e si alzò in piedi. Si
diresse verso la
camera da letto con passo lento, cadenzato.
«Ti
va di andare a mangiare qualcosa
insieme? Magari a quel ristorante thailandese che ti piace
tanto.»
L’unico
modo che aveva trovato per
cercare di trattenerlo. Se avesse scavato un po’
più a fondo in quei suoi occhi
forzatamente allegri, magari avrebbe trovato qualche scintilla della
disperazione che la voce tradiva. Invece tirò fuori il
cellulare dalla tasca
dei pantaloni.
«Sta
per chiamare Makoto.» rispose, a
mo’ di scusa, sebbene la sua voce non convincesse nemmeno
lui. Il telefono
squillò pochi secondi dopo, come a volergli dare ragione, e
la porta della sua
stanza che sbatteva, a chiuderlo fuori dal mondo che Makoto si scavava
nella
vita di Haru, risuonò nella testa di Rin per tutta il resto
della serata.
˜°˜
Makoto
telefonava ogni giorno, alla
stessa ora. Non se ne dimenticava mai, ed era in perfetta sintonia con
il
quadro ideale che Haru aveva schematizzato nella propria testa per
mettere a
fuoco le poche certezze che aveva. Non c’era spazio per
elaborate introspezioni
psicologiche, quando doveva figurarsi i ruoli delle due persone
più importanti
della sua vita: lo sentiva d’istinto, sulla pelle, come una
condizione naturale
che si esternava automaticamente senza bisogno di pensarci. Makoto era
il dolce
dondolio dell’acqua che lo cullava, la sua colonna portante,
le gambe su cui si
reggeva; Rin era il maremoto che riusciva sempre a metterlo in
discussione, che
non lo rassicurava mai, anzi, lo riempiva di dubbi, era
l’obiettivo che
inseguiva da anni e che non avrebbe mai raggiunto. Uno lo faceva
sentire bene
con se stesso, l’altro gli faceva venire voglia di vivere.
«Cos’hai,
stasera? Sembri strano. Sei
preoccupato per qualcosa?»
Haru
rimase in silenzio. Makoto se ne
accorgeva sempre. Rin faceva caso a malapena ai suoi sbalzi
d’umore,
etichettandoli come la norma nelle “stranezze
del suo caratteraccio”.
«Sai
che puoi dirmi tutto.» lo incalzò
il ragazzo dall’altro capo del telefono, ma la sua voce
suonava dolce,
accomodante, come se stesse cercando di addomesticarlo. Non cercava mai
di
persuaderlo a fare qualcosa che non voleva, si limitava a vivere
secondo i suoi
tempi, aspettando i momenti propizi e sorridendo ancora di
più in quelli
burrascosi.
Haru
continuò a giocherellare con un
filo che sporgeva da una cucitura della tuta, evitando di rispondere.
Makoto
era abituato ai suoi frequenti silenzi, tanto che non cercava nemmeno
più di
riempirli: spesso se ne stavano senza parlare per minuti interi,
accontentandosi di sentirsi respirare a vicenda. Anche quando potevano
vedersi
tutti i giorni erano soliti passare delle ore in silenzio, dato che
perfino le
parole erano diventate inutili in un rapporto come il loro, dove
bastava
sfiorarsi, o semplicemente guardarsi negli occhi, per capire tutte le
cose che
non potevano essere dette. Da quando Haru si era trasferito con Rin in
un’altra
città, quella loro capacità di intendersi aveva
solo subito un’evoluzione
dettata dall’impossibilità di incontrarsi tanto
spesso quanto prima.
«Haru…»
Il
ragazzo sbuffò, tanto per fargli
sapere che era ancora in linea.
«Ma
tu sei felice?»
Quella
domanda aveva tutto un altro
sapore, ora che era pronunciata dalle labbra di Makoto. Tradiva una
preoccupazione che Rin non si era dato la pena nemmeno di fingere
– o almeno,
così gli piaceva pensare. Perché ritenerlo
egoista era il miglior modo per non
sentirsi tale.
«No.»
No. E poi basta, perché con
Makoto non
serviva altro. Era con Rin che le parole non bastavano mai, non si
sarebbero
capiti nemmeno urlandosi contro tutto quello che non andava. Parlavano
una lingua
diversa, e non era poi tanto giusto, dato che stavano insieme, no? E
poi,
stavano davvero insieme? O condividere la casa, il letto, baciarsi e
fare
l’amore erano solo istinto?
«Puoi
tornare quando vuoi, lo sai.»
«Non
posso.»
«Non
sei obbligato a rimanere lì.»
«Sì.»
«Haru…
Rin non ti ha costretto. Hai
deciso tu di andare con lui.»
Era
vero, ma mancava il desiderio di
ammetterlo. Quando Rin aveva comunicato che se ne sarebbe andato di
nuovo,
Haruka aveva pensato che sentire la mancanza di Makoto, Nagisa e Rei
non
sarebbe stato straziante quanto sopportare la lontananza da lui. Aveva
pensato
di aver bisogno di Rin più di quanto avesse bisogno di
essere felice. Aveva
pensato che, forse, un giorno sarebbe potuto esserlo davvero. Felice. E invece passava le giornate
chiuso in casa, mentre Rin si allenava per le Olimpiadi. Non nuotava
nemmeno
più. E non litigavano nemmeno. Se almeno avessero avuto
qualche diverbio,
avrebbe avuto una scusa per andarsene. E invece no. E non aveva neanche
voglia,
di andarsene, perché in fondo era vero.
