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Autore: VictoryCandescence    27/10/2013    7 recensioni
John e Sherlock si incontrano per la prima volta da vecchi, nel Sussex.
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Mary Morstan, Sherlock Holmes
Note: AU, Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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Note della traduttrice: la storia originale la potete trovare qui, e se masticate un po' di inglese vi consiglio di leggerla direttamente in lingua, perché rende senza dubbio meglio. Se invece l'inglese vi è sciaguratamente indigesto, vorrei solo dire a mia discolpa che è la mia prima traduzione-- ho cercato di fare del mio meglio, ma mi rendo conto che ci sono comunque parti un po' mal oliate. Se trovate errori o imprecisioni, o se volete suggerirmi soluzioni che vi sembrano più adatte per determinate frasi, non esitate a segnararle e sappiate che ve ne sarò eternamente grata <3
Ora vi lascio alla lettura. Munitevi di fazzolettini, perché a me ha commosso un sacco e sospetto che potrebbe avere lo stesso effetto anche su alcuin di voi. <33

 

 

 

A BEGINNERS GUIDE TO APIOLOGY

 

 

Era un bel posticino, accogliente e caldo, buono per l'artrite nelle mani di John e per le vecchie giunture scricchiolanti delle sue spalle e delle sue ginocchia. Aveva finalmente terminato di spacchettare i pochi scatoloni che contenevano i rimasugli tangibili della sua vita, li aveva sistemati nel piccolo appartamento sopra al pub che aveva affittato con la sua modesta pensione e i suoi risparmi. La sua tazza dell'RAMC penzolava da uno dei ganci sopra lo scolapiatti, accanto al lavandino. La scatola contenente le sue vecchie uniformi era finita su una mensola dell'armadio in camera da letto. La sua pistola, conservata ben nascosta ed inutilizzata per tutti questi anni, era stata fatta scivolare fra mutande e canottiere in un cassetto del comò. Tre fotografie preferite incorniciate di lui e Mary, le piazzò sopra la mensola del caminetto.

La prima erano loro, giovani e ridenti, solo pochi mesi dall'inizio della loro relazione, su una spiaggia a Maiorca. Aveva ancora bisogno del suo bastone da passeggio, allora. Anche se non lo aveva in mano nella foto, poteva intuirlo dal modo in cui si appoggiava pesantemente contro Mary, dal modo in cui lei lo teneva stretto in vita, tanto un abbraccio quanto un sostegno.

La loro foto di nozze era un'altra storia. Si guardavano su uno sfondo di foglie autunnali, di un arancione e rosso brillanti. La schiena di John era dritta e le sue gambe forti, supportavano entrambi, lui e Mary, mentre la inclinava leggermente. Ricordava che l'attimo dopo quello in cui era stata scattata la foto l'aveva baciata, per bene e a fondo, per lunghi minuti, ma non c'era bisogno che ve lo dicesse, questo- l'espressione sui loro volti raccontava a chiunque guardasse la foto esattamente quello che era accaduto in seguito.

La terza foto era stata scattata appena prima che lei si ammalasse. Era il suo sessantesimo compleanno e lei stava indossando una stupida coroncina di plastica e reggendo on mano un cupcake infilzato da una candela. I suoi occhi erano chiusi, ma il suo sorriso era aperto e brillante, mentre si appoggiava contro il fianco di John sul divano di un amico. John aveva una goccia di glassa sul naso e un broncio comico, ma il malcelato amore nei suoi occhi per la donna che gli aveva appena spalmato in faccia la propria torta era evidente.

Era trascorso quasi un decennio dalla sua morte, e a lui continuava a mancare ogni giorno con un acutezza che non diminuiva mai. Aveva appena imparato come farci i conti. Sapeva che non avrebbe mai trovato nessuna da amare tanto quanto lei e non si era mai dato pena di tentare. Era soltanto grato di essere riuscito a spendere con lei il tempo che aveva fatto, che si fossero trovati nel grande, immenso mondo e che si fossero resi più felici che potevano nel tempo che avevano avuto.
Lo zoppichio di John era ricomparso dopo che lei se n'era andata, ma andava bene cosi. Era già sulla strada per diventare un uomo anziano allora in ogni caso e adesso, ovviamente, lo era senza dubbio divenuto. Mary aveva sempre parlato di trasferirsi in campagna una volta diventati vecchi, nonostante entrambi amassero Londra ferocemente. Sarebbe dovuta essere qui con lui, in effetti, e invece lui e qui da solo in suo onore, per il suo spirito. Pensò che avrebbe amato il Sussex.

Dunque eccolo qui.

Una settimana trascorse e John realizzò che forse la pacifica vita di campagna non era esattamente tutta la gran cosa che era spacciata per essere. Di certo non era come Londra. Ogni cosa sembrava chiudere non appena il sole calava. Le strade erano vuote, i negozi tutti serrati. Solo macchine solitarie attraversavano la strada ad intermittenza. Anche i rumori che filtravano dal pub al piano di sotto erano un mero mormorio tranquillo.

Nessuno veniva a trovarlo, naturalmente.

Harry, che aveva sempre risentito e detestato Mary per ragioni sconosciute, non parlava con lui da prima del matrimonio. L'ultima volta che aveva sentito di lei era alla sua terza moglie e viveva a Manchester. Tutti i suoi amici se ne erano andati o in alternativa erano troppo vecchi per andare in gita in Sussex a prendere una tazza di tè.

Dunque John, nella sua solitaria irrequietezza, aveva preso a passeggiare a tarda notte, godendosi la vista della città mentre tutti gli altri dormivano oltre le loro finestre oscurate. A volte si domandava se le persone parlassero di lui, quello strano vecchio che zoppicava in giro dopo mezzanotte, picchiettando i marciapiedi col suo bastone da passeggio come fosse metà pomeriggio. Decise in fretta che non gli importava. Che parlassero. Dio solo sa quanto avessero bisogno di un po' di pettegolezzi in quella cittadina.

All'inizio si limitava a camminare vicino al centro della città, dove c'erano ancora lampioni. Presto la noia lo spinse ad essere più audace e a prendere una torcia con sé, lungo le strade buie che conducevano al limitare della città, dove era tutto un irregolare estendersi di manieri e cottage isolati, con acri di trifoglio nel mezzo.

Un cottage in particolare sembrava diverso da tutti gli altri. Mentre gli altri erano perfettamente progettati e curati al punto da risultare dolorosamente pittoreschi, questo era coperto di rampicanti, fiori brulicavano nel giardino dall'erba alta, funghi e muschi  foderavano il lastricato di pietra che conduceva alla porta, dove altri avrebbero avuto magnolie. John se ne stava a guardarlo nell'aria notturna, domandandosi se fosse, in effetti, ancora abitato, quando al suo quesito risposero un rumore come di schianto e una voce eccitata che urlò trionfanti improperi. Una luce si accese alla finestra del pianoterra e una lunga ombra la attraversò. John lo prese come un suggerimento ad andarsene, prima di essere scoperto imbambolato davanti al cancello principale. Ma la sua curiosità fece in modo di farlo ritornare.

Due notti dopo si ritrovò nuovamente davanti al cottage. Non ci furono schianti o imprecazioni, questa volta. Nemmeno nessuna luce accesa, ma dopo un momento John senti una musica provenire da qualche parte, probabilmente il giardino sul retro. Musica di violino, delicata e dolce e magari un pochino triste. John realizzò che stava trattenendo il fiato per sentire meglio. Lo lasciò fuori tutto in un lungo, malinconico sospiro. Si sedette sul muretto basso del giardino davanti e ascoltò. Dopo qualche tempo - John non sapeva dire quanto, e non gli importava - la musica sbiadì. John si alzò e camminò di nuovo fino a casa. La musica rimase dentro la sua testa, una quieta melodia, per la maggior parte della settimana successiva.

***

«Dimmi Joel. Sai niente di quello strano cottage giù lungo la strada settentrionale che va verso Edimburgo?» chiese John al proprietario del suo vicino pub un pomeriggio, mentre mangiava il pranzo. Joel mise giù il bicchiere che stava pulendo e si sporse sopra al bancone, pensieroso.

«Intendi quello che sembra tutto un casino, con le api?»

«Sì. Aspetta, ci sono delle api?» disse John. Oh, naturalmente-- ecco ciò a cui dovevano servire tutte quelle strane cassette nel giardino sul retro. Le aveva viste una notte, dopo la notte in cui aveva sentito la musica. Tutto era tranquillo, anche se c'era una luce accesa in una delle camere al piano di sopra. Aveva visto una figura passeggiare avanti e indietro oltre le tende. La curiosità aveva avuto la meglio su di lui, dunque si era sporto oltre al muro per vedere il giardino sul retro, ed era rimasto confuso dalle file di cassette bianche che lì aveva scorto.

«Oh, sì. Ci vive un vecchio pazzo e strambo là, studia le api. Vende il miele a volte-- Anna dice che giura che con quello ci vengono le migliori focaccine al miele e io sono incline a concordare. Oi, Anna!»

«Sì, amore?» la testa di riccioli rossi di Anna fece capolino dalla porta della cucina.

