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Autore: Shainareth    29/10/2013    2 recensioni
Terzo capitolo in ordine cronologico della saga che compone Amnesia.
Si mise in piedi e si sfilò il cappuccio dalla testa, rivelando dei lineamenti più marcati e virili rispetto all’ultima volta in cui si erano visti. Se Garu era cresciuto, anche lui era diventato un uomo. «So chi ha ucciso tuo padre.»
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Garu, Nuovo personaggio, Pucca, Tobe
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'Amnesia'
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CAPITOLO PRIMO




Una freccia. Era conficcata nello stipite in legno della porta d’ingresso di casa e Garu la trovò soltanto quel pomeriggio, quando uscì per recarsi al dojo del maestro Chang, dove avrebbe dovuto allenarsi con Abyo, Ching e Ssoso. All’asta della freccia era stato annodato un foglio di carta piegato in diverse parti. Una lettera di sfida, forse? Ma da parte di chi? Afferrò la freccia e con un gesto secco la estrasse dal legno. Quindi, dopo aver recuperato il foglio di carta, lo aprì e lesse.
   Il dojo avrebbe potuto aspettare, si disse mentre volgeva lo sguardo all’orizzonte e nascondeva la lettera fra le pieghe dell’abito scuro.

Con un ultimo, mirabile balzo fra le fronde degli aceri, Garu atterrò saldamente sulle gambe su uno dei rami più grossi, non distante da dove sedeva un uomo, con le gambe penzoloni e il volto coperto da un cappuccio scuro. Pur sentendolo arrivare, quello non si volse nella sua direzione, ma dopo qualche istante esordì con voce roca: «Non credevo saresti venuto.»
   «Non credevo fossi stato tu a mandare quella lettera», rispose Garu, le mani nelle tasche dei pantaloni.
   «Bugiardo», sorrise l’altro, inarcando però le folte sopracciglia per la sorpresa di sentirlo parlare per la prima volta da che lo conosceva. «Da quando ti si è sciolta la lingua?»
   «Da quando Pucca è uscita dal coma», spiegò lui, senza tanti giri di parole. «Piuttosto, dimmi perché mi cercavi.»
   Finalmente Tobe si degnò di guardare nella sua direzione e, dopo tutti quegli anni, fu sorpreso di trovare un giovane alto e robusto, dagli occhi onesti e dall’espressione fiera. Ricordava moltissimo suo padre, con la differenza che Garu aveva ormai smesso di portare i capelli, lunghi fin quasi alle spalle, in due buffi codini, preferendo invece legarli solo in parte sulla nuca. Sembrava uno di quei nobili samurai di cui si poteva leggere sui libri o sulle antiche pergamene.
   «Non dirmi che, ora che Pucca sta bene, vuoi di nuovo batterti con me», incalzò il ragazzo, corrucciando leggermente la fronte a causa del suo silenzio.
   Tobe scosse il capo. «No», lo rassicurò, gli occhi nei suoi. «Quel giorno ti dissi che non lo avrei più fatto, ricordi?»
   «Allora spiegati.»
   Si mise in piedi e si sfilò il cappuccio dalla testa, rivelando dei lineamenti più marcati e virili rispetto all’ultima volta in cui si erano visti. Se Garu era cresciuto, anche lui era diventato un uomo. «So chi ha ucciso tuo padre.»
   Il ragazzo sgranò le orbite per la sorpresa. Come faceva, Tobe, a sapere di quella storia? Non che fosse segreta, in effetti, e probabilmente doveva averla appresa al villaggio, anni addietro. Ma perché rivangarla proprio adesso, di punto in bianco? Garu contrasse la mascella e tornò ad aggrottare la fronte, rivelando tutte le proprie perplessità al riguardo.
   «Comprendo bene il tuo scetticismo», lo anticipò il suo vecchio rivale, mostrando una strana, inusuale empatia nei suoi riguardi. Proprio come quel lontano giorno di sette anni prima. «Ma non sto mentendo. Posso portarti da lui, se lo desideri.»
   «Cosa ne sai, tu, di questa storia?» fu la legittima domanda che gli pose anzitutto Garu, per nulla convinto della veridicità di quelle parole. Non dubitava del fatto che Tobe potesse essere davvero cambiato, dopo l’incidente capitato a Pucca, poiché aveva ampiamente dimostrato di non essere affatto la persona spietata che aveva sempre voluto far credere in passato, quando ancora viveva a Sooga con tutti loro. Tuttavia, non poteva neanche decidere di credergli così su due piedi, senza la benché minima prova che confermasse le sue parole.
   Tobe si portò una mano al volto, sfiorando la grossa cicatrice che lo sfigurava con la punta dell’indice e del medio. «Questa ti dice niente?»
   Di nuovo, Garu contrasse la mascella: l’uomo che aveva ucciso suo padre aveva uno sfregio identico al suo proprio in mezzo al viso. Sebbene i suoi ricordi di bambino erano ormai annebbiati dal trascorrere del tempo, mai avrebbe potuto dimenticare quel particolare, né quegli occhi malvagi che lo avevano fissato dopo il delitto appena compiuto o quel ghigno crudele e beffardo.
