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Autore: Francine    27/10/2013    3 recensioni
Perché quella gente, che si definiva cristiana ma festeggiava Yule per le strade, raccontava ai propri figli di come, un tempo, gli dei camminassero per i sentieri di Midgard travestiti da viandanti squattrinati in cerca di avventure o per ammazzare l’eternità, ma non che facessero lo stesso anche quelli come lui. I Giganti di Jötunneim. E lui era Laufey. Il loro re. Che quella sera era sceso su Midgard con l’intenzione di alleviare il tedio che era calato su Útgarðr, la capitale del suo Reame di ghiaccio. Non era forse a questo scopo che erano stati creati gli umani?
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Laufey, Loki, Thor
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'A Thorn Among The Roses'
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Fandom: Thor – (Movieverse)
Titolo: Viaggiatori nella notte
Rating: Giallo
Parole:   5590/9
Personaggi/Pairing: Laufey, Thor, Loki
Avvertimenti: Prima Classificata alla challenge [Marvel&DCComics!Movieverse] I Do What I Want indetta da vannagio
Note:  Quelle serie le trovate in fondo alla storia.


 
Viaggiatori nella notte
 
 

  Qualcuno le chiama benedizioni. O qualcuno potrebbe chiamarle benedizioni. Non lei. Che si sveglia, nel cuore della notte, scivola fuori dal letto e scrive. Enthousiasmos, lo chiamano. Il dio che parla. Apollo, per alcuni. O le Muse, vallo a sapere. Solo che lei non è così fortunata. Non sente la voce rassicurante di una donna. E no, non parla in greco antico. Sente quella di un uomo, che è simile al rumore delle unghie sulla lavagna. E la pressa. La spinge. Le rimbomba nella testa. E racconta. Di battaglie. Di astuzie. Di magie proibite e assopite nelle pieghe del tempo. Di Regni lontani. Reami, li chiama lui. Dai nomi esotici, pieni di suoni gutturali e freddi e taglienti. Di ghiaccio e metallo. Lei scrive. Con penne o matite su fogli di carta, righe e righe, pagine e pagine di storie che Lui continua a raccontarle. Per puro piacere. Per amore del suono della sua voce, forse. Lei è pronta a scommetterci. Lei, che al risveglio si accorge di non saper neppure pronunciare la metà di quei nomi del nord che profumano di neve e ambra e resina di pino. E al mattino non le resta che attaccarsi alla tastiera e scrivere. Perché un dio ha parlato. Meschino, invidioso e geloso. Ma pur sempre un dio. E sarebbe stupido non prestargli orecchio. Perché lui, la notte seguente, glielo farebbe scontare.
 
 
 
Odense, 20 Dicembre 1177
 
Pioveva a dirotto quando l’uomo entrò nella locanda. O meglio, quando la porta della locanda si spalancò come se mani gigantesche avessero spinto un uscio accostato, lo stesso che l’oste aveva sprangato un paio di ore prima. Sulla soglia apparve un uomo, mentre un vento freddo s’insinuò, maligno e rapido, tra i tavoli fino a lambire le fiamme che guizzavano alte nel camino. L’uomo era alto. Era magro. Il suo cappello, calato sul viso per proteggersi, forse dal freddo, forse dalla pioggia, era del colore della notte senza stelle, e da sotto le falde inzuppate di pioggia baluginavano due occhi scuri e profondi come il fondo dell’inferno. Un mantello dal colore indecifrabile lo avvolgeva fino alle caviglie.

Gli avventori rimasero gelati. Fissavano quell’apparizione come se avessero visto il diavolo in persona, senza aprire bocca nemmeno per lamentarsi del freddo e della pioggia che stava entrando nella locanda. Lo sguardo saettante e un po’ febbrile dell’uomo corse per la sala, incontrò quello dell’oste, e lo incatenò al proprio. «C’è posto per me alla tua mensa, Olav Sørensen?», chiese.

Olav Sørensen, l’oste, era un uomo forte e coraggioso. Aveva spalle larghe, folti baffi rossicci e non disdegnava di menare le mani, qualora ve ne fosse stato bisogno, contro chiunque necessitasse di una sana dose di educazione. Eppure Olav guardava quell’uomo, la pelle della schiena e delle braccia increspata dalla paura, gli occhi fuori dalle orbite e i baffi imperlati di sudore. «Certo, signore…», farfugliò, dimenticando la risposta corretta che avrebbe dovuto dare.

«Non ho soldi con me. Né gemme, né tesori», proseguì l’uomo, la voce profonda come un pozzo prosciugato. «C’è posto per me alla tua mensa, Olav?»

