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Autore: Shirangel    26/10/2013    3 recensioni
«Ma tu sei felice?»
Basta una domanda per mettere in dubbio tutte le tue certezze. Se poi quelle certezze non le hai mai avute, è ancora più facile lasciarti sfuggire i pezzi della tua vita senza nemmeno provare a tenerli insieme.
[Rin x Haruka] [Accenni Makoto x Haruka]
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Haruka Nanase, Makoto Tachibana, Rin Matsuoka
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: L’amore che serve
Fandom: Free! Iwatobi Swim Club
Eventuale pairing: RinHaru (accenni MakoHaru)
Frase: La vita è tua. Fa’ quello che ti pare.

 

– L’amore che serve

Era impossibile costringere Rin e tutto quello che rappresentava per lui in una prigione fatta di carta e inchiostro.  Haru guardò ancora una volta lo schizzo che aveva disegnato e poi il ragazzo addormentato con la testa posata sulla sua coscia: quel foglio non gli muoveva niente dentro, neanche una scintilla di tutta l’emozione che avrebbe dovuto provare. Poi pensò al viso di Rin e al suo sorriso, e al modo in cui respirava piano, al peso della sua nuca sulla pelle, al calore che gli trasmetteva la sua presenza: non era riuscito a disegnare tutto questo. Accartocciò il pezzo di carta con un gesto di stizza e ne prese un altro, testardo, decidendo di ricominciare da capo. Tratteggiò i muscoli, sfumò l’ombra proiettata dalla lampada sui capelli, riempì con la china i punti più scuri. Stilisticamente non c’era nulla da obiettare: era uno dei suoi disegni migliori. Ma non era Rin, non ancora, c’era qualcosa che continuava a sfuggirgli, e aveva l’impressione che gli sarebbe sfuggito per sempre. Era così concentrato in quel passatempo che era diventato una sfida da non accorgersi del leggero movimento che produsse il ragazzo mentre si svegliava e apriva gli occhi.

«Cosa fai?»

Haru sussultò, colto di sorpresa dalla sua voce ancora impastata dal sonno. «Niente.» borbottò, ma le guance già gli si stavano tingendo di rosso. Voltò il foglio per non fargli vedere il disegno quasi ultimato.

Rin si era appena svegliato e le sue capacità intellettuali erano ancora sopite, ma non gli sfuggì il suo gesto e con un sorriso furbo si puntellò con i gomiti sul pavimento, dove si era addormentato qualche ora prima; Haru era seduto accanto a lui, davanti al tavolino basso che usava per disegnare, ed era rimasto immobile tutto quel tempo per evitare di svegliarlo. Rin lo spinse via con un braccio e con l’altra mano girò di nuovo il foglio, ignorando le sue flebili proteste. Sgranò leggermente gli occhi quando vide lo schizzo a penna che Haru aveva cercato di nascondergli.

«Wow» mormorò, stupito. «Hai… disegnato me?»

«Mi stavo annoiando.» si schernì lui, ed era vero. Aveva cominciato quasi per gioco, quando si era accorto che Rin si era addormentato mentre guardavano un film. Allora aveva spento la televisione e l’aveva fissato per qualche secondo, chiedendosi se si sarebbe svegliato se avesse provato al alzarsi, ma poi aveva visto il torace lasciato scoperto dalla zip della felpa completamente abbassata, i fianchi abbracciati dai pantaloni della tuta, il viso di profilo  per una volta tanto privo del suo ghigno di sfida. La mano appoggiata sulla sua coscia, possessiva anche nel sonno, il petto che si alzava ed abbassava seguendo un ritmo che, incoscientemente, anche lui aveva fatto suo. È bellissimo, aveva pensato Haruka.

«È bellissimo.» disse Rin, sinceramente colpito.

«Non è ancora finito.» borbottò lui, schivo. «È solo uno schizzo. L’ho fatto tanto per fare.»

Il ragazzo gli restituì il foglio. «Allora finiscilo.»

Haru si voltò a guardarlo, cercando i suoi occhi per la prima volta da quando era stato scoperto in un momento tanto intimo. Si era sentito quasi violato da quella prepotente intrusione, forse perché, mentre disegnava, era talmente concentrato da entrare in un mondo solo suo. Dove Rin c’era, ma gli permetteva di studiarlo senza muoversi in continuazione per evitare il suo sguardo. Quando era sveglio era impossibile da capire; immortalato in un disegno, magari, avrebbe rivelato quello che Haru non era mai riuscito a capire di lui, ma doveva rimanere una cosa sua. Mostrargli come lo vedeva significava abbattere tutte le barriere che li rendevano due essere umani distinti, e non era molto sicuro di volerlo.