«Il dottor Watson vuole sapere il nome di quel tipo, quello del miele.»

«Oh, è il signor Holmes,» disse lei, guardando John ed avvicinandosi, asciugandosi le mani sul grembiule. «Ooh, è uno cattivo. Ma il suo miele è il migliore che abbia mai avuto.»

«Uno un po' stravagante, mi par di capire» disse John, con un sorrisetto.

«Stravagante è essere buoni. A me vende, va bene, ma solo quando si sente inclinato a farlo e non a nessuno con cui decide di non voler avere a che fare. Fa bene al fatturato delle mia focacce però, siccome sono l'unica a cui vende regolarmente. Dovresti provare a procurartene un po'. Fidati, vale la scontrosità, se ci riesci.»

«Non posso semplicemente arrivare alla sua porta e chiedere, no?» disse John, anche se a dire il vero, il pensiero gli aveva attraversato la mente una o due volte prima, di bussare alla porta dell'unica altra persona in quella città che pareva non dormire la notte.

«È l'unico modo per farlo,» rispose Anna. «Dice che non ha il telefono, e in città ci viene a malapena. Non si sa mai, potresti piacergli. Faccia nuova e tutto il resto.»

«Sì,» disse John, considerandola una sfida amichevole. «Va bene. Se ce la faccio, prenderò uno o due barattoli extra per te.»

«Dio ti benedica, Doc,» disse Anna. Gli strinse il braccio e lo abbagliò con un sorriso mentre tornava in cucina. Joel era un uomo fortunato ad aver trovato qualcuno di così dolce e Joel gli aveva detto altrettanto. Gli faceva mancare Mary, ma leniva il dolore sapere che altre persone avevano ancora la possibilità di amarsi quando avevano fatto loro e, sperava sempre, anche ugualmente a lungo.

***

Il cottage appariva molto diverso di giorno. John poteva vedere che c'era in realtà una logica nel modo in cui i rampicanti strisciavano su per il muro esterno del cottage, e la sovrabbondanza di fiori selvatici aveva molto più senso ora che sapeva della api. Osservò anche che i funghi su entrambi i lati del sentiero che conduceva alla porta parevano essere raggruppati per tipo, così come a ciò tendevano anche le aiuole. Tutto intorno a lui poteva sentire il debole ronzio della api impegnate nel loro lavoro in quella giornata nuvolosa, eppure tiepida.

John arrivò alla porta, sulla quale trovò una piccola placca di ottone su cui era scritto S. Holmes. Sollevò una mano sicura per bussare, ma la porta scivolò via dalle sue nocche, lasciando il suo pugno a precipitare nell'aria. Guardò su, sorpreso. Sulla porta c'era un uomo molto alto e molto magro, con indosso un cipiglio molto pronunciato. I suoi riccioli scuri erano generosamente striati d'argento ed i suoi occhi grigi come il cielo ed affilati come coltelli.

Colpiva la sua figura decisamente imponente, vestita con un abito nero confezionato perfettamente su misura, sarebbe stata abbastanza spaventosa, se John fosse stato il tipo d'uomo che si lascia intimidire, cosa che non era.

«Buon pomeriggio, signor Holmes. Io--»

«Afghanistan o Iraq?»

John si congelò, la mano che aveva offerto si afflosciò di nuovo al suo fianco. La mano attorno alla maniglia del suo bastone da passeggiò si aggrappò con più forza.

«Scusi, come? Ero qui solo per chiederle del--»

«Non eri qui per chiedermi del miele. Quello era tutto soltanto un pretesto. Ora dimmi, ho bisogno di sapere. Afghanistan o Iraq?»

«Afghanistan. Scusi, ma come--»

«Il tuo portamento, il tono di comando nelle tue parole, le tue maniere, tutto dice militare. Al tempo in cui saresti stato giovane abbastanza da servire nell'esercito, eravamo ancora invischiati in Medio Oriente. Per non parlare del fatto che hai passato le scorse due settimane ad esplorare casa mia come se si trattasse di una dannata missione di ricognizione, ma a questo ci arriveremo dopo. Entra in fretta. L'acqua ha appena bollito.»

L'uomo piroettò sul posto e marciò via per la casa, lasciando John sulla soglia spalancata.

John rimase momentaneamente stordito, ma poi tornò in se stesso. Camminò appena dentro e si chiuse la porta alle spalle. Il salotto in cui si ritrovò era un vero e proprio covo di oggetti curiosi. Esemplari entomologici infilzati sotto vetro e riproduzioni anatomiche appese alle pareti, assieme a tabelle e grafici, il tutto dominato da una disordinata mappa di Londra, maculata da puntine ed imbastita di note che ondeggiavano come piccole bandiere nella brezza che proveniva dalla finestra aperta. Un computer portatile era nascosto su una scrivania in un angolo, faceva capolino da sotto una pila di giornali. Mucchi di libri erano ovunque, straripati dagli scaffali in piccole catene montuose lungo tavoli e pavimenti. Sulla mensola del camino, un coltello trafiggeva una spessa pila di lettere, e uno scheletro umano sbirciava con curiosità verso di lui, dal suo posto là in cima. La stanza era piena, ma era un tipo di caos organizzato, e John aveva come l'impressione che l'uomo avrebbe potuto trovare qualsiasi cosa lì dentro in secondi, se ce ne fosse stato bisogno.

«Sono qui, signor...» l'uomo riapparse sulla soglia che conduceva alla cucina, tenendo in una mano un piatto coperto e un portaprovette nell'altra. «Com'era ancora?»

«John Watson. In realtà è--»

«Dottore! Ugh!» disse l'uomo, prima che John potesse dirlo da sé. Ruotò gli occhi frustrato, appoggiando le provette. Estrasse un paio di occhiali senza montatura dal taschino e da oltre essi si mise a strizzare aggressivamente gli occhi verso John. «Naturalmente! Medico generico per circa trent'anni, RAMC e pronto soccorso prima. Le tue unghie e il tuo palmo sinistro praticamente lo gridano. Come ho potuto non notarlo? Oh, sto davvero diventando vecchio.» si tolse gli occhiali e scosse la testa nella loro direzione, come se fosse loro la colpa.

John era più completamente confuso di quanto non fosse mai stato. E, osservò con interesse, colpito e più che un po' intrigato.

«Non ho afferrato il suo nome di battesimo, a dire il vero,» ammise John, navigando con attenzione il canyon di libri fino alla cucina, assicurandosi che il suo bastone non scombussolasse nulla.

«Il nome è Sherlock Holmes. Siedi. Tè.»

John si sedette, e prese la tazza che Sherlock gli stava offrendo. Era evidente che fosse, probabilmente, solo tanto quanto John, e dallo stato della cucina (che più che altro assomigliava ad un laboratorio) e dal fatto che avesse tralasciato di usare un qualsiasi tipo di parola cortese quando lo aveva invitato, di certo non era abituato ad avere visitatori.

«Dunque,» disse brusco Sherlock. «Esattamente cos'è che fai nei tuoi soggiorni notturni attorno alla mia casa e al mio guardino?»

«Io, err,» John guardò in basso, nel suo tè, improvvisamente imbarazzato. «Chiedo scusa. Non credevo che lo avesse notato. Non avevo cattive intenzioni.»

«Be', ovviamente. Che tipo di minaccia potrebbe rappresentare per me un ottuagenario con l'artrite cronica ed una trascurata zoppia psicosomatica? E lascia che ti dica, solo per la cronaca, è molto poco quello che non noto.»

«Appena prima non ha colto che ero un dottore» disse beffardo John, che non volle lasciarsi sfuggire l'occasione di canzonare quello strano vecchio allegramente maleducato. Sherlock apparve indignato, ma i suoi occhi erano brillanti.

«Ho detto molto poco, Dottore. Ma fino ad ora ho sbagliato qualcosa?»

«Onestamente, no. Come fa a farlo, comunque? Vedere tutte quelle cose solo guardando?»

«Io non vedo, osservo. Ho passato la maggior parte della mia vita facendo onore al mio talento come consulente investigativo. Fino a circa un decennio fa ho lavorato a Londra con la polizia. Quando la polizia non sapeva cosa fare, come succedeva spesso, veniva da me.»

«Un consulente investigativo?» domandò John, il divertimento era stato rapidamente scavalcato dalla confusione. «Non ho mai sentito di un lavoro simile.»

«Così come non avresti dovuto. Ero l'unico nel mondo.»

«Hm. Straordinario.» disse John, e lo credeva davvero.

L'uomo gonfiò il petto e prese un compiaciuto sorso di tè. John pensò di poter vedere un vago rossore salire alle sue guance, il ché era a modo suo divertente.

«Vede, mi annoio,» continuò John «Ecco perché cammino di notte. Qualcosa da fare. Sembra un po' rischioso, sa? Eccitante. Anche se so che il rischio più grande qua fuori è inciampare in una pecora che si è persa. In ogni caso, l'ho sentita. Fare chiasso ed imprecare, e suonare il violino.»

«Mi hai sentito suonare?»

«Oh sì. È stato molto bello.»

Il rossore sulle gote di Sherlock era inconfondibile, ora.