Se come tutte le sere padre Hans fosse passato in locanda per la bevuta della staffa, avrebbe estratto il proprio crocifisso da sotto la tonaca e l’avrebbe tenuto ben alto, davanti al viso dell’uomo, recitando la risposta da darsi in casi come questi: «Posto c’è, ma per un’anima battezzata.». Ma padre Hans non c’era. Era in chiesa, indaffarato con i preparativi del Natale e con quel tempaccio non avrebbe cacciato il naso fuori dalla canonica nemmeno per un giro di bevute gratis.

«Sì, signore», rispose Olav, come sotto un incantesimo. L’oste sbatté le palpebre e fu come se il tempo tornasse a scorrere normalmente. «Venite, venite. Non state lì sulla soglia! Entrate, o finirete per farmi allagare la locanda!», disse lasciando l’arrosto di cervo e i fusti di birra, e dirigendosi a grandi passi veloci verso l’ingresso.

L’uomo, che sembrava stesse aspettando un invito formale, si mosse. Varcò la soglia, mentre in lontananza un tuono riempiva l’aria crepitando, e si accomodò all’unico tavolo rimasto, quello più vicino all’ingresso e più lontano dal fuoco. Posò il suo capello ed il mantello sulla panca accanto a sé, mentre gli altri avventori, gente del posto e pellegrini diretti a San Canuto, tornavano alle proprie occupazioni, stando attenti a non incrociare lo sguardo dell’ultimo arrivato nemmeno per sbaglio. L’uomo si concesse un sorriso. Erano tutti condannati.

Julie, la moglie che Olav aveva portato con sé dalle lontane coste della Bretagna, si avvicinò all’avventore, porgendogli una porzione di arrosto di cervo ed un boccale di birra. L’uomo poteva capire i pensieri della donna senza leggere nella sua mente. Odiava Odense. Odiava quel clima rigido. Odiava dover lavorare nella locanda, quando avrebbe preferito andare in piazza sotto le corone di vischio a festeggiare Yule scambiandosi umidi baci con Sven, il bel figlio del maniscalco così diverso da suo marito.

Ma il tempo s’era annuvolato, dannazione, e Julie sapeva per esperienza che la pioggia era peggiore della neve. Perché la neve, l’aveva imparato, sedimenta. Puoi spazzarla via, per uscire da casa e scavarti un passaggio per arrivare dove ti serve. La neve non va da nessuna parte. Resta lì, immobile, fino a primavera. Pura. Ma la pioggia si insinua nelle cose, sporca la neve e la trasforma in un pantano di ghiaccio. Ma più di tutto, Julie odiava quell’uomo, quell’uccello del malaugurio che era entrato proprio mentre lei stava attaccando il grembiule al chiodo per andarsene a letto, e che aveva impantanato coi suoi stivali il pavimento della locanda.

L’uomo decise che lei sarebbe stata la prima. Alzò lo sguardo tagliente sulla donna che lo guardava come se fosse pazzo. Si aspettava forse che si sarebbe avventato sull’arrosto – degli avanzi in cui qualcuno aveva lasciato cadere delle pulci – e sulla birra come se fosse stato l’ultimo degli uomini liberi? La donna non poteva sapere che quello che aveva davanti non fosse un viandante, ma un re, e che probabilmente sarebbe stato l’incontro più sconvolgente di tutta la sua vita, prima che Hel la reclamasse come sua suddita, lei e la cosa che le stava crescendo dentro. La cosa di Sven. Perché quella gente, che si definiva cristiana ma festeggiava Yule per le strade, raccontava ai propri figli di come, un tempo, gli dei camminassero per i sentieri di Midgard travestiti da viandanti squattrinati in cerca di avventure o per ammazzare l’eternità, ma non che facessero lo stesso anche quelli come lui. I Giganti di Jötunneim. E lui era Laufey. Il loro re. Che quella sera era sceso su Midgard con l’intenzione di alleviare il tedio che era calato su Útgarðr, la capitale del suo Reame di ghiaccio. Non era forse a questo scopo che erano stati creati gli umani?

Julie allontanò le mani dalla ciotola di legno e indietreggiò di un passo. Fece un piccolo inchino con la testa e si voltò per tornare il più in fretta possibile in cucina. Nel camino ardeva un grande ceppo di legno di ontano, e nella cucina il focolare era ancora acceso e scoppiettante, eppure avvicinandosi a quel forestiero Julie aveva sentito un freddo, assoluto e pungente, insinuarsi fin dentro le sua ossa. E forse anche oltre.

«Aspettate», disse l’uomo con quella sua voce come un pozzo prosciugato. Lei si immobilizzò, come se fosse diventata di ghiaccio. Si voltò ed incontrò gli occhi senza età del forestiero, che le chiese: «Chi sono quei due fanciulli?».

