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Autore: Soqquadro04    27/10/2013    3 recensioni
[Fluff. Ma tanto Fluff, capite | AU!Futurverse (dieci anni dopo) | Child!NewCharacter | Deleeeeena]
È notte, e dopo una bella notizia si va a dormire felici.
Ma in casa Salvatore c'è qualcuno che si rifugia nel lettone...
C'è qualcosa in camera.
Elizabeth sospira rumorosamente, mentre scende dal letto e corre verso la porta, aprendola e infilandosi in corridoio, i passi leggeri sul parquet.
Non le piace percorrere nemmeno quei pochi metri che la separano dall'altra camera, così, al buio.
In fretta, con la paura che il mostro capisca che non è più a letto e che con la sua velocità inumana la raggiunga e la trascini via con sé.
Afferra il pomolo della porta, facendolo girare con un piccolo schiocco.
Nella stanza, una donna sobbalza, spaventata dal suono e, ancora assonnata, apre gli occhi, svelando due iridi castane.

{Seguito di "Three"}
Genere: Fluff, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Damon Salvatore, Elena Gilbert, Nuovo personaggio | Coppie: Damon/Elena
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Sentimentalism, cats and children'
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N/A - Note dell'Autrice - Premessa

Buonsalve, lettrici.
Sì, sono le due e quaranta di notte. Sì, sto pubblicando il seguito di questa storia (che non è necessario leggere per comprendere questa, ma se voleste passare mi fareste taaaaaanto felice)
, che è, credo, fra le cose più sdolcinate io abbia mai scritto (ma, ehi, il contest lo richiedeva) ù.ù
Ora mi dileguo, perché ho la testa che mi scoppia... volevo solo precisare che tutto ciò è dedicato a Fefy94 perché è stata lei a suggerire l'idea da cui è nato questo piccolo post-Three, ecco. ù.ù
Quindi lo zucchero non è tutto mio, stavolta ù.ù
A presto,
la vostra Soqquadro

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I'm here

A Fefy94, che l'ha fatta partire

 

Se non sai perché un bambino sulla giostra saluta i genitori a ogni giro e perché i suoi genitori gli rispondono sempre, non capisci la natura umana.
William D. Tammeus

Il mestiere del genitore è il mestiere più difficile e splendido del mondo.
Stephen Littleword

 


È notte, ed è calma.

Nella grande casa dalla facciata bianca c'è silenzio, senza le risate felici e le grida acute dell'esagitata figlia di quelli che i vicini chiamano “i giovani del quartiere”.

È un luogo tranquillo, quello, abitato da altre famiglie con madri quarantenni e almeno tre pargoli ciascuno e qualche vecchietta con la passione per i gatti che ne ha regalati loro un paio.

L'ultimo evento degno di nota è stato proprio il loro trasferimento, ormai sette anni prima. Poi più nulla.
Un po' noioso, forse, ma dopo aver vissuto ciò che hanno vissuto, va bene così.

Nella sua camera rossa, una bambina si rigira, agitata, fra le coperte.
Ci sono angoli bui in fondo alla stanza, che la luce sul suo comodino non riesce ad illuminare, e da lì la paura strisciante sembra allungarsi verso di lei con tentacoli scuri. La bimba si rannicchia sotto il piumone come una piccola palla umana, gemendo appena.

Ha un incubo.

Mostri dagli occhi neri e vuoti e profondi come una pozza d'acqua oceanica, infiniti.
Zanne gocciolanti di scarlatto e ringhi di bava.

E corna affilate sulla testa.
Uno la guarda fisso, con quei suoi occhi troppo grandi e cattivi.
Manda un verso che le gela le viscere e abbassa il capo, pronto a caricarla.
Urla, ma non veramente.

Si sveglia, agitandosi frenetica, fradicia di sudore. Terrorizzata.

Ha un grido bloccato in gola, ma non lo lascia uscire, ostinata anche mentre, confusa dal sonno e dalla paura, non vorrebbe fare altro.
Non vuole svegliare mamma e papà, però. Certo, c'è anche una scintilla d'orgoglio: non vuole farsi dare della bambina fifona.

Lizzie rimane immobile, l'udito affinato allo spasimo per cercare di cogliere suoni rivelatori di orribili esseri in agguato. Non sente nulla, ma non può rilassarsi quando le ombre giocano ai margini del suo campo visivo, disegnando strane figure deformi nel buio e trasformando i muri rosso caramella della sua stanza in quelli imbrattati di sangue delle segrete di un castello medievale.