«In ogni caso,» continuò, John, «Ero curioso. Anna e Joel che gestiscono The Blind Cat mi hanno detto che vende miele. Allora sono venuto qui, credo, con l'intenzione di ficcare un po' il naso.»

«Sincero coi tuoi peccati, lo apprezzo.» disse Sherlock. John vide la sua bocca contrarsi all'insù da un lato, il primo suggerimento di sorriso che aveva visto da quando era entrato. «Mi spiace deluderti, ma non c'è molto in cui puoi ficcare il naso. Tutti miei giorni interessanti ormai li ho alle spalle. Adesso tutto quello che mi rimane da fare è aspettare la fine, leggere i miei libri e badare alle mie api. Per ricambiare il favore della tua spassionata sincerità, non avevo previsto di riuscire a sopravvivere fino a questo punto della mi vita.»

«Nemmeno io,» disse John.

Entrambi sorseggiarono il loro tè, lasciando che un silenzio pesante cadesse fra loro. John picchiettò il bastone da passeggio contro al suo ginocchio. Sherlock sbriciolò un biscotto fra due lunghe dita.

«Allora,» disse John, volendo spezzare l'ombrosità, «Perché api?»

«Ah!» John guardò il viso di Sherlock illuminarsi di nuovo. «Be', le api sono nobili creature. E così fraintese. Confesso di essere un po' infatuato del paradosso per cui cosine che possono essere così violente, siano in grado di produrre vaste quantità della più dolce sostanza che lingua umana abbia mai toccato.» Sherlock si alzò dal tavolo e fece segno a John di seguirlo fuori in giardino attraverso la porta sul retro.

«La più dolce sostanza che lingua umana abbia mai toccato, eh? Me ne vengono in mente un paio di altre» disse John a mezza voce.

«Dottor Watson, era forse un tentativo di grossolano doppio senso?» disse Sherlock da sopra la sua spalla, ma John vide un sorriso nelle rughe attorno ai suoi occhi. Fu il turno di John di arrossire.

«Che posso dire, sono diventato un vecchio sporcaccione.»

Sherlock si voltò per fronteggiarlo ancora. Stava tenendo in mano uno strano aggeggio di metallo che assomigliava ad un incrocio fra un mantice ed un contenitore di olio. L'occhiata che diede a John fu lunga e calcolatrice.

«No,» disse in fine. «Sei sempre stato un brav'uomo. Hai avuto amanti a suo tempo, ma quando hai trovato la tua defunta moglie, lei è stata la più grande, e l'ultima.»

John rimase stordito per la seconda volta quel giorno. «È come se mi leggessi come un libro. È così ovvio?»

«Per me lo è, perché è scritto su di te in un linguaggio che soltanto io mi sono addestrato a leggere.» Fece un passo indietro e i suoi occhi saettarono di lato. «Io... dovrei scusarmi, non è così? Per essere troppo sfrontato. Tempo che non mi sia mai interessato il corretto protocollo da seguire quando si parla di interazioni sociali di cortesia.»

John si ritrovò a sorridere. «Questo lo avevo già capito. Ma no. Non occorre nessuna scusa.»

Sherlock inclinò la testa, come se quello non fosse ciò che si era aspettato di sentire. Poi annuì. «D'accordo. Be'. Hai paura di essere punto?»

«Non particolarmente. Dovrei averne?»

«Oh, sì.» disse Sherlock, e John fu costretto a ridere. «Ma questo dovrebbe risparmiarti la parte peggiore.» disse, brandendo l'aggeggio metallico. «Il fumo le rende mansuete, il che ci permetterà di dare una sbirciata senza essere infastiditi.»

Sherlock creò attorno a loro una nube di fumo acre piuttosto formidabile, e John seguì Sherlock da vicino. Quello scelse una cassa, le levò il coperchio e dal suo interno fece scivolare verso l'alto un pannello. John guardò affascinato i coaguli di di piccole api ronzanti vagare sul pannello, vide le perfette formazioni esagonali dei favi, intravide anche un poco di miele gocciolare giù.

«Bellissime, non è così?» disse Sherlock. «Osservo queste piccole bande lavoratrici come un tempo osservavo il mondo criminale di Londra. È impressionate quanto appaiano simili, a volte.»

«Davvero,» disse John. «Mi piacerebbe sentire anche di quello, qualche volta.»

Sherlock rimise la cornice al suo posto nella cassa e riposizionò il coperchio, prima di tornare a guardare John.

«Ti piacerebbe davvero?» chiese.

«Oh, sì.»

«Tornerai... tornerai ancora a farmi visita?»

«Certo,» disse John sorridendo ancora allo sguardo di eccitazione a malapena dissimulata sul volto di Sherlock. «Non serve a nulla essere soli entrambi.»

«Per contro, a me dovrebbe piacere sentire del tuo tempo nell'esercito, se non ti dà fastidio parlarne. Magari potresti iniziare con la storia di come ti hanno sparato alla spalla e andare a ritroso da lì.»

John lo fissò di nuovo.

«Dannazione, l'ho fatto ancora, non è così?» disse Sherlock, sbattendo l'affumicatore sulla panca vicino alla porta sul retro.

«Continuo a non capire come fa a sapere tutto questo, ma le dirò una cosa» disse, sorprendendosi un po'. «È passato molto tempo da che ho raccontato una storia sulla guerra, ma suppongo che valgano la pena di essere raccontate.»

Sherlock tornò a fissare John. «So già che valgono la pena di essere ascoltate.»

John guardò su, al cielo sopra gli alberi che ondeggiavano dolcemente, alle nubi che si rabbuiavano a ritmo costante, «Meglio che torni, prima che cominci a piovere» disse.

«Passa di nuovo domani, se non hai niente da fare. Alla stessa ora?»

«Sì. Ci sarò.»

Sherlock accompagnò John in casa fino alla porta principale.

«Oh! Un ultima cosa.»

Sherlock sparì di nuovo in cucina. John udì un po' di frastuono, poi Sherlock tornò portando fra le braccia quattro barattoli di miele ambrato e un sacchetto di tela.

«Porta questo alla signora Anna; so che li ha chiesti,» con cautela, sistemò i barattoli nel sacchetto. «Tieni questo per te. Per favore, considerali un regalo. Ho un sacco di altri sciocchi disposti a pagare per quello che non hanno l'esperienza o la pazienza di procurarsi gratuitamente.»

«Grazie,» disse John. «Ti piace Anna, ma nessun altro, a quanto pare. Perché?»

Sherlock sospirò. «Mi ricorda una ragazza che conoscevo. Molto dolce nei miei confronti, ma io l'ho sempre trattata senza gentilezza. È una sorta di futile penitenza in ritardo, suppongo.»

«Be', lei sa che non sei così male quanto ti impegni ad apparire,» disse John. «Ed ora lo so anche io.»

«Come me lo lascerò mai alle spalle?» disse Sherlock, e John lo vide sorridere apertamente, questa volta, ampio e sincero.

«Ci vediamo domani, allora» disse John, prese il sacchetto di miele e se ne andò. La camminata verso casa fu piacevole, ed anche se finì per bagnarsi un po', non essendo stato abbastanza veloce da battere la pioggia, si sentiva caldo e felice per la prima volta da quando si era trasferito nel Sussex.

«Mi sono fatto un amico oggi, credo, Mary,» disse ad alta voce più tardi quella sera. Aprì il barattolo di miele con il suo congegno apriscatole e ne mescolò una generosa cucchiaiata al suo tè della sera. «Il primo dopo un lungo tempo. Un tipo strano, ma a me sono sempre piaciuti i tipi strani, non è vero?»

Il tè sapeva di ciò di cui odora un campo in primavera, tutto erba e trifoglio e brezza pulita. Non eccessivamente dolce o fiorito, ma pieno e quasi terroso. John lo assaporò per bene, e andò a letto quella notte sorridendo ancora.

***

Il giorno seguente era soleggiato e tiepido, l'odore di terra bagnata che si asciugava gli riempiva il naso mentre camminava senza fretta lungo la strada. Qualcosa gli diceva che avrebbe fatto bene a salvare le sue energie per la sua visita a Sherlock. L'uomo poteva anche essere anziano quasi quanto lui, ma era ancora arzillo come se fosse stato più giovane di tre o quattro decadi. Era come se si sottraesse alle regole dell'invecchiamento, così come si sottraeva alle regole delle convenzioni sociali. John avrebbe voluto essere ancora così agile.

Lo avrebbe voluto il doppio un'ora più tardi, mentre correva via più veloce che poteva da uno sciame d'api accidentalmente inferocito. (Quando hai ottant'anni, comunque, ''correre'' è un termine relativo.) Sherlock aveva arruolato il suo aiuto per raccogliere il miele da un alveare particolarmente pieno, ed aveva accidentalmente rovesciato il suo secchio di raccolta, che a sua volta aveva fatto cadere il bastone di John, che aveva battuto con notevole forza contro il lato dell'alveare, mandando le api in un panico che nemmeno la nuvola di fumo aveva potuto placare. Fortunatamente, oggi Sherlock aveva insistito sulla precauzione di lunghi guanti di tela, grembiuli da lavoro e cappelli dalla falda larga e l'aspetto buffo drappeggiati di rete per entrambi. Presto sfuggirono alle api, ma non prima di essere caduti oltre il muro del giardino, aver saltellato fra un folto cespuglio di trifoglio, aver zigzagato fra un gruppo di ispidi olmi e di essere finalmente finiti appiattiti a pancia in giù in un ruscello. John era senza fiato, bagnato e punteggiato di pizzichi.

