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Autore: Maya98    28/10/2013    2 recensioni
Carry you over, to a new morning.
"È cambiato, lui, è invecchiato: il tempo ha lasciato i suoi segni profondi anche sul suo viso che risplendeva sempre giovane e fresco come una rosa: ora i suoi morbidi riccioli corvini si sono tramutati in setosi capelli argentei, grigio scuro, dai filamenti armoniosi e inframmezzati da qualche ciuffo bianco candido, e le sue guance e le sue mani imperfette di chimico sono solcate da rughe profonde, le labbra sbiadite. Però il suo sguardo è ancora quello di sempre: azzurro cristallino, blu profondo come il mare in tempesta, verde brillante come l’arrivo dell’estate: gli occhi che lo trafiggono in quel momento sono gli occhi stessi che aveva una volta."
Retirement!lock
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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È da anni che sogno di scrivere una retirement!lock che tratta di questo argomento, da quando rosieposie77 e Macaron si sono imbarcate nell’impresa (con risultati meravigliosi), ma non l’ho mai fatto. Ciò che mi ha dato l’input per iniziare questa sono state la meravigliosa ‘We’re still here’ di RossKL e ‘The Beginner’s Guide to the Apiology’, tradotta un paio di giorni fa. Mi hanno spezzato il cuore e mi hanno fatto irrimediabilmente venire in mente questa.

La dedica va tutta a Ritux, la meravigliosa autrice di ‘Epitaph’, con cui ho avuto modo di parlare attraverso internet in questi mesi e ho scoperto essere una persona fantastica. :)

Spero che vi piaccia :) Come sempre le recensioni sono gradite. Buona lettura!

 

 

Colonna sonora consigliata:

Se vi piace la musica classica:  http://www.youtube.com/watch?v=AHEj2nJg36M

Se non vi piace la musica classica: http://www.youtube.com/watch?v=ndPEQqqURXU

(in realtà consiglio la prima nella prima parte, la seconda verso la fine, che è più triste :.:)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Hallo, I’m your mind, giving you someone to talk to (1)
Carry you over, to a new morning (2)

 

 

 

 

È un forte colpo di tosse, a svegliarlo.

Apre lentamente gli occhi, con le palpebre che premono ancora pesanti e le pupille rovesciate, lasciando che il suo sguardo scivoli lungo le sue mani in grembo, ancora strette al libro che stava leggendo prima di appisolarsi: è scorso lungo le sue gambe, ma è ancora aperto alla pagina corretta. La sue lettura non deve essere stata così interessante, visto con quale indolenza ha ceduto il passo al sonno, al posto che quelle pigre parole sulle ultime novità di medicina. È irremovibile, in questa sua battaglia: vuole tenersi aggiornato sulle ultime scoperte in un campo di cui si è interessato per ben più di metà della sua vita. È impressionante vedere come certe cose venivano considerate impossibili ai suoi tempi, ed ora rasentano la normalità; anche se c’è da dire che per i suoi occhi stanchi queste fatiche non sono poi così soddisfacenti, come dimostra il suo essersi tranquillamente appisolato. Chiude con delicatezza il tomo, le dita che sfiorano le pagine con devozione, tenendone il segno, e poi lo appoggia sul tavolino al suo fianco. Da qualche parte nella stanza, non saprebbe dire l’esatta collocazione, un altro colpo di tosse attira la sua attenzione.

Prende un lungo respiro, prima di alzare gli occhi e incontrare la sua figura:-Quante volte ti ho detto che fumare ti avrebbe fatto male?-chiede stancamente.