«Vuoi davvero che lo finisca?»

«Sì. Mi piace.»

Haru guardò lui e poi di nuovo il disegno. Come poteva piacergli qualcosa di così imperfetto? Avrebbe voluto dirgli che, se non si fosse svegliato, l’avrebbe già strappato in mille pezzi. Però sospirò e alzò gli occhi al cielo, fingendosi annoiato, e prese la penna in mano.

«Rimettiti come eri prima.» ordinò.

«Così va bene?»

«No. Cerca di essere più naturale. E chiudi gli occhi.»

Rin obbedì e lui ricominciò a disegnare. Dopo pochi istanti si fermò di nuovo, guardandolo storto. «Ti ho detto di chiudere gli occhi.» gli ricordò, notando che lo spiava da sotto le ciglia abbassate.

«Voglio guardarti mentre lo fai.»

«Mentre faccio cosa?»

«Mentre mi studi come un quadro in un museo.» ridacchiò per qualche secondo, poi smise di colpo. Tutto a un tratto i suoi occhi sembravano pieni di una tristezza amara e bruciante, che poche altre volte aveva incontrato. «Non mi guardi mai così.»

Haru ignorò volutamente il suo sguardo, macchiato da una lieve sfumatura d’accusa, e tornò a concentrarsi sul disegno, ma ormai gli tremava la mano e rischiò di rovinare l’ombreggiatura del torace con un tratto troppo deciso. «Perché non ti disegno mai.»

Rin si zittì per un po’, senza smettere di guardarlo, e non gli chiese perché avesse posato di nuovo la penna. Per qualche minuto non parlò più nessuno.

«Haru» disse poi, piano. «Ma tu sei felice?»

Haruka aspettava quella domanda da fin troppo tempo, da così tanto che in lui era penetrato un sottile astio verso Rin, che si era macchiato della colpa di non averglielo mai chiesto. Quell’astio si trasformò in un istante nel no che aveva intenzione di pronunciare, senza scuse né spiegazioni, e poi si scontrò con l’amore burrascoso che aveva imparato a provare per il suo ragazzo. Il suo ragazzo. Non l’aveva mai chiamato così. Non lo avrebbe mai fatto. Non sarebbe mai stato suo.

«Perché me lo chiedi?» decise di rispondere. Tanto qualunque cosa diversa da era un no e lo sapevano tutti e due. Scoprì che Rin se ne era accorto dal modo in cui sollevò la testa dalla sua coscia per guardarlo in faccia. Aveva imparato a conoscerlo bene, in quegli anni.

«Perché voglio saperlo.» mormorò. «C’è qualcosa che non va?»

Haruka si scrollò di dosso la mano che lo teneva per un lembo della felpa e si alzò in piedi. Si diresse verso la camera da letto con passo lento, cadenzato.

«Ti va di andare a mangiare qualcosa insieme? Magari a quel ristorante thailandese che ti piace tanto.»

L’unico modo che aveva trovato per cercare di trattenerlo. Se avesse scavato un po’ più a fondo in quei suoi occhi forzatamente allegri, magari avrebbe trovato qualche scintilla della disperazione che la voce tradiva. Invece tirò fuori il cellulare dalla tasca dei pantaloni.

«Sta per chiamare Makoto.» rispose, a mo’ di scusa, sebbene la sua voce non convincesse nemmeno lui. Il telefono squillò pochi secondi dopo, come a volergli dare ragione, e la porta della sua stanza che sbatteva, a chiuderlo fuori dal mondo che Makoto si scavava nella vita di Haru, risuonò nella testa di Rin per tutta il resto della serata.

˜°˜

Makoto telefonava ogni giorno, alla stessa ora. Non se ne dimenticava mai, ed era in perfetta sintonia con il quadro ideale che Haru aveva schematizzato nella propria testa per mettere a fuoco le poche certezze che aveva. Non c’era spazio per elaborate introspezioni psicologiche, quando doveva figurarsi i ruoli delle due persone più importanti della sua vita: lo sentiva d’istinto, sulla pelle, come una condizione naturale che si esternava automaticamente senza bisogno di pensarci. Makoto era il dolce dondolio dell’acqua che lo cullava, la sua colonna portante, le gambe su cui si reggeva; Rin era il maremoto che riusciva sempre a metterlo in discussione, che non lo rassicurava mai, anzi, lo riempiva di dubbi, era l’obiettivo che inseguiva da anni e che non avrebbe mai raggiunto. Uno lo faceva sentire bene con se stesso, l’altro gli faceva venire voglia di vivere.