Come se non bastasse, il ventre gli faceva male per aver riso così forte.

Sherlock si aggrappò a lui, preda ugualmente impotente di una crisi isterica ed insieme riuscirono a tirarsi a sedere, ancora nel ruscello.

«Sei un pazzo,» ansimò John.

«Sono un genio» sbuffò di rimando Sherlock . «Ti sei dimenticato il tuo bastone.»

John guardò in basso e intorno a sé, smuovendo l'acqua come se quello avesse dovuto arrivare da lui nuotando. Sherlock si limitò a ridere più forte. John tornò a guardarlo, e Sherlock era raggiante. Assolutamente raggiante per John, come se lui fosse la cosa più fantastica, straordinaria, affascinante che Sherlock avesse mai visto. Si tirarono su e fuori dal fango bagnato e si arrampicarono lungo la riva e di nuovo verso il cottage.

La gamba di John non gli faceva male per nulla.

Aveva lasciato il suo bastone nel giardino, perso nell'erba alta.

Sherlock si cambiò e preparò il tè. Prestò a John una delle sue vestaglie, mentre i suoi vestiti si asciugavano vicino al fuoco. Era una bella veste, più lussuosa di qualsiasi cosa John avesse mai posseduto, fatta di una seta a righe blu che sembrava come acqua calda contro alla sua pelle.

Si sistemarono nelle poltrone spaiate di Sherlock e presero il loro tè.

Dopo un po', Sherlock si sporse in avanti e parlò, gli occhi che scintillavano. «Ti piacerebbe sentire della volta in cui mi sono intrufolato in una base di sicurezza militare segreta per venire a capo di un omicidio irrisolto commesso in circostanze apparentemente sovrannaturali?»

«Oh dio sì,» disse John, sapendo che i suoi occhi erano altrettanto brillanti.

John si ricordò dell'ora solo quando gettò uno sguardo fuori dalla finestra e vide il sole arancione incandescente, inabissarsi oltre l'orizzonte.

«È meglio che vada, allora.»

Sherlock annuì, anche se appariva un po' deluso. John sapeva che avrebbe parlato tutta la notte, e John glielo avrebbe lasciato fare se non fosse stato così stanco.

«Domani?» chiese Sherlock, un po' incerto, quando John riemerse dal bagno dopo essersi cambiato di nuovo nei suoi vestiti, ora solo leggermente umidi.

«Sì.» John non esitò nemmeno.

Ancora una volta Sherock lo fermò sulla porta e sparì da qualche parte nel caotico, piccolo cottage. Tornò brandendo un barattolo di unguento dorato.

«Per le punture,» spiegò, e spinse verso l'alto la manica di John, esponendo un piccolo pizzico rosso e infiammato. Sherlock immerse due dita eleganti nell'unguento e lo applicò, spalmandolo completamente usando tutto il suo palmo. John non poté fare a meno di sospirare. Sherlock si fermò. Naturalmente l'aveva notato.

«Scusa,» disse John. «È... passato molto tempo da che qualcuno mi ha toccato.» Fece una smorfia, nell'udire quanto imbarazzante ciò suonasse. «Mi dispiace, non avrei dovuto dirlo come se-- »

Ma Sherlock si limitò ad immergere di nuovo le dita e a premerle su una puntura sul lato del collo di John, senza mai interrompere il contatto visivo. La massaggiò usando movimenti lenti e deliberati, e fu una sensazione paradisiaca. La menta fresca dell'unguento, combinata al calore del palmo di Sherlock fece sporgere involontariamente John verso il contatto, ed i suoi occhi si chiusero per un momento.

Poi la mano di Sherlock lo lasciò. John si raddrizzò e si schiarì la gola.

«Grazie,» disse, sperando di non suonare così stranamente turbato, quanto si sentiva.

Sherlock premette il barattolo nel palmo di John. «Tienilo. Ne ho centinaia. Lo preparo io; è utile per molte cose.» il tono di Sherlock era disinvolto, ma John notò che non stava più incontrando i suoi occhi.

«Buonanotte, Sherlock,» disse John, camminando sul lastricato, verso la strada, schiena dritta, nessuno zoppichio.

«Arriva bene a casa, John,» rispose Sherlock.

John si mise il barattolo intasca, ma ci tenne sopra una mano. Era ancora tiepido per essere stato tenuto da Sherlock, e John non lo lasciò andare finché quel calore non sgocciolò via e tutto quello che rimase fu il proprio. Quando finalmente arrivò a casa, John era troppo stanco per fare il tè, ma prese ugualmente una cucchiaiata del miele di Sherlock. Il sapore era un po' diverso, questa volta, più dolce e più fumoso, con una traccia di menta. John pulì il cucchiaio leccandolo e si addormentò con le ultime briciole di dolcezza ancora aggrappate alle labbra.

***

Continuarono a vedersi quasi ogni giorno, per settimane che presto si trasformarono in mesi. John si addentrò nel bosco con Sherlock, a caccia di finferi e strane foglie preziose. Passarono molti bei pomeriggi di fine estate sul fianco di una collina che sovrastava la valle nella conca della quale era cullata la città vicina. Le chiare notti d'autunno li sorpresero stretti assieme sotto pile di coperte, mentre John tracciava per Sherlock la forma delle stelle, insegnandogli i nomi che non aveva mai saputo avessero. John continuava ad aiutare con le api, e anche con gli esperimenti e ad inventare nuove ricette in cui usare il miele. Quando John riusciva a persuaderlo, Sherlock lo seguiva in città. Pranzavano e passavano il pomeriggio su una panchina nel piccolo parco, John a meravigliarsi di Sherlock, mentre lui raccontava i pettegolezzi cittadini che ricavava da cose come i graffi sulle borse e l'usura delle maniche dei cappotti. Per tutto il tempo si scambiarono storie, racconti eccitanti di vite lunghe e ben vissute, lezioni imparate da grandi errori, e presto i più profondi segreti e rimpianti che avevano portato nell'oscurità delle loro menti.

Aveva solo diciotto anni e le mie mani erano dentro di lui mentre moriva, si era strozzato John. O: non ho mai avuto la possibilità di dirle ancora quando fosse bella; per me non è mai cambiata.

Più tardi ho scoperto che non gli avevo fatto niente, ma l'incertezza della perdita di sensi mi spaventò più di ogni cosa nella mia vita, aveva detto Sherlock con voce sommessa. E: lui è sempre stato buono con me, mi ha sempre protetto, e non una volta che io l'abbia ringraziato in modo diretto.

In notti come quelle, abbandonavano le poltrone e sedevano insieme sul divano, senza toccarsi, ma vicini abbastanza da percepire la prossimità dell'altro.

***

«Oddio, guarda che disastro,» disse Sherlock, guardando verso la finestra. Il tempo gli era sfuggito di nuovo, sembrava.

«Dannazione, quando è successo?» John si alzò per poter guardare meglio fuori; Sherlock lo seguì, fino ad arrivare dietro di lui per sbirciare fuori dalla piccola finestra, sopra alla spalla di John.

«A giudicare dalla dimensione dei fiocchi e dalla velocità della nevicata, direi che sta cadendo dalle quattro e mezzo.»

«Come riuscirò ad arrancare fino a casa là in mezzo?» grugnì John e si passò una mano sulla fronte.

«John, non prendere nemmeno in considerazione l'idea! Le tue dita dei piedi saranno nere per il freddo ancora prima di arrivare al ponte.»

«Be', cosa dovrei fare, non ho nessuno da chiamare per un passaggio a quest'ora, e poi--»

«Resta,» disse Sherlock.

John si allontanò dalla finestra e lo guardò.

«Sì, be', suppongo che potrei schiacciare un pisolino sul divano, date le circostanze. Meglio che congelare--»

«Non dire sciocchezze. Con la tua spalla e la tua artrite? Non riusciresti più a muoverti per una settimana. No. Prendi il letto.»

«E lasciare te a dormire sul tuo stesso divano come un ospite? Certo che no.»

«Io non dormirò. Ne ho bisogno a malapena. Ho quell'esperimento coi funghi che potrei--»

Questa volta fu il turno di John di interrompere Sherlock. «Potremmo stare tutti e due nel letto. È matrimoniale?»

Sherlock esitò, poi annuì.

«Bene, allora. È deciso.» disse John, sentendosi un po' trionfante per aver vinto una discussione contro Sherlock. Ma Sherlock appariva preoccupato. Si era avvicinato alla mensola del caminetto e stava facendo correre un dito lungo il perimetro della sutura coronalis del teschio.

«Qual è il problema?» chiese John.

«Hm? No, nulla. Nulla.»

John lo fissò con uno sguardo.

Quando Sherlock realizzò che John aveva deciso di essere testardo, cedette.