Julie voltò la testa. Gli unici due fanciulli a cui l’uomo poteva alludere erano quei due che erano entrati qualche ora prima, e che ora stavano accanto al fuoco, a ridere e scherzare uno, e a fissare avidamente le fiamme l’altro. Sembravano gli unici a non essersi accorti dell’arrivo del forestiero. Quei due non si assomigliavano affatto. Il ragazzo biondo era più alto. Più forte. Più in salute. Era a lui che arrivavano i pezzi migliori di carne. Prometteva di diventare un buon cacciatore. Forse, se avesse avuto fortuna, un bravo marinaio. O un guerriero. L’altro, quello che aveva chiesto un posto caldo per entrambi, le ricordava suo figlio, Søren, quella creatura gracile e pallida che non aveva visto la sua settima primavera: magro, smunto, capelli come le ali dei corvi e grandi occhi incollati sulle fiamme che guizzavano nel camino. Erano diversi l’uno dall’altro come il giorno con la notte, ma qualcosa nelle loro movenze rivelava una certa vicinanza. Fratelli, forse? Amici? Sicuramente compagni di qualche bravata, e quale migliore compagno può avere un ragazzo di quell’età, se non suo fratello?

«Non lo so, signore», rispose Julie. Come ipnotizzata. Si voltò ad osservare lo sguardo senza fondo dell’avventore appena arrivato e vi cadde dentro, con tutta la sua coscienza. Laufey sorrise.

«Non lo sai?», chiese il re. E la donna scosse la testa. E scommetto che non sai un’altra cosa. Che gli uomini possono volare, sai?, le disse parlando direttamente al suo cuore. Basta solo volerlo. E tu lo vuoi, vero, Julie? Vuoi volare e fuggire da qui. Vuoi volare da Sven.

Laufey la congedò con un cenno e lei si allontanò a passo svelto, quasi fuggendo dal tavolo; Olav non si accorse che sua moglie corse in cucina, appese il grembiule al chiodo, salì le scale che conducevano all’abitazione dell’oste, chiuse la pesante porta alle sue spalle ed uscì da questa storia e dalla trama della vita sgattaiolando dalla finestra del primo piano.

Eccomi. Eccomi, Sven. Sto arrivando da te. Aspettami. Voleremo via. Insieme.

La neve attutì la caduta. Julie non spiccò il volo, se non nella sua mente, ma continuò a camminare verso la spiaggia, con la sola veste di lana addosso. L’avrebbero ritrovata sulla riva del mare molte ore dopo, quando sarebbe stato troppo tardi, con il sorriso sulle labbra e gli occhi spalancati verso il cielo.

Laufey tornò a fissare i due ragazzi. Aveva compreso che quei due non fossero umani non appena aveva messo piede nella locanda. Che il ragazzo dai capelli d’oro fosse uscito dai lombi di Odino, non v’era dubbio alcuno, ma quell’altro… quell’altro non era un Æsir, e per quanti tentativi il Padre degli Dei avesse fatto per mimetizzare le sue origini, il suo sangue gridava la verità. Ad alta voce. Ma cosa mai avrebbe potuto essere? Un Elfo, forse? Un figlio che il Padre aveva generato con una donna mortale, e che la dolce e paziente Frigga aveva accolto ed allevato con amore come se fosse suo?

Il più alto dei due si accorse che lo sguardo di Laufey era posato sulla schiena di suo fratello minore con un’eccessiva dose di insistenza e di curiosità,  e si voltò verso quel viandante solitario. L’altro ragazzo non s’era accorto di nulla. Fissava rapito il fuoco guizzare verso l’alto, arricciandosi, crepitando, danzando, quasi. Per lui non esisteva la locanda, coi suoi odori, umori e rumori, ma solo quei ceppi schioppettanti. Il fratello maggiore guardò il minore con uno sguardo carico di sentimenti, chiedendosi cosa mai potesse vederci di così interessante nelle fiamme, e se lo chiese anche Laufey; possibile che su Midgard non vi fosse nulla di più attraente per lui di un fuoco che poteva vedere all’opera anche nei grandi camini di Asgard?

«Vado a scambiare quattro chiacchiere con quel viandante, laggiù», sentì dire al ragazzo biondo, pensando che forse, dopo tutto, fosse un bene che il fratello cadetto non si fosse accorto dell’attenzione che aveva attirato su di sé. «Resta qui», e Laufey lo vide avvicinarsi con lo sguardo azzurro e preoccupato. L’altro non aveva dato segno di essersi accorto di nulla. Meglio così.

Laufey li stava osservando con uno sguardo interessato – divertito, forse? – e un sorriso gelido. La presenza dei figli di Odino avrebbe costituito un interessante diversivo al suo eterno tedio.

Fece un cenno al ragazzo, che gli si accomodò di fronte come avrebbe fatto suo padre. Come se fossero due vecchi amici che si incontrano per caso durante una notte di pioggia. E in un certo senso, era così. Chi, più del tuo peggior nemico, conosce tutto di te?
Laufey gli rivolse uno sguardo di sfuggita, prima di fissarsi con attenzione le unghie.