Sherlock sbuffa in risposta, prima di essere interrotto da un altro forte colpo di tosse. Porta gli occhi su di lui, guardandolo con aria quasi di disapprovazione. È cambiato, lui, è invecchiato: il tempo ha lasciato i suoi segni profondi anche sul suo viso che risplendeva sempre giovane e fresco come una rosa: ora i suoi morbidi riccioli corvini si sono tramutati in setosi capelli argentei, grigio scuro, dai filamenti armoniosi e inframmezzati da qualche ciuffo bianco candido, e le sue guance e le sue mani imperfette di chimico sono solcate da rughe profonde, le labbra sbiadite. Però il suo sguardo è ancora quello di sempre: azzurro cristallino, blu profondo come il mare in tempesta, verde brillante come l’arrivo dell’estate: gli occhi che lo trafiggono in quel momento sono gli occhi stessi che aveva una volta. L’espressione di rimprovero che ha dipinta tra i tratti è la classica ‘John, dovresti sapere che queste cose non mi interessano, “quel qualsiasi cosa di cui tu stia parlando” è noioso”, e anche quella non è mai cambiata, non davvero. Al pensiero, John emette uno sbuffo divertito, bloccato immediatamente dal successivo colpo di tosse dell’ex-consulente investigativo, che si copre la bocca con una mano.

-Posso controllarlo.-dice Sherlock.

-A me non sembra,-fa notare John, aggrottando le sopracciglia e tornando a squadrarlo da sopra il suo libro:-Altrimenti ti staresti trattenendo.

-Che differenza fa, ormai, che non c’è più tempo?

Il medico scuote la testa, sospirando pesantemente e tornando a guardare l’altro con espressione severa e senza compassione:-Mi sto solo preoccupando per te.-replica, sapendo bene quale sarà l’uscita a questa sua risposta.

Sherlock, infatti, sbuffa di nuovo e distoglie lo sguardo, tornando al suo libro di chimica, senza replicare nulla.

Preoccuparsi per lui. È quello che ha sempre fatto, in fondo. Sia che lui fosse presente, sia che lui fosse assente, sia che fosse arrabbiato con lui o davvero gratogli. In ogni caso, in ogni situazione, lui non ha mai fatto altro che preoccuparsi di Sherlock. Ed ora, che quando si guarda allo specchio spesso non si riconosce — per via dei capelli grigi, lo sguardo spento e i solchi profondi che il tempo gli ha abbandonato sopra, le spalle incurvate — anche adesso non può fare altro che farlo costantemente. Preoccuparsi.

Ci sono giornate dove il sole brilla inaspettatamente su quella zona di Sussex. In quelle giornate i raggi filtrano tra i vetri e le tende verdi delle finestre, illuminandogli il soggiorno e l’umore: in quei momenti fa abbastanza caldo per uscire a passeggiare un po’ lungo i prati verdi chiaro e le colline sterminate, poiché il clima lo permette: non è il caso di maltrattare a lungo le loro povere vecchie ossa con umidità e freddo. I tempi in cui correre per mezza Londra all’inseguimento di un criminale o di un taxi era cosa ordinaria, sono trascorsi e sbiaditi, lasciando dietro di loro una scia di ombre e orme lente su una strada fangosa. In quelle giornate camminano fino alla scogliera dove un giorno è sparito un bambino, rapito dalle burrascose onde del mare. Fermi ad ascoltare, nel silenzio, poiché non servono parole tra loro. Rimangono a guardare il pigro affaccendarsi dei flutti sotto di loro, che si mescolano, si spostano, schiumano o ruggiscono al vento. John non credeva, un tempo, che l’osservazione del lento naufragare dell’acqua su sé stessa potesse quietare l’animo dell’ex-detective, ma l’unica volta in cui glielo ha chiesto, la risposta è stata la medesima che riserva alle stelle: “Se qualcosa non mi interessa non significa che io non possa apprezzarla.”