«Va bene,» disse, lanciando le mani nell'aria e ruotando gli occhi, prima di accasciarsi pesantemente sulla sua poltrona. «Non ho mai dormito con nessuno prima.»

John non riuscì a nascondere il sorriso che gli si diffuse sul volto.

«Sherlock, la tua virtù è salva. Non cercherò di fare niente di strano, sono troppo vecchio per quelle cose ormai.»

«Non è quello che intendevo!» protestò Sherlock, sedendo dritto come una canna, prima di appassire di nuovo e piegarsi sulle ginocchia. «Intendevo che non ho mai condiviso un letto con nessuno a qualsiasi titolo – platonico, sessuale o altro – per l'intera notte. C'è-- c'è un qualche protocollo? Sai che non sono il più ferrato in questo genere di cose.»

John stava ridendo apertamente ora, ma Sherlock sembrava sempre più serio. Il vecchio protesta troppo, pensò John.

«Da quand'è che ti interessi di un qualsiasi tipo di protocollo? Ci stai pensando troppo, Sherlock. Tutto quello che faremo è sdraiarci l'uno accanto all'altro e addormentarci. Al mattino chiamerò Anna e le chiederò se non le dispiace passarmi a prendere. Ecco tutto.»

Il broncio di Sherlock si ammorbidì, ma lui si premette le dita congiunte contro le labbra. «E se ti calcio?» chiese.

«Ti calcerò a mia volta.»

«Non è molto carino.»

«Allora non calciarmi!» John non si sentiva allo stesso tempo così leggero e così stanco da molto. Aveva appena iniziato a realizzare quanto si fosse fatto tardi.

«Ritiriamoci. Prometto di non calciarti se tu non mi calci, va bene? Andiamo adesso, si sta facendo freddo qua giù.»

Sherlock guidò John su per le scale fino alla sua camera. John fu genuinamente sorpreso di scoprire quanto spoglia ed ordinata fosse, paragonata al resto del cottage. Solo un grande letto, un armadio, due scaffali e una cassettiera che sembrava il catalogo a schede di una biblioteca vecchio stile.

«Che cos'è quello?» chiese John, additando il catalogo a schede mentre indossava la maglietta e i pantaloni del pigiama che gli erano stati prestati. Sherlock tenne il suo sguardo accuratamente lontano mentre l'altro si cambiava, guardando dall'altro lato. John si dimenticava spesso lui stesso dei protocolli della modestia, essendo prima stato nell'esercito ed essendo vissuto poi con una moglie che preferiva languire nuda per la casa. «Sono vestito, puoi guardare,» aggiunse.

Sherlock si voltò finalmente per vedere a cosa John stesse indicando.

«Oh. Indice dei calzini,» disse Sherlock, con quel tono che John aveva imparato conoscere come quello che significava queste sono tutte le spiegazioni che ti servono.

«È una buona cosa che non vivo davvero con te,» disse John.

«E come mai?» disse Sherlock, inarcando un sopracciglio in confusione e vaga offesa.

«Non credo che sarei in grado di capire il modo in cui tieni la casa.»

Sherlock sorrise. «Stai presupponendo che ci sia una logica nella follia.»

«E c'è?»

«Non una che saresti mai in grado di comprendere.»

Si arrampicarono sul letto dopo una frettolosa trattativa per stabilire quale lato ognuno di loro avrebbe occupato. Sherlock si sdraiò sulla schiena e tirò si le coperte fin sotto al mento. John si sistemò su un fianco, rivoltò dall'altro lato rispetto a Sherlock, con un generoso spazio fra loro, così Sherlock non si sarebbe sentito più imbarazzato di quanto già non facesse.

«Allora hai davvero dormito per tutti questi anni con un altro corpo nel tuo letto?» disse Sherlock, dopo qualche attimo di silenzio.

John si girò sulla schiena e guardò il profilo affilato del suo amico nell'oscurità, l'unica luce il riflesso argentato della luna sulla neve, attraverso la finestra.

«Sì. In verità trovo di aver sempre avuto la tendenza a dormire meglio quando c'è qualcuno vicino a me.» John si sentiva schietto, quindi corse il rischio di provare se Sherlock si sentisse altrettanto. «Dici di non aver mai dormito con nessuno, ma sicuramente hai... sai, dormito con qualcuno, giusto?»

«Ho avuto qualche amante, nessuno dei quali è stato un compagno di letto particolarmente longevo o ben assortito,» disse Sherlock. «E tu cosa mi dici, prima di Mary?»

« Ho avuto la mia dose di avventure,» disse John, credendosi abbastanza enigmatico.

«Ciò suona deliberatamente vago, ma il sottotono è di compiacimento, non difensivo, quindi direi che è un numero più grande di quanto ti importi condividere, piuttosto che uno più piccolo, che deve essere abbellito alterandolo.

«Diciamo solo che ci sono persone in tre continenti che hanno, er, fatto la mia conoscenza.»

Il letto fu scosso dalla profonda, quasi inudibile risata di Sherlock.

«Oi! No ridere di me. Io non ho riso di te. Cosa c'è di divertente?»

«Mi piaci, John Watson,» disse Sherlock con semplicità. «Non so come o perché, ma mi piaci davvero. Forse nella vecchiaia ho finalmente ceduto al sentimentalismo.»

John allora rimase in silenzio, e molto fermo. Sherlock si mosse accanto a lui.

«John?» disse, una traccia di preoccupazione nella voce. «Non intendevo--»

Ma la frase di Sherlock fu lasciata incompiuta, siccome John si allungò sul letto, sotto le coperte e trovò la mano di Sherlock. Allacciò le sue dita corte con quelle lunghe di Sherlock, sentendo la pelle sottile, morbida e calda, la presa di polpastrelli callosi contro il retro del suo palmo. Sherlock rimase immobile. Ma dopo un momento, sollevò la mano di John cullandola fra le sue, premendola contro al proprio petto. Quando John si sentì abbastanza audace, voltò la testa sul cuscino e guardò Sherlock. Come scoprì, Sherlock lo stava già guardando. La luce morbida della neve faceva apparire i suoi occhi brillanti anche nel buio; veniva catturata dai fili d'argento dei suoi capelli e lisciava le rughe del suo volto.

«Eri biondo,» disse Sherlock.

«Lo ero,» disse John.

Sherlock si voltò su un fianco senza lasciare che la mano di John scivolasse via da sopra al suo cuore. Allungò una mano esitante e toccò ciò che rimaneva dei capelli di John. John non ebbe assolutamente alcun controllo sul sorriso che si fece largo sul suo viso. Si spinse incontro al contatto della mano di Sherlock, incoraggiandolo.

Lentamente, con un certo grado di titubanza, si avvicinarono l'uno all'altro. Presto John si trovò avvolto da membra lunghe e ossute, il calore del corpo flessuoso di Sherlock contro alle proprie morbide rotondità. Sospirò, premendo la guancia contro la clavicola di Sherlock, le fronte nascosta nell'incavo del suo collo. C'era un dolore dolce nelle sue mani, che non aveva nulla a che vedere con l'artrite, e tutto a che vedere con la sensazione di un corpo umano di nuovo accanto a lui. Si sentiva sicuro, e amato, e desiderato-- cose che non avrebbe mai creduto di potersi di nuovo sentire in questa vita.

Sherlock se lo stringeva vicino con una forza che sembrava incongrua per la sua forma sottile. Le sue mani tremavano leggermente, una al centro della schiena di John, l'altra appoggiata contro alla sua cicatrice, le dita accarezzavano il vecchio cratere nodoso attraverso il cotone sottile della sua maglietta prestata, come se Sherlock ne stesse leggendo la forma come fosse Braille.

«Come ho potuto passare tutta la mia vita senza conoscere questo?» mormorò Sherlock contro le ciocche rade dei capelli grigi di John. Il suo tono era allo stesso tempo di meraviglia e tristezza.

John non aveva parole per lui, e anche se ne avesse avute, non era certo che la sua voce avrebbe funzionato. Quindi si limitò a stringere Sherlock con più forza e a sperare che quello fosse una risposta sufficiente.

***

Se fossimo giovani, ti bacerei. Succhierei dolci lividi viola sulla pelle delicata del tuo collo. Passerei la lingua sui tuoi capezzoli e farei correre i polpastrelli sui tuoi fianchi e farei passare le unghie fra i tuoi riccioli scuri fino a che il desiderio dentro di te non si farebbe palese nella durezza che spingeresti contro il mio bacino, e la mia non ti incalzerebbe contro la pancia in risposta.

Fuori dai vestiti, sotto alle coperte, nascosti dal mondo. Solo tu ed io, niente fra noi se non il nostro respiro condiviso e la scivolosità del sudore mentre premiano fra loro i nostri corpi. Ci sarebbe stato tempo sufficiente per morbido e lento, poi tempo sufficiente per lasciare spazio al caldo e disperato, bocche che scivolano l'una contro l'altra, lingue che bagnano pelle dolce e salata, mani che afferrano e scorrono e carezzano, dita che scavano, affondando esperte e abili nel tuo posto più caldo e stretto.