«Salute, straniero…», esordì il ragazzo con un sorriso minaccioso. «Cosa ti porta da queste parti in una notte come questa?»

Straniero. Certo.  E tu cosa saresti, sentiamo? «La stessa cosa che porta te e il tuo amico in queste terre. In una notte come questa», rispose il Gigante del Ghiaccio.

«È mio fratello», disse il ragazzo. Come a sottintendere: «Prima di parlare con lui devi vedertela con me, amico», e Laufey si dimostrò divertito da tutto quel vigore e quell’ardimento. Un cucciolo di leone con la raucedine che crede di star ruggendo, pensò scoccando uno sguardo al ragazzo. Sapeva che Odino aveva avuto tre figli: Balder dalla sua sposa Frigga, che probabilmente se ne era rimasto al caldo, al sicuro e all’asciutto nella reggia di Asgard; Thor da Jörð; e un terzo figlio, il ragazzo che sedeva accanto al fuoco.
«Quindi, è doppiamente tuo amico», rispose Laufey chinando la testa da un lato. «E dimmi, cosa porta due giovani così lontano da casa?»

Il ragazzo si sentì scoperto, ma dal suo sguardo non comparve la consapevolezza di sapere con chi stesse parlando. Laufey non se ne stupì. La magia scorreva prodigiosa nelle vene della sua famiglia, e dubitava che quel ragazzo con appena un accenno di barba su mento e guance avesse mai visto un suo pari dal vivo, ma solo attraverso il racconto delle vecchie nutrici che filavano accanto al fuoco, perché, come dicevano gli umani che si stavano godendo la birra ed il tepore del focolare attorno a loro, quando vedi un Gigante una volta, non lo scordi più.

«Siamo in viaggio», rispose il ragazzo. Evasivo. Segno che erano scivolati di soppiatto lungo il Bifrost per una passeggiata per i prati innevati di Midgard all’insaputa di Odino. E che con tutta probabilità, Odino li stava cercando. Il ragazzo assaggiò del cibo, invitandolo a fare lo stesso. «Non mangi? È delizioso.»
«È troppo caldo», si giustificò Laufey. Ed è troppo cotto. «Non temere, anche se non ho mangiato il loro cibo e non ho bevuto il loro vino, non tradirò questa mensa. Puoi starne sicuro. Lo giuro. Sul nome del Padre.» Come se il giuramento di un Gigante del Ghiaccio valesse qualcosa per voi Æsir, pensò. «Vedo che tuo fratello è come rapito dal fuoco», disse il re di Jötunneim. «Non ne avete, nella vostra casa?»
Il ragazzo lasciò andare l’arrosto di cervo e scoccò uno sguardo truce al suo commensale. «Stai forse insultando la casa di mio padre, straniero?»

La domanda riecheggiò per tutta la sala. L’oste si voltò – stava preparando dell’altra birra – e fissò stupito la scena, incredulo che da quel petto fosse potuta uscire una voce così possente.

Laufey non si scompose. «Non conosco tuo padre, fanciullo», mentì, ma questo non servì a calmare il ragazzo che si alzò e fissò con sguardo truce il forestiero che gli sedeva di fronte.

«Hai offeso la casa di mio padre», ripeté, come se l’altro non l’avesse sentito.

Sciocco, impulsivo e prevedibile ragazzino. «No», ripeté a sua volta Laufey. «Non l’ho fatto», proseguì, mentre qualcosa entrava nel suo campo visivo. Una testa nera, come le ali dei corvi ed il fondo del pozzo dell’inferno.

«Le chiedo scusa per mio fratello, signore», disse il ragazzino. Era gracile. Magro. Debole. Laufey si chiese perché Odino avesse permesso ad una simile creatura di sopravvivere. Non era giusto. Per quella creatura innanzitutto. Non sarebbe stato più clemente esporre questo fanciullo, come aveva fatto lui con la cosa che era scivolata fuori dalle gambe di Falbauti? Che senso ha vivere, che senso ha lanciarsi nell’agone della sopravvivenza non avendone la stoffa? E tu questa la chiami pietà, Odino?, pensò fissando gli occhi verdi del ragazzo.

«Non era sua intenzione offenderla», concluse il ragazzino con una nota d’ansia nella voce.
Laufey scommise che il biondo fratello maggiore dovesse perdere le staffe con molta, molta facilità; e che quelle volte in cui il fratello minore s’intrometteva per sedare le contese, non era raro che anche lui prendesse la sua generosa dose di  pugni. Pugni che temeva si sarebbero riversati sulla sua testa anche adesso. Afferrò la manica della giubba di suo fratello e lo trascinò di qualche passo lontano dal tavolo. O almeno ci provò.