Si era dato alle api, per qualche tempo, prima che la debolezza vincesse anche sulla sua capacità di occuparsene. Il miele era dolce e in grande quantità, tanto che ne hanno ancora barattoli pieni nelle dispense, di ogni tipo. Le arnie fuori dalla porta prendono lentamente polvere, così come ogni alba che sorge su quella casa, ogni tramonto, ogni luna. Anche loro, forse, stanno prendendo polvere, sepolti in una vecchiaia che non si addice a nessuno dei due, poiché nessuno dei due si era mai immaginato di arrivare fino a quest’età. Ma il tempo passa, e per quanto Londra manchi loro più di quanto gli piaccia ammetterlo, il Sussex è un dolce lasciarsi andare, alternando momenti di quiete a momenti di distrazione, confinati nella reciproca compagnia, come entrambi, per quanto poco gli piaccia ammetterlo, hanno sempre voluto. Ci sono quei giorni dove il sole splende, e allora arrivano anche al parco del paese, dove si abbandonano su una panchina all’ombra e scrutano i passanti. Sherlock deduce a John ogni cosa su di loro, ma sottovoce, diversamente da come faceva in gioventù: è come se ormai l’unico pubblico di cui gli importi sia lui, e pertanto fa sì che lui sia l’unico partecipe alle ultime brillanti scintille della sua genialità, che non è mai cambiata. Il tempo ruba a loro secondi, mentre loro sottraggono alle persone ignare le loro stille di vita. Li spiano, nascosti dietro ad un velo di indifferenza che li scherma dal mondo esterno, rifugiandoli nella loro nicchia, e rubano loro l’anima (3). Sherlock gli bisbiglia i segreti di tutte quelle persone, le labbra che sfiorano il suo orecchio, gli occhi semi aperti ma vigili, appoggiato completamente allo schienale della panchina, rilassato nel suo elemento. Non c’è una sola parte di loro che si tocchi veramente, se non le mani intrecciate vicino alle loro ginocchia, ma ogni cosa in loro si sfiora con delicatezza sfuggente, eludendo la distanza, illudendo la realtà materiale. È sempre stato così tra loro: un balletto di sguardi, contatti fugaci, occhiate che danzavano in una corte infinita, senza mai trovare un punto di contatto.

Non c’è stato un momento preciso in cui hanno deciso di stare insieme. Semplicemente, dopo il Ritorno (che aveva avuto l’onore della maiuscola esattamente come la Caduta), John ha smesso lentamente di frequentare donne, trascorrendo tutto il tempo con lui. Non lo aveva mai espresso ad alta voce, ma entrambi sapevano che la paura di averlo smarrito per sempre lo aveva portato a non volersi perdere più neanche un suo secondo.

Chiarire il loro rapporto, anche quella è un’impresa che non hanno mai affrontato. Che bisogno ce n’è, poi? Tra loro non sono mai occorse più che le parole necessarie. E i sorrisi, l’intesa che c’è tra loro, parlava davvero per entrambi.

Non c’è mai stato un bacio, o del sesso, tra loro, ma nessuno dei due poteva negare, già allora, che ormai la loro amicizia era andata oltre i confini delle etichette e delle definizioni. Una sola volta Sherlock si era azzardato a condurre una specie di discorso del genere — era una sera d’autunno di molti anni prima, e aveva appena finito di suonare Paganini davanti alla finestra, avvolto dalla sua vestaglia rosso carminio. Le luci della città sbiadivano sotto la sottile pioggia che bagnava la terra, ticchettando piano come un orologio, e il freddo si infiltrava piano tra le fessure della porte, le finestre, le pareti. Aveva alzato lo sguardo verso John ad esecuzione completata, con quello sguardo che appariva sempre tormentato, arrovellato su un rompicapo insolvibile, senza dire nulla per un paio di minuti. Poi aveva chiesto, ad un filo di voce:-Ti manca mai, avere una relazione normale?

Il medico lo aveva guardato come si guarda un bambino ingenuo, con compassione e affetto, un amore sconfinato negli occhi. Poi aveva sorriso, tornando a coricarsi sulla poltrona in attesa di un’altra esecuzione, con tranquillità. E aveva detto, nel pacato modo con cui rispondeva ogni volta:-Non ho bisogno di una relazione normale per star bene con te.

Tutto qui: tutto in quelle parole. E nessuno aveva più sentito il bisogno di parlarne ancora.
In fondo, andava bene così.

 

-Se dovessero diagnosticarti un cancro ai polmoni, giuro che ti ammazzo con le mie stesse mani, artrite o meno.-mastica l’uomo con calma, fissando l’altro con pacatezza, la schiena ancora comodamente adagiata allo schienale della sedia.