«Cos’hai, stasera? Sembri strano. Sei preoccupato per qualcosa?»

Haru rimase in silenzio. Makoto se ne accorgeva sempre. Rin faceva caso a malapena ai suoi sbalzi d’umore, etichettandoli come la norma nelle “stranezze del suo caratteraccio”.

«Sai che puoi dirmi tutto.» lo incalzò il ragazzo dall’altro capo del telefono, ma la sua voce suonava dolce, accomodante, come se stesse cercando di addomesticarlo. Non cercava mai di persuaderlo a fare qualcosa che non voleva, si limitava a vivere secondo i suoi tempi, aspettando i momenti propizi e sorridendo ancora di più in quelli burrascosi.

Haru continuò a giocherellare con un filo che sporgeva da una cucitura della tuta, evitando di rispondere. Makoto era abituato ai suoi frequenti silenzi, tanto che non cercava nemmeno più di riempirli: spesso se ne stavano senza parlare per minuti interi, accontentandosi di sentirsi respirare a vicenda. Anche quando potevano vedersi tutti i giorni erano soliti passare delle ore in silenzio, dato che perfino le parole erano diventate inutili in un rapporto come il loro, dove bastava sfiorarsi, o semplicemente guardarsi negli occhi, per capire tutte le cose che non potevano essere dette. Da quando Haru si era trasferito con Rin in un’altra città, quella loro capacità di intendersi aveva solo subito un’evoluzione dettata dall’impossibilità di incontrarsi tanto spesso quanto prima.

«Haru…»

Il ragazzo sbuffò, tanto per fargli sapere che era ancora in linea.

«Ma tu sei felice?»

Quella domanda aveva tutto un altro sapore, ora che era pronunciata dalle labbra di Makoto. Tradiva una preoccupazione che Rin non si era dato la pena nemmeno di fingere – o almeno, così gli piaceva pensare. Perché ritenerlo egoista era il miglior modo per non sentirsi tale.

«No.»

No. E poi basta, perché con Makoto non serviva altro. Era con Rin che le parole non bastavano mai, non si sarebbero capiti nemmeno urlandosi contro tutto quello che non andava. Parlavano una lingua diversa, e non era poi tanto giusto, dato che stavano insieme, no? E poi, stavano davvero insieme? O condividere la casa, il letto, baciarsi e fare l’amore erano solo istinto?

«Puoi tornare quando vuoi, lo sai.»

«Non posso.»

«Non sei obbligato a rimanere lì.»

«Sì.»

«Haru… Rin non ti ha costretto. Hai deciso tu di andare con lui.»

Era vero, ma mancava il desiderio di ammetterlo. Quando Rin aveva comunicato che se ne sarebbe andato di nuovo, Haruka aveva pensato che sentire la mancanza di Makoto, Nagisa e Rei non sarebbe stato straziante quanto sopportare la lontananza da lui. Aveva pensato di aver bisogno di Rin più di quanto avesse bisogno di essere felice. Aveva pensato che, forse, un giorno sarebbe potuto esserlo davvero. Felice. E invece passava le giornate chiuso in casa, mentre Rin si allenava per le Olimpiadi. Non nuotava nemmeno più. E non litigavano nemmeno. Se almeno avessero avuto qualche diverbio, avrebbe avuto una scusa per andarsene. E invece no. E non aveva neanche voglia, di andarsene, perché in fondo era vero.

Aveva bisogno di Rin più di qualsiasi altra cosa.

«La vita è tua. Fa’ quello che ti pare.»

Silenzio. Un’occhiata frettolosa al check-in dell’aeroporto. Un’altra alla porta di uscita. Il freddo di gennaio che penetrava attraverso gli spiragli lasciati dalla sciarpa malamente avvolta attorno al collo.

«Senti, Haru, io non ti ho mai chiesto di farlo. Hai deciso tu di venire con me. Se cambi idea proprio adesso, io… non so cosa fare.»