«Quest’uomo ha offeso la casa di nostro padre», scandì il ragazzo più alto, cercando di tenere a freno la furia dirompente che lampeggiava dai suoi occhi azzurri. «Lo capisci, questo?»
«E tu lo capisci che Tu-Sai-Chi non sa che siamo qui?», ribatté l’altro a bassa voce, per non farsi sentire dall’uomo con cui suo fratello s’era quasi azzuffato. «Non dubito della tua forza, fratello. Sono sicuro che potresti avere ragione di lui solo starnutendo. Ma vuoi attirare l’attenzione di nostro padre? Lo vuoi davvero?»

Il re dei Giganti sorrise. Qualcuno con un poco di cervello c’era, dunque, ad Asgard. Afferrò il boccale di birra e si rivolse ai fanciulli. «Ragazzi», li chiamò. E loro si voltarono. «Venite. Appianiamo le contese come fanno gli uomini», disse alzando il bicchiere davanti a sé. Uno sguardo preoccupato s’impadronì degli occhi verdi del fratello minore, mentre un ampio – e stolto – sorriso inarcò le labbra del fratello maggiore.

«Io non so se…», disse il ragazzo più giovane, ma l’altro si era già seduto davanti a Laufey, con tutta l’aria di voler partecipare a qualsiasi proposta quel forestiero gli avesse fatto.

«Prendi il mio boccale, fratello», disse fissando lo sguardo azzurro in quello del suo commensale.
«Io…»
«Prendi. Il mio. Boccale», ordinò. Con il cipiglio degno di un principe.

«Non ti servirà il tuo boccale», disse Laufey, estraendo un corno da caccia da sotto il proprio mantello. I due ragazzi lo fissarono rapiti. Era di corno, lungo quasi due piedi, e proveniva dalle zanne di un qualche animale. Un mammuth, per la precisione, che Laufey aveva abbattuto con le sue stesse mani prima che iniziasse la guerra contro Odino ed i suoi Æsir, che l’inferno se li ingoiasse tutti.

Le decorazioni, frutto delle abili mani dei Nani, si snodavano su tre fasce. La più vicina all’imboccatura, sagomata a forma di lupo, ritraeva un leone possente che cacciava un cervo, giovane, forte e succulento, non come la bestia che era finita nella sua ciotola.
Al centro, un motivo geometrico che ricordava le rune, ma che non erano le rune. Perché Odino, appendendosi all’Yggdrasil, le aveva ottenute per sé, custodendole gelosamente; ma questo i due fanciulli ancora non potevano saperlo.
L’ultima fascia, quella posta alla fine del corno, ritraeva una scena di battaglia. Un uomo, in sella al suo destriero, torreggiava sul nemico che aveva disarcionato e che attendeva inerme tra le zampe del destriero del vincitore che questi lo trapassasse con la sua lancia. Le cose non erano andate poi tanto diversamente. Laufey aveva cavato con una lancia un occhio al Padre degli Dei, pur se aveva perso la guerra. Aveva sbagliato a non ascoltare il consiglio di Laurin, il fabbro del Re dei Nani, di far incidere il suo nome accanto all’immagine del vincitore e quello di Odino accanto al guerriero disarcionato.
Si ripeteva che Laurin gli avesse chiesto un prezzo troppo alto per quest’ultima decorazione e un prezzo troppo alto per il corno stesso. Non era forse questo il motivo per cui Laufey l’aveva fatto gettare nel pozzo più profondo di tutto il suo regno, incurante delle sue maledizioni?

«Splendido», disse il ragazzo dai capelli d’oro, mentre l’altro socchiuse gli occhi. Che ci fa un uomo della tua risma con un oggetto così meraviglioso?, sembrava dire il suo sguardo. Era intelligente, quel ragazzino. Che Odino avesse visto in lui qualcosa di utile, dopotutto?

«Quest’oggetto si tramanda nella mia famiglia di generazione in generazione. È la cosa più preziosa che ho», mentì Laufey, perché la cosa più preziosa gli era stata portata via da Odino, gli era stata sottratta come spoglia di guerra. La cosa più preziosa di tutta Jötunneim era lo Scrigno degli Antichi Inverni. Che ora prendeva polvere in chissà quale anfratto della reggia di Asgard. «Berremo da questo corno a turno. E per dimostrarvi la mia buonafede, berrò io per primo. Oste! Birra!», esclamò alla fine.

Mentre l’oste si puliva le mani sul grembiule unto, Laufey sentì il ragazzino dai capelli neri cercare di far desistere il fratello dalla bevuta incombente.
«Rifiuta. Lascia stare. Dobbiamo ritrovare Fandral e gli altri e tornare a casa. Vuoi metterti alla loro ricerca da sbronzo?»
«Non posso. Ne va del mio onore», ribatté l’altro. Stava già pregustando il sapore della birra giù per la gola e no, non avrebbe receduto dai suoi progetti nemmeno se suo padre fosse piombato in quella locanda e l’avesse trascinato via di peso.

Onore. I tuoi figli sono davvero sciocchi, Odino.