Sherlock alza un sopracciglio, sottile e argentato.

-Non è che mi sottrarrebbe così tanti anni di vita.

-Non voglio che tu muoia prima di me.-ribatte velocemente John, con tono più duro, più fermo. Respira profondamente, passandosi le mani sulle ginocchia, sfiorando attraverso il tessuto della vestaglia le vecchie cicatrici di guerra. Sorride soprappensiero:-Ho già sperimentato la vita senza di te per tre anni. Toccherebbe a te subire un po’ dell’ingiustizia della morte, non credi?

-È una cosa stupida.-commenta l’ex-consulente investigativo, modificando il tono. Prima non aveva alcuna inflessione nella voce, ma questo è quietamente più allarmato, più disperato. Tremante, quasi. Diverso in tutto e per tutto.

-Se tu non avessi qualche malattia, sarebbe più probabile che morissi prima io.-continua John a bassa voce, anche se è certo di ripetere cose che l’altro sa bene. Semplicemente sente il bisogno di parlargliene, con calma, quando è ancora abbastanza lucido per farlo:-Tu sei più giovane, e per di più sono invalido e malmesso.

-Non voglio continuare questo discorso.-dice Sherlock, bruscamente, battendo una mano sul bracciolo della poltrona, quando una volta sarebbe scattato in piedi e avrebbe cambiato stanza per dedicarsi ad uno dei suoi esperimenti:-Non mi piace che ne parli. Non voglio.

-D’accordo.-cede l’altro, con un sorriso triste, pinzandosi la radice del setto nasale tra due dita con fare pensieroso, a bassa voce:-Ne parleremo quando sarai pronto. Anche se è bene pensarci, sai. Non dovrebbe essere molto lontano.

Non è pessimista, ma semplicemente un medico. Sa come funzionano le persone, e soprattutto sa come funziona Sherlock, anche se ha speso mezza vita per riuscire a decifrare il suo complesso e unico manuale di istruzioni per l’uso. Si passa le palme sugli occhi, respirando lentamente, assaporando l’aria con la bocca. È così bella, la vita, alla fine. È riuscito ad avere la felicità, qualcosa che pochi esseri umani riescono a raggiungere.

E tutto grazie ad una persona.

-John, comincia...arriva.-dice Sherlock, in un soffio di voce, guardandolo con gli occhi spalancati che chiedono aiuto. L’ex-medico sa bene cosa voglia dire quello sguardo: è lo sguardo di qualcuno che prega in silenzio un aiuto per salvarsi da sé stesso, un aiuto che può ricevere solo da una persona. Sherlock non lo chiede mai ad alta voce, non lo sussurra mai, non lo pensa neanche: lui lo esprime con gli occhi, semplicemente guardandolo. Ricorda una delle ultime volte in cui lo ha visto, qualche giorno prima: aveva fatto cadere un bicchiere e si era accorto improvvisamente di non riuscire più a chinarsi a raccoglierlo.

Ma quello è diverso. È qualcosa di molto più frequente.

È una crisi di noia. ‘Crisi’ è esattamente la parola migliore per definire la tempesta in arrivo, l’ha sperimentato con gli anni. Così come ne era soggetto da giovane, questa maledizione non gli concede tregua nemmeno con l’età che avanza, nemmeno con le membra che cedono, nemmeno con il tempo che scorre. Anzi: il fatto che il suo corpo sia ormai quasi impossibilitato del tutto allo sfogo accanito per tirarsi fuori da essa, questa si fa più frequente, minacciosa, devastante.