E tu avresti detto Per favore, ho bisogno

E io avrei detto Sì oh, oh dio sì

Non posso, voglio... lo voglio, dammelo... di più, di più

E io avrei provato, ma non sarei riuscito a trattenermi più a lungo

Allora sarei venuto, i gemiti sarebbero scivolati dalla mia bocca come acqua

Pene pulsante dentro di te

O il tuo dentro di me

Vorrei sentire cosa di prova ad essere riempito da te, spinto dentro di me e avvolto intorno a me allo stesso tempo.

Potrei prenderti in bocca fino a farti implorare e ansimare ed esplodere, il tuo seme sulle mie labbra e sulla mia lingua come miele.

Mi piacerebbe sentirti contorcere sotto di me, respirando profondamente e tremando mentre ti tengo stretto, guardo il tuo viso aprirsi mentre ti sveli fra le mie braccia, tutte le parole intelligenti messe a tacere ed i pensieri in corsa arrestati-- per un istante la tua mente affollata, beatamente pulita e vuota e bianca come un capo dopo la prima neve.

Poi ti abbraccerei, come ti sto abbracciando ora. La schiena premuta contro la pancia, le braccia strette, le mie mani sopra al tuo cuore che batte sicuro nel tuo petto. Protetto dal freddo, dalla tristezza, dalla solitudine-- la notte potrebbe essere infinita.

E ci saremmo sentiti come se avessimo avuto tutto il tempo del mondo.

***

Appena dopo il nuovo anno, John si era vestito ed era sul punto di partire per la sua giornaliera passeggiata al cottage di Sherlock, quando si rese conto di non credere di riuscire ad arrivare più lontano di in fondo alle scale. Dunque rimase seduto per un po', desiderando che la strana sensazione passasse, ma quella non lo fece. Cadde dentro e fuori da un sonno agitato sulla sua sedia, e prima ancora che registrasse che il tempo era passato si destò di soprassalto, la notte era improvvisamente scesa fuori dalla sua finestra.

Un bussare secco alla sua porta catturò la sua attenzione di nuovo, e si rese conto che era stato quello a svegliarlo. Raccolse le sue energie e si trascinò lentamente fino alla porta, aprendola per rivelare uno Sherlock dall'aspetto piuttosto agitato.

«John!» disse, il suo tono stridente ed un po' accusatorio. «Non sei venuto oggi. Ti ho aspettato. Ti ho anche chiamato, ma il tuo cellulare è di nuovo morto e-- » si fermò socchiudendo gli occhi come faceva quando stava esaminando da vicino qualcosa che aveva notato. Estrasse i suoi occhiali dalla tasca e se li fece scivolare sul lungo naso, anche se non ne aveva un gran bisogno per vedere lo stato in cui John sentiva di essere. «Ero preoccupato,» terminò Sherlock, tutta la spavalderia spazzata via dalle sue parole. «Tu non ti senti bene.»

«Sarei venuto,» tentò di spiegare John, indicando le scarpe ed il cappotto che ancora indossava. «Vedi? Ero sulla mia strada. Ma io. Uh.» All'improvviso stare in piedi e parlare allo stesso tempo gli sembrò uno sforzo troppo grande. John si afflosciò, ma Sherlck fu pronto ad afferrarlo prima che le sue gambe disobbedissero. Guidò John verso il piccolo divano scolorito e lo fece sedere con gentilezza, inginocchiandoglisi di fronte sul tappeto.

«Sei qui,» disse John.

«Ovviamente, John.» Sherlock alzò un sopracciglio mentre gli slacciava i lacci delle scarpe e le faceva scivolare fuori dai piedi di John. «Non stai delirando.»

«No, voglio dire che sei venuto in città. Non vieni mai in città da solo, mai.»

«Non c'era nulla per cui valesse la pena di venire fino ad ora, » disse Sherlock. Aiutò John ad uscire dal suo cappotto. «Non hai mangiato. Buon dio John. Ci siamo scambiati i ruoli, qui.»

John sorrise. «C'è del pane nel cesto sul bancone» disse. «Il tè è nella credenza sopra ai fornelli.»

Sherlock si liberò del proprio cappotto e delle proprie scarpe e si rimboccò le maniche come se si stesse preparando a scavare una buca. John lo guardò attraverso la porta della cucina, andare avanti e indietro dal bollitore al tostapane alla credenza al frigo. Presto, emerse portando un vassoio carico di due fumanti tazze di tè, toast, un panino al pomodoro e formaggio tagliato a metà, ed il barattolo di miele quasi vuoto che Sherlock gli aveva dato in estate.

«Non avevi molto, ma me lo sono fatto bastare,» disse, anche se era abbastanza chiaramente compiaciuto di se stesso.

«È perché mangio sempre a casa tua in ogni caso, idiota» disse John, con la risata nella voce. «Ma ben fatto»

«Grazie,» disse magnanimo Sherlock, spruzzando un po' di miele su un triangolo di toast. John riuscì solo a mangiare tre morsi del panino e a bere metà del tè. Ma Sherlock stava cercando di convincerlo a mangiare almeno un altro boccone di toast e miele.

«Sapevi che gli Indù credevano che il miele fosse un elisir per l'immortalità?» disse. «E nei tempi antichi era usato come medicinale per via delle sue proprietà antisettiche. Alcuni credevano che fosse una panacea divina, siccome è l'unico cibo che non va mai a male»

«Com'è che sai tutte queste cose, ma non riuscivi nemmeno a trovare l'Orsa Maggiore nel cielo?»

«È una questione di importanza, John. Per favore, mangia. Solo quest'ultimo po'.»

Sherlock immerse due dita nell'appiccicosa translucenza dorata che si era raccolta nella concavità del cucchiaio in bilico sopra il barattolo. John vide il miele colare, guardò Sherlock alzare le dita e separarle leggermente, creando piccoli fili che si stendevano fra loro come ponti di corda. Le portò alle labbra di John.

E John prese in bocca le dita di Sherlock, succhiando la dolcezza, muovendo la lingua intorno a polpastrelli e unghie e nocche, leccando via da loro ogni ultimo brandello di dolcezza. Il miele aveva il gusto migliore che avesse mai avuto, mescolato con il vago sapore della pelle di Sherlock.

«Oh,» fiatò Sherlock, le palpebre pesanti e la bocca allentata mentre lo guardava. John mormorò intorno alle dita, incapace di impedirselo, senza voler smettere di succhiare nonostante il miele fosse finito. Sherlock le estrasse lentamente, gli occhi incatenati a quelli di John, indugiando a far scorrere i polpastrelli inumiditi sul labbro inferiore di John, provocandogli un brivido che lo attraversò tutto.

«Ancora,» mormorò John. Sherlock immerse il cucchiaio nel barattolo. Ma questa volta spalmò il miele sulle proprie labbra, facendo gocciolare e scintillare il loro arco rosa e crespo. Guardò John fra le sue ciglia con aria quasi interrogativa, sbattendo le palpebre con lentezza.

John non ebbe bisogno di alcun incoraggiamento, questa volta.

Si sporse in avanti e premette le labbra contro quelle di Sherlock, sentendo la vischiosità trasferirsi sulle proprie labbra, densa e in qualche modo deliziosamente sporca-- come qualcosa che avrebbe fatto da giovane. Ed in effetti, in quel momento, lo stava facendo sentire giovane. Succhiò la morbidezza del labbro inferiore di Sherlock fra entrambi i suoi, il miele non era dolce nemmeno la metà del sospiro che Sherlock emise quando lo fece. Poi tracciò con la punta della lingua il picco del labbro superiore di Sherlock, e Sherlock premette in risposta, delicato e eppure insistente. Le sue mani si sollevarono per arricciarsi attorno alla nuca di John, cullando la curva inferiore della sua testa, le dita si seppellirono con indulgenza fra le corte e rade ciocche di capelli. John cinse le braccia attorno al petto di Sherlock, tirandolo vicino, abbracciandolo più stretto che poté fino a che non si sentì debole, e non solo per il delirio della felicità. Chiuse gli occhi e lasciò che la grandi mani di Sherlock supportassero la sua testa, lasciò che Sherlock continuasse a premere baci vagamente appiccicosi lungo la sua mascella, la sua fronte, le sue guance e il suo naso. Le giunture della mani di John dolevano perché stava artigliando la stoffa sul retro della giacca di Sherlock, ma non voleva lasciar andare. Finalmente Sherlock si ritrasse e John aprì gli occhi.

«Grazie,» disse John.

«Sono io che dovrei ringraziare te,» disse Sherlock.

«Per cosa? Ti ho fatto preoccupare e irritare, ti ho obbligato ad uscire dal tuo caldo cottage fuori nella neve solo per arrivare qui e doverti prendere cura di me»

«Sì, ma oggi è il mio compleanno, vedi.»

«Oh, Sherlock.» il cuore di John sprofondò. «Mi spiace così tanto, non lo sapevo--»

«No, no. Ogni tentativo di scusa è del tutto senza senso. Non avrei potuto chiedere un regalo migliore dell'essere finalmente riuscito a baciarti dopo tutti questi mesi.»