L’oste arrivò, con un barile di birra. «Portane altra. Questa non ci basterà che per iniziare», disse Laufey mentre l’uomo versava il liquido ambrato nel corno. Il re dei Giganti bevve per primo, ed in una sola sorsata svuotò il corno.
«Visto? Che t’avevo detto?», sorrise maligno. «Porta tutta la birra che hai. E portala subito», ordinò. E Olav obbedì.
Scese in cantina e ne portò su tre barili pieni, senza chiedersi come avrebbe pagato tutta quella birra quell’uomo che era entrato nella sua locanda dicendo di non avere monete ad appesantirgli le tasche. Frattanto, un gruppetto di persone si era voltato verso il tavolo occupato dai tre forestieri, guardando con curiosità la scena. Tra non molto avrebbero cominciato a darsi di gomito e a scommettere tra di loro se quel ragazzo biondo e di bell’aspetto si sarebbe rivelato un buon bevitore. Olav trotterellò verso il tavolo, contagiato dall’allegria generale di questo tipo di situazioni.

In una taverna possono accadere due cose: o gli avventori bevono ognuno al proprio tavolo, oppure si ubriacano tutti insieme. E quando si ubriacano tutti insieme o scatta la rissa, oppure bevono fino a cadere sbronzi sulle assi del pavimento. Olav preferiva le ubriacature di massa, perché gli consentivano, a cose fatte, di gonfiare un po’ il quantitativo di birra che i suoi avventori avevano tracannato. E ancora obnubilati dall’alcol in corpo, difficilmente controllavano i conti, limitandosi a smoccolare tra i denti e a pagare, magari anche a rate.

Laufey prese il fusto che Olav gli stava passando e riempì personalmente il suo corno prima di porgerlo al biondo figlio di Odino. «A te…», gli disse.

Il ragazzo prese il corno, diede una profonda sorsata, ma quando guardò all’interno per vedere quanta birra avesse bevuto, s’accorse che il liquido era ancora al livello del bordo. «Come…», disse sgranando gli occhi. Il fratello lo guardò con apprensione.

«Fratello, non continuare, ti prego. È ovvio che…» ci sia un trucco, stava per aggiungere il ragazzino dai capelli neri, ma Laufey lo interruppe.
«Sei ancora giovane», concesse il re dei Giganti. Perché quel ragazzino aveva visto giusto, il trucco c’era e solo uno stolto non se ne sarebbe accorto; ma lui stava appena incominciando a divertirsi, e sarebbe stato un peccato fermarsi. «Avanti, bevi ancora. Sono sicuro che con un altro sorso ce la farai.»

Silenzioso per l’umiliazione, il ragazzo accostò le labbra al corno e bevve di nuovo, bevve fino a riempirsi la gola e lo stomaco, fino a non avere più aria nei polmoni. È fatta, si disse asciugandosi le labbra, ma quando guardò nel corno si accorse con sgomento che il livello della birra s’era abbassato solo di un paio di dita. Impallidito, il figlio di Odino guardò l’uomo che aveva davanti. E che lo osservava con curiosità.

«Ancora niente, eh?», chiese Laufey. «Forse sei troppo giovane, per bere come un uomo?»
«Fratello, te ne supplico… basta…», provò a dire il ragazzino pelle e ossa prima che una manata del fratello maggiore lo mandasse a gambe all’aria sul pavimento.

«Silenzio», disse. Thor, perché di lui si trattava, anche se Laufey non poteva saperlo, furente per la figura rimediata, inspirò aria, accostò le labbra all’avorio del corno per la terza volta e bevve fino quasi a farsi scoppiare i timpani. Il re dei Giganti lo fissò con preoccupazione. Il volto del ragazzo diventò sempre più rosso, fino ad assumere un colorito inquietante.

«Fratello… Fratello, adesso BASTA!», disse il ragazzino. Con una luce velenosa negli occhi. Laufey poteva sentire la mente di quel giovane urlare contro al fratello maggiore.

 È colpa tua. È sempre colpa tua. Se siamo finiti su Midgard. Se abbiamo perso quegli altri. Se ci troviamo in questo pasticcio. È sempre colpa tua. Perché non usi mai la testa? Perché non mi dai mai ascolto?!

In quel mentre, la porta si spalancò. Entrò un uomo, accompagnato da tre giovani uomini. Attraversò la sala con un rapido sguardo del suo occhio color del ghiaccio che spiccava sotto la falda del cappellaccio marrone e batté il suo bastone sul pavimento. Olav fece per dire qualcosa al gruppetto appena arrivato, di accomodarsi accanto al fuoco, forse, ma cadde a terra come fulminato assieme agli altri avventori, addormentati in un sogno di piombo. Non avrebbero ricordato nulla di quella serata, e i sogni che li avrebbero accompagnati per qualche tempo sarebbero stati attribuiti all’alcol tracannato per festeggiare Yuletide.