John è un medico, e sa come curarla. Ha avuto a che fare con molte altre crisi prima di questa. Semplicemente, bisogna trovare a Sherlock un passatempo abbastanza interessante per permettergli di distrarsi fino a crisi terminata. Ci sono tante cose che fanno, in questo caso. Alcune volte John estrae il portatile dalle grosse pile di carte e di vecchi appunti, sulla scrivania al fianco della loro mensola, quella su cui giacciono a prendere polvere tutti i libri che ha scritto su di loro, rilegati in rosso (ogni tanto ha lo sfizio di prenderne uno e rileggerlo, le dita a sfiorare le pagine con le lettere che un tempo ha vergato, in modo che la memoria di loro rimanesse eterna nei secoli a venire; ma non lo fa più così spesso perché sono molto in alto e lo sforzo non è poco). Mette in carica il laptop, aprendo internet, alla ricerca di un vecchio caso irrisolto che non necessiti movimento per giungere finalmente alla soluzione. Allora si siedono sul divano e analizzano insieme ogni cosa, le prove, le teorie, i sospettati, i verbali: tutto quanto. Lavorano insieme come hanno sempre fatto.

Altre volte, se il tempo non permette le loro passeggiate, giocano a scacchi e a dama. Il Cluedo è stato crudamente abbandonato perché otteneva l’effetto contrario a quello sperato: anziché placare Sherlock, lo irritava a morte. Sono lunghe partite di silenzio e ragionamento, e a dispetto di quanto si possa pensare, John è molto bravo a tenere testa all’ex-detective. Il ticchiettio della pioggia accompagna spesso queste loro sedute.

Altre volte, John gli permette di fare qualche esperimento innocuo. Ormai è difficile che maneggi sostanze delicate o pericolose, poiché la vecchiaia gli ha portato un indesiderato tremore alle mani che gli impedisce la precisione millimetrica. Spesso e volentieri, invece, prende il violino e inizia a comporre qualche melodia mai completata prima, deliziando John con i giochi di armonie e colori. Adora quando Sherlock non si limita ad eseguire un brano di altri: nell’andamento dei suoi componimenti riesce a scorgere sempre uno spicchio in più della sua personalità. Ed è una scoperta meravigliosa ogni volta.

Ed è la stessa cosa che fa ora.

John gli porge il violino, cercando di non allungarsi troppo. Sherlock sparge la pece sull’archetto e gli dà un’accordatura veloce, saggiandone il suono come se fosse la prima volta.

La melodia è sorprendentemente quieta, all’inizio. Ci sono lenti legati, dove l’archetto scivola dolcemente sulle corde come per assaporarne il suono. I forti vibrati sono inaspettati, ma quando giungono cono seguiti da secchi colpi di archetto che formano una sequenza di esplosioni simili a quelle di un campo minato. Sherlock ha gli occhi chiusi, ma John sa quali pensieri gli stanno scorrendo per la mente. E sorride. (4)

Finita la tempesta della guerra musicale, Sherlock si lascia andare in una serie di note leggere verso l’alto, che si interrompono con una pausa carica di aspettativa. La musica che ne segue è andante, moderata ma non frenetica, colma di meraviglia e stupore. Tra un fraseggio e l’altro, John non fatica a ricostruire il loro incontro, dietro alle palpebre chiuse. La melodia si anima quando si arriva al punto chiave: ci sono corse e inseguimenti folli di note una dietro l’altra, a precipizio, sempre più veloci, sempre più incalzanti, in un ritmo irrefrenabile. Sono intervallate dai momenti di quotidianità, dove tutto torna ad essere dolce e avvolgente, la musica da focolare nelle notti d’inverno. Ci sono le note d’ansia, quelle strazianti dell’angoscia, e quelle che nascondono un sottofondo di serenità che John trova toccante. Il ritmo cede solo verso la fine, trasformandosi in un lento adagio, suono dopo suono, armonia dopo armonia. Ma l’ultima nota — oh, come imprevedibile! — è lunga, forte e vibrata, quasi prepotente. È il non arrendersi di Sherlock alla fine, è il non voler accettare che dopo i fuochi d’artificio ci sia il riposo e la quiete e il silenzio.

Il suo non accettare la morte.

Una volta qualcuno aveva detto a John che Sherlock non esprimeva le proprie emozioni. Ora lui sa che non è così: lo fa, ma in un modo diverso.

Bisogna solo capirlo.

 

Più tardi, quella sera, l’argomento viene affrontato di nuovo, anche se non nel modo delicato in cui entrambi se lo sono immaginato.