***

Sherlock tenne John ben stretto a sé, lo aiutò a percorrere la corta distanza fino alla camera da letto, sull’altro lato della cucina. Lo fece sedere sul bordo del letto e gli mise il suo pigiama, dita attente slacciarono la sua cerniera e i suoi bottoni, gli misero indosso cotone morbido, lisciandolo mentre lui si distendeva. John dovette sorridere tristemente fra sé; non avrebbe mai pensato che sarebbe stata come questa, la prima volta in cui Sherlock l’avrebbe aiutato ad uscire dai suoi vestiti. Ma ugualmente, la gentilezza che aveva usato gli toccò il cuore; ancora di più perché a quel punto sapeva esattamente quanto fosse sottile la pazienza di Sherlock.

«Riposati, ora. Ti sentirai molto meglio al mattino.» Sherlock lo disse con quel tipo di convinzione che fece capire a John che più che sapere che fosse vero, voleva che lo fosse.

John si svegliò a un certo punto nella luce grigia dell'alba per scoprire Sherlock appisolato su una sedia ai piedi del letto, le lunghe gambe secche appoggiate alla fine materasso, avvolto nella vecchia trapunta di ricambio di John. In un mucchio vicino alla porta c'erano una borsa da viaggio, un kit da toilette e la custodia di un violino. Doveva essere andato e tornato mentre John dormiva. Come se avesse sentito lo sguardo di John su di sé, Sherlock aprì gli occhi e guadò John, muovendosi appena sulla sua sedia.

«Ti trasferisci, allora?» disse John, la voce ancora ruvida di sonno e sommessa.

«Solo finché non ti sentirai meglio,» rispose Sherlock. «Mi sono abituato al tuo aiuto, John. Mi servirai al massimo della forma per la raccolta del miele a inizio primavera.»

John ridacchiò, anche se una punta di tristezza montò dentro di lui.

La sfortuna di essere un dottore era sapere com'era, quando cominciavi a morire. John se lo stava aspettando da un po', ormai. Era la sola ragione per cui aveva messo in ordine tutte le sue cose a Londra, chiuso il suo ambulatorio e si era messo a suo agio qui in Sussex. Dire che non vedeva l'ora che succedesse non sarebbe stato del tutto sbagliato-- ma questo era la scorsa estate, prima di aver trovato un improbabile amico in Sherlock Holmes e di essersi scoperto a desiderare, per quanto sottilmente, di non aver cominciato qualcosa di così meraviglioso così vicino alla fine.

Sherlock fece un grande sbadiglio e stirò le braccia in alto e all'infuori, le sue giunture scricchiolarono udibilmente nella quiete della camera.

«Farò uso della tua doccia,» annunciò. «E poi ti assisterò nelle tue abluzioni, se desideri. Poi ci preparerò la colazione. Dovresti tornare a dormire per un po'. Hai ancora qualche ora prima che io possa ufficialmente redarguirti per essere un pigro poltrone per essere ancora a letto.»

John rise a questo. Era davvero difficile essere tristi quando Sherlock decideva che la giornata era una di quelle in cui avere senso dell'umorismo. Si assopì un po' ascoltando il suono della doccia e del canticchiante baritono di Sherlock, cercando di non pensare a quanto sarebbe stato orribile tutto questo se fosse stato solo, come aveva progettato.

John non ce la fece mai ad uscire dal letto. Ma Sherlock non si fece beffe di lui come aveva promesso. Aiutò John a lavarsi, con un asciugamano morbido ed una ciotola di acqua confortevolmente calda al suo capezzale. Sherlock lo rasò addirittura, le sue dita abili tirarono la pelle avvizzita di John con infinita cautela. Era intimo in un modo che John non si sarebbe mai aspettato-- non aveva mai lasciato che nessuno facesse correre un rasoio affilato sulla sua faccia prima, ma Sherlock lo fece velocemente e alla perfezione, senza nemmeno un singolo graffio. Era il più grande segno a cui John potesse pensare per indicare quanto avesse preso a fidarsi di Sherlock nei pochi mesi passati, ed il significato del gesto non sfuggì a nessuno dei due.

Quando finirono Sherlock gli portò il tè. John prese solo un sorso o due, prima di decidere che non ne aveva lo stomaco. Questa volta Sherlock non tentò di fargliene avere ancora. Il poco che aveva bevuto però era straordinario, John dovette ammetterlo. Aveva lo stesso sapore che aveva avuto il bacio di Sherlock la sera prima; aveva il profumo dolce del suo respiro, sembrò come le sue calde labbra di miele, sopra a quelle di John.

«Vedo che hai portato il tuo violino,» disse John.

Sherlock guardò verso la tondeggiante custodia scura e agitò una mano sprezzantemente.

«Solo per lucidarlo per passare il tempo mentre tu riposi, forse riaccordarlo come volevo fare da un po'.»

«Potresti magari-- suonare un po' per me? Non ti sento suonare da-- be' da prima di conoscerti»

Sherlock sorrise.

«Non è qualcosa che di solito faccio per un pubblico, ma per te farò un'eccezione.»

Si avvicinò alla custodia e tirò fuori lo strumento. Dopo una passata di colofonia e un po' di accordatura, Sherlock cominciò a suonare. John chiuse gli occhi e lasciò che la musica lo trasportasse dentro e fuori da una sorta di sonno dell'alba. A volte era esuberante, a volte triste, a volte piena di gioia. John non sapeva per quanto Sherlock suonò -- avrebbero potuto essere minuti o ore – ma quando l'ultima timorosa nota abbandonò le corde, John si sentì come se Sherlock avesse parlato per l'intero tempo attraverso la musica, dicendogli cose che le parole da sole non potevano trasmettere. Finalmente capì perché un uomo così radicato nella razionalità come lo era Sherlock si stesse categoricamente rifiutando di credere che John fosse in procinto di morire.

Non rendeva più facile l'accettare che se lo sarebbe lasciato alle spalle.

***

«Ho usato l'ultimo po' di miele per il tuo tè questa mattina, quindi questo ha solo un po' di zucchero,» disse Sherlock. Appoggiò la tazza sul comodino, anche se sapeva che John non poteva berla. «Ho un altro barattolo per te. Forse due.»

«Non credo che me ne servirà ancora, Sherlcok,» disse John.

Sherlock lo guardò con una specie di rabbia futile negli occhi. John raccolse le sue ultime energie e fece spazio nel piccolo letto. «Vieni qui,» disse.

Sherlock si tolse la giacca e scivolò sotto le coperte. Infilò un braccio sotto a John e avvolse le gambe sopra di lui, finché non fu più vicino possibile. Sherlcok sembrava ancora arrabbiato, ma John poteva sentirlo tremare contro al suo fianco.

«È tutto a posto, sai?» disse John dolcemente. «Le persone muoiono. È ciò che le persone fanno.» Si era fatto l'idea che nessuno fosse mai stato gentile con i sentimenti di Sherlock, da come provava a sopprimere e rinnegare le sue emozioni.

«Ma non è giusto, John» disse Sherlock. John sentì dell'umidità sul collo, quando Sherlock vi seppellì il viso, e lo abbracciò più stretto. «Avremmo dovuto avere le nostre intere vite, o almeno più di questo tempo»

«Io ho avuto la mia vita e tu hai avuto la tua. Siamo stati entrambi fortunati ad aver avuto il tempo che abbiamo avuto.» disse John, anche se la sua voce si stava facendo flebile e sottile. «Ma sì, avrei adorato conoscerti quando eri più giovane.»

«E io te,» disse Sherlock, sollevandosi il necessario per guardare John. «Avremmo fatto una bella coppia. A correre per Londra, ad essere svegli e coraggiosi.»

A questo John sorrise, e Sherlock glielo restituì, anche se le lacrime continuavano a scivolare a tradimento dai suoi occhi.

«Oh, andiamo. Niente di tutto questo, adesso,» lo rimproverò dolcemente John, desiderando che le sue braccia non gli sembrassero così pesanti, in modo da poterle allungarle per asciugare le piccole striature bagnate da quei begli zigomi. «Raccontami l'ultima delle tue storie» John sentiva il richiamo di un sonno profondo attraversare il suo corpo. Non mancava molto, ormai. «Voglio solo sentirti»

«Non è l'ultima storia, John,» disse Sherlock, con tale certezza che John doleva per potergli credere. «Ma ti racconterò la migliore. Comincia così: una volta c'era un vecchio brontolone che viveva in campagna, soltanto con le sue api e il suo genio. Non sapeva nemmeno di essere solo fino a quando un ex medico militare ficcanaso non arrivò a curiosare intorno al suo giardino.»

«Credo di averla sentita prima, questa» mormorò John.

«Sì, be', è la mia preferita.»

«Anche la mia,» ammise.

Sherlock raccontò la storia degli ultimi sei mesi come se fosse una favola, abbellendola ed enfatizzando quando ne sentì il bisogno. John si rilassò al suono della voce di Sherlock, contro al suo corpo e il mormorio dentro al suo petto mentre parlava. Se avesse potuto scegliere un modo di andarsene, questo gli sembrava il più vicino alla perfezione che avrebbe mai potuto immaginare. Ricordò di aver fatto lo stesso per Mary, giacendo con lei nel letto dell'ospizio e mormorando dolci amenità nelle sue orecchie finché non era scivolata via, abbracciandola finché non era diventata fredda e gli altri dottori erano venuti a portargli via il corpo.