«Dunque siete qui», disse l’uomo. E dal suo tono si poteva dedurre che fosse molto, molto adirato.
Laufey sorrise, pur non abbassando la guardia. Dopotutto, era pur sempre Odino quello che era appena entrato nella locanda di Odense, giusto? E non c’era più niente da scherzare, se il Padre degli Dei si trovava nei paraggi. Anche se lui non aveva fatto nulla di male. Ancora.

«Padre, iohotentatodifermarlomaluinonmihadatorettae…», disse tutto d’un fiato il ragazzino dai capelli neri, bianco come la neve per lo spavento di trovarsi faccia a faccia con suo padre, nel tentativo di trovare una scusa che lo salvasse dalla giusta punizione. Ma suo padre, o quello che si spacciava come tale, non attese di conoscere la sua versione dei fatti. Si avvicinò a passo marziale al tavolo, scoccò un’occhiata di fuoco a Laufey, il quale fece un gesto di saluto con il capo, e disse ai suoi figli: «Fuori.».
Il ragazzino dai capelli neri abbassò il capo ed ubbidì. Raccolse il suo mantello, gettò un ultimo sguardo al fuoco che andava spegnendosi nel camino, e si avviò mesto verso la porta.

«E tu?», chiese all’altro figlio, che era rimasto immobile accanto al tavolo.
«Padre, io sto ancora…»
«Non mi interessa cosa tu stia o non stia facendo, figlio. Alza il tuo culo da quella sedia ed esci. Subito. Da qui.»
Laufey si alzò. «Forse non avrei dovuto sfidare tuo figlio, Padre. Ma lui si comportava come un uomo. E come tale l’ho trattato…», disse con un sorriso malvagio, meritandosi uno sguardo indecifrabile da parte del re di Asgard.
«È solo un ragazzo!»
«Un ragazzo con la lingua troppo lunga», chiosò Laufey. Recuperò il suo corno, si calcò il cappellaccio sulla testa, si avvolse nel mantello ed uscì dalla locanda, lasciandoli alle loro beghe familiari e bevendo la birra che il giovane Thor non era stato in grado di tracannare. Sì, era solo uno sciocco, impertinente ragazzino che aveva bisogno di una bella lezione che ridimensionasse il suo orgoglio. Che male c’era se a dargliela era stato un nemico, e non un amico di suo padre?

«Signore?»
Quasi inciampò nel ragazzino dai capelli neri, che si riparava dalla pioggia sotto alle assi spioventi del tetto. «Che fai qui, monello? Non farei adirare ancora tuo padre, fossi in te», gli disse fissando i suoi occhi verdi. Chi sei tu? Da quale grembo mortale sei uscito fuori per essere così gracile?
«Mio padre è già adirato», rispose il fanciullo. «Per buona grazia di mio fratello. E poi, io gli sto solo obbedendo. Mi ha detto di uscire fuori, non di non parlare con chi avessi trovato all’esterno.»
Laufey sorrise. Sì, c’era qualcosa di utile in quel ragazzino. La mente, forse. O forse no. «Cosa vuoi?»
«Il corno da cui ha bevuto mio fratello era magico, vero? Non negatelo.»
«Sì. Era magico.»
«Stava bevendo cosa? Le acque di un lago?»
«Quell’arrogante di tuo fratello stava bevendo le acque del mare», disse Laufey toccando il proprio corno sotto al mantello. «Non avrebbe mai potuto vincere.» Per fortuna, aggiunse tra sé e sé.
«Lo supponevo», ribatté il fanciullo, osservando con occhi da gatto il rigonfiamento al fianco di Laufey.
Il re dei Giganti incrociò le braccia. «Avvicinati, ragazzo», disse, facendogli cenno. «Voglio farti un regalo.»
«Un regalo?», chiese il ragazzino. Dubbioso.

Ecco qualcuno con un po’ di sale in zucca, pensò Laufey. Perché, anche se non aveva compreso chi fosse in realtà, anche un cieco si sarebbe accorto che tra lui ed Odino non correva buon sangue. Anzi. Forse il Padre degli Dei aveva raccontato al ragazzo della battaglia di Jötunneim, davanti ad un bel fuoco scoppiettante, abbellita a suo uso e consumo, ma il ragazzo non poteva sapere che davanti a lui si trovasse proprio quel nemico, quel Laufey che, pur perdendo la battaglia, si era portato dietro l’occhio azzurro di Odino. E se l’ha intuito, sta fingendo molto, molto bene.

«Sì. Un regalo. Non tenterei mai di ingannarti.» Non con tuo padre a meno di una iarda di distanza, almeno. «Tu e tuo fratello avete rallegrato la mia serata. Avete spazzato via il tedio e la noia, e voglio ringraziarvi. Ma poiché tuo fratello è troppo preso da sé per comprendere il dono che vorrei farvi, ho deciso di darlo solo a te. Che ne farai un uso migliore.»