I secondi scorrevano troppo in fretta mentre una voce chiamava il loro volo attraverso gli altoparlanti. Il biglietto pesava nella tasca della giacca come un macigno e il modo in cui Makoto lo aveva abbracciato la sera prima continuava a scaldargli il petto, sebbene fossero passate ormai ore. Spostò il peso da una gamba all’altra, tentennando, senza riuscire ad alzare lo sguardo dal pavimento.

«Se resti tu, resto anche io.»

Haruka alzò il capo quanto bastava per incrociare gli occhi di Rin. Non mentivano.

«Quando mi hai detto che saresti venuto, ho capito che non avrei avuto il coraggio di andarmene se non fosse stato così.»

«Haru? Sei ancora in linea?»

Il ragazzo si scostò a forza dai propri pensieri. Improvvisamente si era ricordato quello che lo aveva convinto a trasferirsi lontano dai suoi amici per seguire un sogno che non era nemmeno suo.

«Sì.» rispose, distratto. «Devo andare. Ci sentiamo domani.»

«Haru? Haru, aspetta!»

Ma lui aveva già riattaccato. Sì alzò in fretta dal letto per tornare in salotto, e una vivida sensazione di delusione gli si propagò in tutto il petto quando si accorse che era vuoto. Frenò lo slancio iniziale fino a camminare lentamente sul tappeto che Rin aveva voluto comprare a tutti i costi, sebbene a lui sembrasse orrendo, e si sedette a terra, davanti al tavolo dove ancora giaceva il suo disegno. Cercò qualcosa, un biglietto, un post-it, qualsiasi cosa che gli dicesse dove fosse andato a finire Rin. Niente.

Haruka era arrossito, a quelle parole, o forse era solo il freddo; non si era mai trovato a proprio agio con certe dichiarazioni e non sapeva nemmeno come rispondere. Però Rin aspettava che lui dicesse qualcosa.

«Va bene.» aveva sussurrato. E basta.

Poi lo aveva preso per mano e aveva camminato con lui verso il check-in.

Haru guardò il disegno ancora incompleto. Continuava a non piacergli, ma ora la prospettiva che ne aveva era del tutto diversa: poteva vedere quello che mancava, e si diede dello stupido perché non se ne era accorto prima. Era impossibile pensare a Rin senza includere nell’immagine anche se stesso. Potevano essere diversi, teoricamente incompatibili, potevano cozzare all’infinito senza trovare un punto d’incontro, ma alla fine erano comunque insieme. Nonostante tutto, era impensabile fare a meno l’uno dell’altro.

Recuperò la penna da sotto il tavolo e schizzò in pochi secondi le proprie dita intrecciate a quelle di Rin. Il dorso della mano, il polso, l’avambraccio; dal gomito in su il disegno finiva fuori dal foglio, ma non importava. Rin avrebbe capito di chi era quel braccio solo guardandolo. Completò l’opera proprio nel momento in cui la porta d’ingresso si apriva e si richiudeva dopo pochi secondi con un tonfo sordo.

«Ehi.»

Haruka alzò lo sguardo verso di lui e lo guardò avvicinarsi mentre si toglieva la giacca e l’appoggiava sullo schienale di una sedia.

«Ciao.» mormorò, piano, incerto su quello che dire. Scusarsi? Fare finta di nulla?

«Ho pensato di andare a prendere la cena.» alzò il braccio per mostrare la grossa busta da asporto con il logo del ristorante thailandese. Quello che piaceva tanto a Haru. «Hai fame?»

«Certo.»

Rin parve rassicurato da quelle parole e accennò un sorriso mentre passava in cucina a prendere le posate, per poi andare a sedersi sul tappeto accanto a lui.

«Ti va se mangiamo qui?»

«Okay.» si schiarì la gola, imbarazzato. «Ho finito il disegno.» buttò lì, mostrandoglielo.

Rin guardò prima lui, un po’ sorpreso, poi prese in mano il foglio che gli porgeva. Si lasciò sfuggire un sorriso quando notò la mano che ora stringeva quella del suo alterego d’inchiostro.

«È bellissimo.» ripeté, mentre si chinava su di lui per sfiorarlo con un bacio. Stava per allontanarsi quando Haru gli posò una mano dietro la nuca, trattenendolo contro le proprie labbra.

«Rin.»

«Cosa c’è?»

«Sono felice.»

Rin lo premiò con un altro sorriso. Più bello, più largo.

«Anche io.»

Ed era vero. Bastava solo un po’ d’amore.

   
 
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