Guardò su, verso il viso di Sherlock, le linee profonde intorno ai suoi occhi si incresparono dolcemente mentre gli restituiva lo sguardo.

«Mi ami,» disse John.

«Una deduzione eccellente, Dottore,» disse Sherlock, «Ora, se non ti dispiace, sto arrivando alla parte migliore.»

«Ti prego, continua.»

John chiuse gli occhi ed espirò per l'ultima volta, gli occhi grigio tempesta di Sherlock l'ultima cosa che vide, le grandi mani di Sherlock incurvate intorno al suo viso l'ultima cosa che sentì, la voce di Sherlock l'ultimo suono che lo accompagnò nella quieta, pacifica oscurità.

***

John non era mai stato molto religioso. Sì, credeva in Dio, in qualche modo, ma non era mai andato d'accordo con la nozione di aldilà per i buoni e i cattivi. Aveva sempre avuto la razionale convinzione che una volta morto, era tutto lì. Cessavi di esistere, proprio come prima di essere nato.

Ecco perché trovò un po' strano il trovarsi improvvisamente in un posto pieno di luce.

Sapeva che non era il paradiso o un posto simile. Questo posto dava più la sensazione di essere un sogno più che ogni altra cosa, ma era più solido, più vivido e dettagliato. Poteva vedere i colori ed udire specifici suoni, annusare l'odore dei gas di scarico delle macchine e dell'erba appena tagliata.

Era un parco, per essere precisi. Un posto che riconosceva-- vicino al Bart's, a Londra.

Il cuore cominciò a battergli forte nel petto quando realizzò dove si trovava, e quando. Si guardò intorno-- e poi la vide, seduta a distanza di qualche metro.

Mary.

«È il giorno in cui ti incontrerò.» disse John, non forte o piano, perché sapeva che in qualche modo lei l'avrebbe sentito in qualsiasi caso. Sentì il petto gonfiarglisi ed il respiro trattenersi nei polmoni. «Proprio qui, mentre cammino per il parco. Tu sarai seduta proprio su questa panchina.» Si sedette vicino a lei, prese la sua mano con entrambe le sue. Gli occhi gli si riempirono di lacrime. «questo vuol dire che ti rivedrò ancora, possiamo avere più tempo insieme-- »

Ma Mary mise una mano sulla guancia di John e lo guardò negli occhi, i suoi di un marrone corposo in quelli di un blu profondo di lui. Lo immobilizzò. Lei scosse la testa. Tutta la felicità che l'aveva riempito era persa, e le lacrime che gli scivolarono dagli occhi allora, furono di tristezza e non di gioia.

«Cosa vuoi dire? Perché non posso vederti ancora? Io voglio farlo. Dio mi sei mancata così tanto. Ti amo. Ti prego.»

Mary sollevò l'altra sua mano e la mise sull'altra guancia di John, asciugando le sue lacrime con il polpastrello morbido del suo pollice.

«Non puoi vedermi perché qui io non esisto. Ho avuto la mia vita con te. Ci siamo trovati quando avevamo più bisogno di stare inseme. Sei un uomo raro, John Watson.»

«E perché mai?» Non poteva restare triste, non quando Mary stava toccando il suo volto e lo stava guardando con tanto amore.

«Sai come si dice che le persone hanno anime gemelle? Be', più o meno è così. Alcuni le hanno e altri no. E a volte qualcuno ne ha due. Tu sei uno di quelli strani, John. Tu hai due persone che avevano bisogno di te. In realtà ci hai trovati entrambi, quindi hai la possibilità di tornare. Se vuoi.»

«Allora ho una scelta» chiese John.

«Naturalmente,» disse Mary.

«E se volessi restare qui con te?»

«Non lo vuoi,» disse con semplicità Mary.

John seppe che aveva ragione non appena lo disse. In ogni caso, sapeva di non poter restare dentro ad un sogno, non importa quanto fosse meraviglioso essere di nuovo con Mary.

«Ma lui è esistito prima, perché non ha avuto bisogno di me prima?»

«Perché questa volta sarà un po' diverso. Non posso dirti cosa succederà perché in realtà non lo so. Ma qualcosa sarà e tu dovrai essere lì, perché lui avrà bisogno che tu ci sia. Proprio come ne ho avuto bisogno io. John sarei morta in ogni caso. È quello che succede. Ma i miei giorni sarebbero stati miserabili e molti di meno, se non ci fossi stato tu a prenderti cura di me. Ad amarmi e ad essere mio. Ti ho avuto tutto per me e ti ho amato con tutto il mo cuore. Ora lui ha bisogno di amarti proprio altrettanto, perché vi meritate più tempo insieme di quello che avete avuto. E perché ti sei già innamorato di lui.»

«L'ho fatto?» chiese John, la bocca che si contorse in un sorriso contro al palmo di Mary.

«L'hai fatto.» rispose lei, facendo correre le dita fra i suoi capelli.

«L'ho fatto» disse John e questa volta era un'affermazione. Era vero. Dopo Mary non avrebbe mai pensato di avere abbastanza amore lasciato per qualcun altro, ma le sue scorte si erano rivelate ben rifornite. Ed ora appartenevano, improbabilmente eppure del tutto, a Sherlock Holmes.

Per la prima volta, John si sentì preoccupato ed anche un po' spaventato. Mary sembrò intuirlo, perché gli si avvicinò sulla panchina e lo cinse fra le braccia. Poteva sentire il suo calore, il battito del suo cuore ed il movimento del suo respiro, come se fosse reale.

«Ti ricorderò?»

«Non lo so,» disse lei pensierosa, strofinando la sua guancia morbida contro quella ruvida di barba di lui, proprio come faceva sempre. «Forse sono già una parte di te; lo sono stata per molto tempo. Non penso che se ne andrà mai, anche se potresti non riconoscere che sono io.»

«Allora continuerà-- questo continuerà ad accadere, dunque? Morirò ancora e mi sveglierò e perderò anche lui?»

«No. Questo è tutto; se decidi di andare tornerai solo questa volta. E probabilmente vivrai una bella e lunga vita proprio come hai già fatto. Non sarà più facile, però. Nessuna vita lo è mai. Ci saranno lunghi momenti di tristezza. Per un periodo potrete addirittura odiarvi. Ma non cambierà il fatto che avrete bisogno l'uno dell'altro. Ma se è destino finirete di nuovo nel Sussex, insieme.»

«So che a te sarebbe piaciuto,» disse John. Dio, poteva addirittura sentire l'odore dei suoi capelli, il suo profumo preferito ed il modo unico in cui si mescolava all'aroma della sua pelle.

«Mi hai conosciuto meglio di chiunque, mio John,» disse lei, sporgendosi verso il suo viso, poggiando la sua fronte contro quella di lui. «Sarei così gelosa, se non ti avessi avuto per prima»

«Ti amo, Mary» disse lui, la voce il più nudo e flebile dei sussurri.

Lei si ritrasse per guardarlo negli occhi un'altra volta, prima che lui sentisse le sue labbra delicate e morbide e dolorosamente familiari, contro le proprie. John chiuse gli occhi, perché sapeva che stava per finire, poteva percepire i margini del sogno scivolare via, tutto l'odore e la sensazione e il calore di Mary mescolarsi insieme e svanire finché i suoi occhi non si aprirono.

E fu di nuovo solo.

Il soffitto beige del monolocale lo fissava inespressivo.

Si portò le mani alle guance, dove erano state quelle di Mary. Poteva ancora sentire il fantasma della pressione lì, e l'umidità delle lacrime. Poteva ancora sentire il suo profumo, debolmente, ancora vedere i suoi occhi dietro le proprie palpebre, ancora sentire l'eco della sua voce calma.

Poi se ne andò.

Tutto quanto.

Perso attraverso il setaccio del suo subconscio, come tanti sogni prima, lasciando solo i vaghi rimasugli di una sensazione.

Qualcosa di caldo e significativo. Qualcosa di pungente e necessario.

***

John andò a fare una passeggiata più tardi quel giorno. Prese un sentiero attraverso al parco, invece che intorno, per capriccio. Respirò a fondo la densità dell'aria di Londra, lasciò il rumore di voci e veicoli attraversarlo come il sangue nelle vane. Per un istante gli sembrò quasi di poter dimenticare lo strano dolore che gli afferrava la gamba, le immagini da incubo che macchiavano la sua memoria.

«John?» una voce, in qualche modo familiare. «John Watson!»

John quasi continuò a camminare. Non voleva essere riconosciuto così, con quell'aspetto così debole e strano. Ma qualcosa lo trattenne, lo fece voltare e salutare l'amabile occhialuto sorriso di un amico. Presero un caffè, si sedettero su una panchina comoda. Parlarono di questo e quello, vita vecchia e nuova. John menzionò che stava cercando un appartamento da dividere, e Stamford rise e lo portò dentro al Bart's, ai vecchi laboratori.

Guardò l'uomo che lo stava guardando da attraverso la stanza. I loro occhi si incontrarono.

E per un momento, John sentì sulla lingua il sapore del miele.  

  
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