Aveva
bisogno di Rin più di qualsiasi
altra cosa.
«La vita è tua. Fa’
quello che ti pare.»
Silenzio. Un’occhiata frettolosa al
check-in dell’aeroporto.
Un’altra alla porta di uscita. Il freddo di gennaio che
penetrava attraverso
gli spiragli lasciati dalla sciarpa malamente avvolta attorno al collo.
«Senti, Haru, io non ti ho mai chiesto di
farlo. Hai deciso
tu di venire con me. Se cambi idea proprio adesso, io… non
so cosa fare.»
I secondi scorrevano troppo in fretta mentre una
voce chiamava
il loro volo attraverso gli altoparlanti. Il biglietto pesava nella
tasca della
giacca come un macigno e il modo in cui Makoto lo aveva abbracciato la
sera
prima continuava a scaldargli il petto, sebbene fossero passate ormai
ore.
Spostò il peso da una gamba all’altra,
tentennando, senza riuscire ad alzare lo
sguardo dal pavimento.
«Se resti tu, resto anche io.»
Haruka alzò il capo quanto bastava per
incrociare gli occhi
di Rin. Non mentivano.
«Quando mi hai detto che saresti venuto,
ho capito che non
avrei avuto il coraggio di andarmene se non fosse stato
così.»
«Haru?
Sei ancora in linea?»
Il
ragazzo si scostò a forza dai propri
pensieri. Improvvisamente si era ricordato quello che lo aveva convinto
a
trasferirsi lontano dai suoi amici per seguire un sogno che non era
nemmeno
suo.
«Sì.»
rispose, distratto. «Devo andare.
Ci sentiamo domani.»
«Haru?
Haru, aspetta!»
Ma
lui aveva già riattaccato. Sì alzò
in fretta dal letto per tornare in salotto, e una vivida sensazione di
delusione gli si propagò in tutto il petto quando si accorse
che era vuoto.
Frenò lo slancio iniziale fino a camminare lentamente sul
tappeto che Rin aveva
voluto comprare a tutti i costi, sebbene a lui sembrasse orrendo, e si
sedette
a terra, davanti al tavolo dove ancora giaceva il suo disegno.
Cercò qualcosa,
un biglietto, un post-it, qualsiasi cosa che gli dicesse dove fosse
andato a
finire Rin. Niente.
Haruka era arrossito, a quelle parole, o forse era
solo il
freddo; non si era mai trovato a proprio agio con certe dichiarazioni e
non
sapeva nemmeno come rispondere. Però Rin aspettava che lui
dicesse qualcosa.
«Va bene.» aveva sussurrato. E
basta.
Poi lo aveva preso per mano e aveva camminato con
lui verso
il check-in.
Haru
guardò il disegno ancora
incompleto. Continuava a non piacergli, ma ora la prospettiva che ne
aveva era
del tutto diversa: poteva vedere
quello che mancava, e si diede dello stupido perché non se
ne era accorto
prima. Era impossibile pensare a Rin senza includere
nell’immagine anche se
stesso. Potevano essere diversi, teoricamente incompatibili, potevano
cozzare
all’infinito senza trovare un punto d’incontro, ma
alla fine erano comunque
insieme. Nonostante tutto, era impensabile fare a meno l’uno
dell’altro.
Recuperò
la penna da sotto il tavolo e
schizzò in pochi secondi le proprie dita intrecciate a
quelle di Rin. Il dorso
della mano, il polso, l’avambraccio; dal gomito in su il
disegno finiva fuori
dal foglio, ma non importava. Rin avrebbe capito di chi era quel
braccio solo
guardandolo. Completò l’opera proprio nel momento
in cui la porta d’ingresso si
apriva e si richiudeva dopo pochi secondi con un tonfo sordo.
«Ehi.»
Haruka
alzò lo sguardo verso di lui e
lo guardò avvicinarsi mentre si toglieva la giacca e
l’appoggiava sullo
schienale di una sedia.
«Ciao.»
mormorò, piano, incerto su
quello che dire. Scusarsi? Fare finta di nulla?
«Ho
pensato di andare a prendere la
cena.» alzò il braccio per mostrare la grossa
busta da asporto con il logo del
ristorante thailandese. Quello che piaceva tanto a Haru. «Hai
fame?»
«Certo.»
Rin
parve rassicurato da quelle parole
e accennò un sorriso mentre passava in cucina a prendere le
posate, per poi
andare a sedersi sul tappeto accanto a lui.
«Ti
va se mangiamo qui?»
«Okay.»
si schiarì la gola,
imbarazzato. «Ho finito il disegno.»
buttò lì, mostrandoglielo.
Rin
guardò prima lui, un po’ sorpreso,
poi prese in mano il foglio che gli porgeva. Si lasciò
sfuggire un sorriso
quando notò la mano che ora stringeva quella del suo
alterego d’inchiostro.
«È
bellissimo.» ripeté, mentre si
chinava su di lui per sfiorarlo con un bacio. Stava per allontanarsi
quando
Haru gli posò una mano dietro la nuca, trattenendolo contro
le proprie labbra.
«Rin.»
«Cosa
c’è?»
«Sono
felice.»
Rin
lo premiò con un altro sorriso. Più
bello, più largo.
«Anche
io.»
Ed
era vero. Bastava solo un po’
d’amore.