Il ragazzino si avvicinò. Era proprio quello che voleva sentirsi dire. Finalmente qualcuno che riconosceva il suo valore e le sue qualità. Qualcuno che riconosceva la sua superiorità sull’odiato e amato fratello maggiore. Qualcuno che voleva dare qualcosa a lui e a lui solo.

«Chiudi gli occhi», disse Laufey, e quando il ragazzo ubbidì, pose le sue dita sulle palpebre chiare. Prese un sacchetto di pelle di capra che portava stretto alla cintura, ne estrasse un po’ di polvere e la soffiò sugli occhi del ragazzo. «Fatto.»
Loki aprì gli occhi e si guardò intorno, stupito. «Per i Nove Regni, cosa…»
«Hai ricevuto un soffio di magia», gli spiegò Laufey e schioccò le dita. «La stessa che anima il mio corno.» La stessa che Odino tiene tutta per sé, pensò prima di superare il ragazzino, intento a vedere per la prima volta il respiro della magia correre lungo Midgard.
«Signore!», gridò il ragazzo, gli occhi verdi che brillavano nella notte. «Signore… perché?»

Non chiese chi fosse o da quale Reame provenisse, solo perché. Ma perché, cosa? Perché gli avesse concesso quel dono, o perché fosse sceso su Midgard con un tempo simile? Oppure perché non li avesse falciati con un solo gesto della mano?

«Curiosità», rispose il gigante riprendendo il cammino. Con una sincerità che stupì lui per primo. Sì, era sempre stato un tipo curioso. Curioso di capire perché il Padre degli Dei difendesse così tanto quella pianura di fango che era Midgard. Curioso di vedere che facce avessero i figli di Odino, curioso di conoscere quali teste avrebbe fatto cadere al suolo mozzandole con la sua lancia. Perché sì, tra Asgard e Jötunneim c’era una tregua, una pace armata imposta da Odino molto tempo prima, quando il mondo era ancora giovane e gli uomini sapevano riconoscere un essere soprannaturale, quando questi incrociava le loro patetiche esistenze. Ma niente dura in eterno, e questo lo sapevano entrambi, sia Laufey che Odino. Prima o poi ci sarebbe stato qualcosa che avrebbe spinto di nuovo i due eserciti l’uno contro l’altro, ancora una volta, e ancora e ancora e ancora. Quelle tregue, quelle pause, altro non erano che un momento di respiro per dei guerrieri, che, presto o tardi, avrebbero ripreso in mano le lance e fatto scorrere il sangue.

Fiumi di sangue, pensò Laufey guardando le spalle gracili del fanciullo dai capelli neri che amava fissare il fuoco. Sì, sarebbero caduti tutti. Dal primo all’ultimo. Ma quel ragazzino… quel ragazzino l’avrebbe falciato per primo. Perché l’aveva fatto divertire.
 


NOTE:
Secondo la mitologia norrena, l’universo è costituito da Nove Mondi, collegati tra di loro tramite i rami del magico frassino Yggdràsil, che sorregge l’intero universo.
Jötunneim è il mondo dei Giganti di ghiaccio e di pietra, che vivono principalmente ad Útgarðr (lett. Recinto di Mezzo), la capitale. Nel film, i giganti sono fatti solo di ghiaccio.
Laufey è la dea delle foglie, e Farbauti il dio del fulmine, il quale, colpendo la sua compagna, avrebbe generato il fuoco, Loki. Nel Marvelverse Laufey è diventato un uomo e Falbauti una donna. In più, Laufey ha subito uno scatto di carriera ed è stato fatto Re dei Giganti.
Asgard è la dimora degli Dei. È collegata a Midgard (lett. La Terra di Mezzo), il Mondo degli Uomini, tramite il Bifrost, l’arcobaleno. Gli Æsir appartengono ad uno dei due ceppi delle divinità che abitano Midgard. Gli altri sono i Vani (Freya e Freyr).
Odense, la città da cui proviene Andersen, sorgeva accanto ad un famoso tempio dedicato ad Odino.
Yule è la festività del calendario pagano che cade all’incirca attorno al Solstizio d’Inverno; nonostante la cristianizzazione del Nord, non si riuscì a sradicare la consuetudine di festeggiare in questa data il dio Freyr sacrificandogli un maiale. Ancora oggi nei paesi scandinavi è consuetudine consumare carne di maiale durante le festività natalizie.
Il mito della bevuta dal corno è riportata da Snorri in un libro dell’Edda in prosa, il Gylfaginning : Thor, Þjálfi e Loki incontrano il gigante Skrymir e decidono di accompagnarlo ad Útgarðr, dove sono messi alla prova da Útgarðr-Loki, il re dei Giganti. In questa storia, il suo posto è preso da Laufey.
 
   
 
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