-Se mai dovessi morire prima di te,-dice John, rompendo il silenzio che si è formato nel torpore del stare seduti vicini sul divano, ascoltando i suoni fuori dalle mura che testimoniano che esiste ancora un mondo, nonostante non ci siano più loro:-voglio essere sepolto a Londra. E voglio che la tua maledetta tomba sia di fianco alla mia.

Lo dice perché ne ha bisogno, perché vuole farglielo sapere, perché non sa cosa potrebbe succedere. E allora lo butta fuori tutto, in un paio di fiati, ad occhi chiusi. La verità.

-Sentimentale.-lo accusa l’altro in un sussurro, ma non distoglie mai gli occhi dal suo volto. L’ex-medico trova la sua mano e la stringe, togliendosi con l’altra gli occhiali da lettura e appoggiandoli sul tavolino, pigramente. Poi incontra i suoi occhi, di nuovo, perché non riesce mai a stancarsene.

-Forse,-ammette, perdendosi tra i colori in quel vortice di nebbia argentata, desiderando affondare e non riaversi più, solo per poter esplorare fino in fondo quel meraviglioso fondale marino:-ma è ciò che voglio. Starti vicino per il resto della nostra non-esistenza.

È un lungo sguardo, quello che si scambiano. Sembra durare ore, giorni, o forse anni. Ci sono secoli, in quello sguardo, i secoli trascorsi e quelli da trascorrere ancora, insieme come ognuno dei due è sempre stato destinato ad essere con l’altro.

-Va bene.-acconsente infine Sherlock, cedendo e abbassando lo sguardo sulle loro mani intrecciate. Le vede entrambe coperte di rughe, e non gli piace. Odia invecchiare, con la sensazione di sentirsi impotente, quando una volta con queste stesse mani poteva tenere in mano il mondo e stringerlo. Anche quelle di John sono diverse: una volta erano callose e morbide, ma più pulite, più lisce. Però, a dispetto di tutto, gli piacciono anche come sono ora, con tutte quelle increspature in cui può rifugiare le dita, scavando piano sotto la sua pelle per arrivare in profondità. Così come ha fatto con la sua anima.

-Andiamo a dormire, ora, su. È tardi.-la voce è quasi un rimprovero, ma in realtà nasconde un sorriso. Anche allora, Sherlock non ha bisogno di guardarlo per poterlo capire. Lo coglie dal tono, lo coglie perché lo conosce. Conosce John meglio di sé stesso, l’ha imparato a sue spese con il tempo, con gli anni che si sono lasciati alle spalle con tutti i dolori, le gioie, gli eventi.

Dormono insieme. Non c’è un vero inizio a questa pratica, e se c’è mai stato lo hanno smarrito nei loro ricordi, un meraviglioso amalgama confuso di sensazioni e di vita condivisa. Semplicemente, c’è il letto caldo da dividere quando entrambi decidono di dormire, ci sono le lenzuola che scivolano sulla pelle di entrambi per isolarli dal mondo circostante e racchiuderli in quello che è sempre stato solo il loro, c’è l’oscurità che li avvolge come una madre un po’ apprensiva, quello che entrambi non hanno mai avuto, se non nella figura dell’ormai in pace Signora Hudson. C’è il respiro di entrambi, sincronizzato, un sottile sfiorarsi, vicini, lontani, eppure sempre lì.

Sherlock guarda il volto di John alla luce dell’abat-jour, lasciando che la luce metta in risalto ogni suo tratto: una luce che lo accarezza, baciandolo con reverenza, e poi fuggendo. Lo trova bellissimo, nella sua accezione di bellissimo, contorta e diversa e interessante. Ma, nonostante non coincida con l’idea comune, sempre bellissimo.

-Buona notte.-dice a bassa voce.

-Buona notte.-replica l’ex-medico, regalandogli un bellissimo sorriso sereno, prima di appoggiare la testa contro il cuscino e spegnere la luce. Nessuno dei due ha bisogno di dire ‘Ti amo’, perché lo sanno già. E entrambi odiano ribadire l’ovvio.