Si porta le coperte fin sopra la testa, seppellendosi sotto il piumone pesante e respirando piano, ansiosa.
L'inquietudine si fa più pressante man mano che il silenzio si propaga, quasi innaturale.

Ora ha caldo, e la sensazione di oppressione è più forte del bisogno di nascondersi da una minaccia che forse non esiste.
Si toglie il copriletto di dosso, scalciando per liberarsi del lenzuolo e girandosi sul fianco.

Chiude gli occhi, cercando di cedere al sonno, anche se è tesa come una corda di violino.
Un cigolio, rumoroso e sinistro, la fa irrigidire. Trattiene il fiato, serrando ancor di più le palpebre.

Non vede il gatto che, approfittando della porta lasciata socchiusa, si intrufola in camera e salta sulla scarpiera, ma sente benissimo il tonfo che provoca qualcosa – nella fattispecie, le sue scarpe da tennis, precedentemente posizionate troppo vicine al bordo del mobile – cadendo a terra.
Si mette seduta repentinamente, il cuore che le martella nel petto.

C'è qualcosa in camera.

Elizabeth sospira rumorosamente, mentre scende dal letto e corre verso la porta, aprendola e infilandosi in corridoio, i passi leggeri sul parquet.

Non le piace percorrere nemmeno quei pochi metri che la separano dall'altra camera, così, al buio.
In fretta, con la paura che il mostro capisca che non è più a letto e che con la sua velocità inumana la raggiunga e la trascini via con sé.

Afferra il pomolo della porta, facendolo girare con un piccolo schiocco.
Nella stanza, una donna sobbalza, spaventata dal suono e, ancora assonnata, apre gli occhi, svelando due iridi castane.

È supina, le mani congiunte in grembo, e intrecciate alle sue le dita dell'uomo che le dorme a fianco, tranquillo, con un sorriso che gli incurva la bocca.

Chissà cosa sogna.

Forse loro due, o forse Elizabeth e suo fratello – o sua sorella. Forse semplicemente un periodo felice, forse nulla di tutto questo.

Quando la porta si apre e sulla soglia compare la sagoma di Lizzie, lei scatta a sedere, districando le dita da quelle di lui e,sfiorandogli appena la spalla con una carezza, decidendo di non svegliarlo – è già così stanco

La bambina si dirige verso il lettone – è quello di Damon. Il magnifico, enorme letto matrimoniale che fino a qualche anno prima stazionava nella camera di lui, a Mystic Falls, che non si erano sentiti di abbandonare – quasi di corsa, facendo abbassare il materasso sotto il suo peso mentre ci si arrampica sopra, infilandosi sotto le coperte, tremante, e accoccolandosi fra le braccia di Elena.

Lei la stringe, chiamandola piano, sottovoce, cullandola appena e carezzandole i capelli – neri, morbidi, lunghi, proprio come quelli di suo padre – e la schiena, tenendola stretta. Damon mugugna qualcosa, nel sonno, voltandosi e circondandole entrambe con un braccio.

«Liz... Lizzie. Shh, sono qui, sono la mamma. Shh... cosa c'è, piccola mia, cosa c'è?» qualche lacrima le bagna le guance, e strofina il volto contro la sua spalla. Elena si sente afferrare la gola da una morsa improvvisa di tenerezza, mentre la voce un po' impastata, titubante ed esile nella calma, le raggiunge le orecchie, soffocata sulla sua pelle.

«M-mamma... posso dormire con te e papà?» la convinzione che non sia un bene abituarla a stare con loro e l'istinto materno lottano per un attimo fra di loro, contrastanti, ma mentre la bambina la osserva, spaurita, cercando di distinguere la sua figura, è chiaro chi dei due ha avuto la meglio.

Elena si raggomitola meglio contro il petto di lui, invitando Liz a rintanarsi un po' di più, finendo così quasi completamente nascosta sotto la trapunta.
Le bacia il capo, mormorando qualche altra parola, incomprensibile.

Sembra molto più calma, ora.

Elena aggrotta la fronte quando avverte Lizzie voltarsi per guardare verso la porta, e poi girarsi di nuovo, ansimando un poco.

«Cosa c'è, Liz?» chiede nuovamente, sempre attenta a moderare il volume della voce.
La bimba esita, prima di risponderle, altrettanto cauta.