Prima che il buio cali, gli occhi grigio-blu di John che lo fissano con affetto, lievi increspature attorno ad essi come acqua lievemente smossa, sono l’ultima cosa che Sherlock vede.

 

 

Sherlock è sempre il primo a svegliarsi, tra i due. Ha sempre avuto poco bisogno di dormire, e ora che lo fa quasi tutte le notti per concedere riposo alla sua mente, che si affatica sempre di più, con pesantezza, quasi quanto il suo corpo si annida su sé stesso. Quella mattina, è il raro raggio di sole di primavera che si intrufola tra le imposte per portare la luce del nuovo giorno anche in quella stanza, in quella casa dove il tempo perde il suo dominio, perché ha smesso di avere importanza già da molto, e può modificarsi secondo leggi proprie e irreplicabili. Lì i minuti si annullano, i secoli stanno in un istante e anni paiono un secondo appena sospirato. Però, anche lì è già mattina.

Sherlock apre gli occhi nella luce, scorgendo davanti a sé il volto di John ancora addormentato. Le rughe sulla sua fronte sono spianate, in un’espressione rilassata, le labbra leggermente incurvate in quello che è chiaramente un principio di un sorriso.

È vicino, vicino come nessun altro lo è mai stato. E non solo fisicamente. Sherlock, conscio che l’altro non lo percepirà e non potrà accusarlo di un sentimentalismo che invece si sta concedendo, fa scivolare piano la sua mano in quella dell’altro, per stringerla. Aggrotta le sopracciglia, nel torpore delle coperte: le dita callose di John sono fredde come il ghiaccio.

Un dubbio, eterno, veloce, irrefrenabile, si fa strada in lui con lenta consapevolezza. Si avvicina con la testa, un soffio da lui, per poter ascoltare il respiro dell’altro direttamente da lui, anche solo un sospiro. Non percepisce nulla.

Per l’ultima, definitiva conferma, fa scivolare l’altra mano sotto alla maglia del pigiama di John, scorrendogli per tutto il busto fino a raggiungere il petto, e carezzarlo con la mano a palmo aperto, lasciando che le dita si arriccino e distendino nella posizione adatta.

Nessun battito.

Sherlock fissa ancora una volta il volto sereno di John, prima di stringersi a lui, allungando i suoi pallidi e magri arti attorno al suo corpo, per avvolgerlo, per sentirlo più vicino. Qualche ora prima, gli sarebbe bastato chiamarlo per sentirlo parlare, ridere, guardarlo o muoversi. Qualche ora prima gli sarebbe bastato sussurrare, e invece ora è irraggiungibile, da qualche parte in cui non può chiamarlo, non può più percepirlo. Vorrebbe essere arrabbiato, vorrebbe sentirsi oltraggiato per non averlo salutato, per non avergli detto tutto ciò che aveva da dirgli, ma non sarebbe vero. Lo ha salutato nell’unico modo in cui lui ne è capace, gli ha detto e gli ha fatto capire tutto ciò che aveva da dire, gli ha dato tutto ciò che riesce a dare e l’ha vissuto come poteva. Respira a fondo, con le braccia ancora strette al corpo freddo, e gli occhi chiusi.

Deve chiamare qualcuno, per il corpo. Deve almeno avvisare qualcuno di ciò che è successo. Deve, e presto.

Solo un altro minuto, si dice, con calma. Solo un altro minuto per stargli vicino. Dopotutto, ha tutti i diritti di godersi ancora un po’ l’illusione che sia lì con lui, semplicemente addormentato, pronto a fargli il tè ad ogni sua richiesta, pronto a mostrargli ciò che non ha mai capito, pronto a sorridergli, a credergli, a dirgli che è fantastico. Non per molto tempo, in realtà, giusto il necessario per riuscire a lasciarlo andare, finalmente, quando sarà pronto.

Chiamerà qualcuno, sì, presto. Tra un minuto. Solo tra un minuto.

Un minuto ancora, per stare lì con lui.

Un solo minuto.