«C'è un mostro in camera, mamma. Non volevo rimanere lì. Ora non mi vorrai più bene perché sono scappata?» Elena sente le lacrime in fondo al timbro acuto, e forse anche qualcosa che può essere interpretato come orgoglio ferito. Non c'è nemmeno da chiedersi per quale motivo, a sei anni, abbia già queste precoci dimostrazioni di vergogna per una presunta debolezza.

Per un attimo, è solo sbalordita: i geni di Damon sono incredibilmente dominanti e, almeno fino a questo momento, molto più forti dei suoi. Fra qualche anno, seguendo questa linea di pensiero, inizierà a uscirsene con frecciatine sarcastiche ad ogni piè sospinto.
Elena trattiene l'istinto di scuotere la testa, mentre spera che il prossimo le somigli un poco di più.

Poi, semplicemente, la rassicura, abbracciandola ancor più stretta e sospirando nel notare che Damon sta muovendosi e rigirandosi come se non ci fosse un domani, segno che è praticamente sveglio.

«Ti vorrò sempre bene, Lizzie. Ricordalo: sempre.» le sussurra, accarezzandole una guancia mentre lui, con voce arrochita dalla stanchezza, domanda delucidazioni.
«Lizzie mi stava giusto chiedendo quanto le voglio bene, e io le ho risposto che sicuramente gliene voglio più di te.» anche se è sfinita, non rinuncia allo schernirlo. Lui, offeso, solleva il capo dal cuscino, lanciandole un'occhiata indignata che, ovviamente, non può vedere.

Così si limita a far aderire la schiena di lei al suo sterno, abbracciando la donna con cui ha accettato di condividere ogni cosa e la bambina per cui strapperebbe le stelle dal cielo una a una.

Affonda il volto nel collo di Elena, baciandole la pelle e facendola rabbrividire, e alla cieca, con i polpastrelli, sfiora la fronte di Liz.
Poi espira rumorosamente, sbadigliando.

«Voi due, cosa ne dite di dormire, adesso?»

*****

Il mattino dopo porta con sé lame pallide di sole e l'odore di caffè che aleggia per casa.

Elena apre gli occhi, disturbata dalla luce troppo forte – si sono dimenticati, per l'ennesima volta, le tapparelle alzate – e sospira appena quando si rende conto che Damon non c'è e che Lizzie dorme ancora, beatamente appoggiata sul suo braccio destro.
Non osa muoversi.

Osserva il soffitto per un po', finché non sente la porta aprirsi ed alza la testa per accogliere quello che, a ragione, pensa essere lui.
Entra di spalle, portando qualcosa con due mani e tenendo sotto il braccio qualcos'altro di peloso.

Quando si volta, la donna si trattiene dallo scoppiare a ridere solo per evitare di svegliare la figlia.

Damon sta tentando di non rovesciare un vassoio con una meravigliosa colazione – ha anche recuperato una rosa quasi intera, sistemandola in un vaso lungo e sottile – mentre tiene premuto con il gomito, contro lo sterno, il suo vecchio orsacchiotto.

Quel peluche ne ha viste parecchie, quasi troppe per poter essere ricordate tutte.

L'uomo che ama inarca le sopracciglia, lanciando uno sguardo in direzione di Liz e poi dirigendosi verso il cassettone ai piedi del letto per appoggiare la colazione, prima di raggiungerle.

Si inginocchia davanti alla piccola, baciandole la fronte e sussurrando il suo nome per svegliarla.
Lei sbatte le palpebre, confusa, prima di metterlo a fuoco e mormorare un assonnato “papà”.

Quando lui le piazza davanti, orgoglioso, il giocattolo, le si illuminano gli occhi.
Poi le bisbiglia qualcosa, in tono confidenziale, sotto lo sguardo divertito di Elena.

«Terrà lontani i mostri, Liz, garantito. Era della mamma.» la bambina sgrana gli occhi, le iridi che si specchiano in quelle, identiche, di lui, e corruga la fronte, un poco titubante
«Come lo sai che ci sono i mostri in camera?» non sembra molto convinta del potere di un morbido, polveroso ricordo. Scetticismo, un altro tratto di Damon.

Ma lui le fa l'occhiolino, prima di porgerle l'orsetto e sorriderle, candido e innocente solo fino a un certo punto.

«Un papà queste cose le indovina.»

   
 
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