 

 

 

 

Il funerale si terrà tre giorni dopo, e Sherlock non pronuncerà una parola in merito. Il corpo verrà cremato e le ceneri trasportate al cimitero di Londra, esattamente come dalle sue volontà. Lui ci andrà solo quella volta, per osservare il luogo del suo riposo, ospitato contro la sua volontà dalla figlia maggiore di Mycroft. Poi tornerà nel Sussex.

Tre mesi dopo, gli diagnosticheranno un cancro ai polmoni e lui si rifiuterà di curarsi.

Vivrà quindici mesi, sui sei che gli avevano dato.

Lo troverà un’anziana Molly Hooper in visita, in una mattina fredda di una giornata piovosa, avvolto nella sua vestaglia blu e seduto sulla sedia di fronte alla scrivania. Avrà il violino stretto in mano, gli occhi chiusi e un’espressione tranquilla, immobile, imperscrutabile. Di fronte a lui, sul ripiano, migliaia di documenti riguardanti i suoi casi e i suoi amati esperimenti, disposti in una sorta di disordine programmato. Sull’angolo destro della scrivania, più vicino, una foto di lui e John sbiadita dal tempo dietro una cornice di legno.

 

 

 

 

 

 

 

FINE.

 

 

 

 

 

 

Note che tanto nessuno legge mai:

  1. Il titolo è tratto da una canzone, ‘Hallo’ degli Evanescence. Una delle poche canzoni di musica moderna che mi piacciono: ha un’ottima base al pianoforte. Ne hanno fatto un meraviglioso video su Sherlock (Reichenbach, siete avvisati :) che vale davvero la pena vedere. Cercate ‘ Sherlock BBC | The story after Reichenbach ‘ e lo trovate (ho un piccolo problema tecnico a copiare i link, ma ascoltatemi e fate ciò che vi dico, in buona fede).
  2. Il sottotitolo invece è parte della canzone non classica citata tra le colonne sonore, ‘Sleep’, dei Poets of the Fall (anche quelli li ho scoperti attraverso un magnifico fanvideo: “Oh my love”, Reichenbach!version dove Sherlock e John sono una coppia, con un montaggio audio spettacolare), che hanno scritto un sacco di canzoni con un testo adattissimo per Sherlock e John, alcune più carine di altre. Va bé che io rimango fedele al mio Johann Sebastian Bach, però...
  3. Rielaborazione della frase celebre ‘Il mondo, magari, non lo aveva visto mai. Ma erano ventisette anni che il mondo passava su quella nave; ed erano ventisette anni che lui, su quella nave, lo spiava. E gli rubava l’anima.’ tratto dal meraviglioso monologo teatrale ‘Novecento’ di Alessandro Baricco.
  4. Nel caso non si sia capito, Sherlock sta componendo un brano simbolico. Ci mette la sua visione delle cose, in particolare la sua visione di John. Come lui lo vede ogni giorno, come lo ha visto, la sua storia. Se non sono chiare le metafore (i colpi di archetto -> le granate, i vibrati -> la dedizione al lavoro, la cura, il suo aspetto da medito) etc. chiedete.

 

 

Angolino della Skizzata:

Una retirement!lock senza Mary? Lo so, eresia. Riuscirò anche a scrivere di Mary. Così come riuscirò anche a scrivere di Moriarty. Con calma ce la posso fare (ora che ho un’idea, in effetti, posso farcela).

Lo so che è triste, ma dovevo farlo, dovevo dovevo dovevo farlo. Ho sempre voluto affrontare Sherlock alle prese con la morte di John :) (Sì, lo so che la faccina col sorriso ci sta come i cavoli a merenda, ma possiamo sorvolare?).

Ah giusto. Metto qui la mia risposta alle accuse che so mi lancerete ‘Ma tu mi odi!’, ‘Mi vuoi spezzare il cuore?’, ‘Mi vuoi uccidere?’, perché la risposta è sempre ‘Sì’ *sorriso birichino*. Se invece mi volete insultare perché ho scritto una gigantesca pacchianata siete ben accolti :)
Un bacio a tutti quelli che hanno letto <3

  
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