   «Tu non c’entri nulla», ribatté nervoso. Anche se aveva la stessa cicatrice che gli ricordava perennemente quell’uomo di cui, invero, non era riuscito a scorgere bene i lineamenti a causa della luce che si trovava alle sue spalle, presentandosi a lui solo come una sagoma scura, Garu non aveva mai creduto che fosse stato Tobe a portargli via l’amato genitore. Soprattutto perché, avendo soltanto tre anni più di lui, a quel tempo lo stesso Tobe non doveva che essere un ragazzino; era perciò impossibile che fosse stato lui a macchiarsi di quel crimine.
   «Non direttamente», fu la risposta che gli arrivò. «Ma ti assicuro che ne so più di te in proposito.» Forse poteva dargli credito, stavolta. Fu questo che pensò Garu, rendendosi conto che, d’istinto, iniziava a fidarsi in qualche modo del suo vecchio rivale. «Seguimi», lo esortò a quel punto Tobe, notando che l’impazienza cominciava ad averla vinta sulla ragione del suo interlocutore. Lo si poteva capire dal modo spasmodico in cui continuava ad aprire e serrare i pugni lungo i fianchi.
   «Perché dovrei farlo?»
   «Non vuoi vendicare la morte di tuo padre?»
   «No», asserì Garu, sincero. Non era quello che aveva cercato in tutti quegli anni: voleva riconquistare l’onore della sua famiglia, non rincorrere un sentimento nocivo e inutile come la vendetta. Probabilmente lui e Tobe non sarebbero mai riusciti a comprendersi, sotto quel punto di vista.
   «Non vuoi neanche conoscere la verità in proposito?» gli domandò l’altro, non stupendosi di quella risposta, benché non fosse affatto d’accordo con la sua decisione.
   Garu abbassò lo sguardo, fissando un punto imprecisato davanti a sé. Non sapeva davvero la ragione per cui suo padre e quell’uomo erano giunti a battersi; all’epoca era troppo piccolo per capire certe cose. Si era solo reso conto che si era trattato di uno scontro, un duello fra ninja, in cui il proprio genitore aveva perso l’onore e la vita. Probabilmente, concentrato com’era sulla battaglia, suo padre neanche si era accorto della sua presenza. Era stato soltanto quando tutto era ormai finito che l’altro uomo lo aveva notato, nascosto dietro i pannelli in carta di riso e intento a spiarli con occhi carichi di sentimenti ed emozioni troppo grandi per un bambino così piccolo. Avrebbe potuto uccidere anche lui, eppure non lo aveva fatto, a testimonianza che forse non era una bestia assetata di sangue, ma solo un guerriero che aveva appena portato a termine un vecchio regolamento di conti con il suo, ormai defunto, rivale. Ma quale poteva essere stata la ragione che aveva spinto i due a battersi, Garu non lo aveva mai saputo. Né avrebbe potuto chiederlo a nessuno.
   «Come faccio a sapere che non mi porterai dritto in un’imboscata?»
   Tobe non si stupì di quella domanda, eppure non riuscì a trattenere un leggero sospiro. «Ti do la mia parola d’onore.»
   L’altro scattò, lasciandosi vincere da un impeto di rabbia. «Quale onore ha un ninja che…»
   «…ha quasi lasciato morire una bambina?» concluse per lui Tobe, rivolgendogli un sorriso amaro. Era lecito che Garu ce l’avesse ancora con lui, perché se li avesse aiutati anziché cercare di colpirlo alle spalle quando Pucca stava per cadere nel precipizio, tutti loro avrebbero sofferto decisamente meno.
   Garu strinse le labbra in una linea pallida e sottile. Non riusciva davvero a capirlo. Sapeva che Tobe era tornato a Sooga perché era stata Pucca a raccontarglielo; aveva creduto però che la fine del suo esilio fosse dovuta al risveglio della fanciulla, che ne aveva anche decretato ufficialmente la salvezza. Invece, a quanto pareva, Tobe era tornato per un’altra ragione. Ma perché darsi tanta pena per lui, se diceva di averlo sempre odiato?
   «Non pretendo che tu possa credermi», gli venne nuovamente incontro il ninja. «Né che tu possa prendere una decisione così, su due piedi.»
   «Perché ti dai tanta pena per me?» fu l’ennesima domanda che gli rivolse Garu, cercando di trovare una logica nel suo comportamento.
   Tobe rimase a fissarlo per qualche attimo in silenzio. Infine, mise una mano fra le pieghe del proprio hakama (*), allarmando il ragazzo che assunse prontamente una postura da battaglia, temendo che lui volesse sorprenderlo con un’arma. «Non ho alcuna intenzione ostile, te l’ho già detto», lo rassicurò Tobe, sorridendo ancora una volta amaramente ed estraendo dai propri indumenti qualcosa che, sulle prime e a causa della distanza che c’era fra loro, Garu credette un semplice pezzo di carta mal ridotto. «Guardala», fu tutto ciò che gli disse Tobe, allungando il braccio nella sua direzione per mostrargli quella che, in realtà, era una vecchia fotografia, ingiallita e dai bordi completamente bruciacchiati, segno che aveva rischiato di essere consumata dal fuoco.
   Pur con una certa esitazione, il ninja più giovane decise di dargli ascolto. Prese il ritratto dalle sue dita e lo osservò: vi erano raffigurate tre persone della loro età o poco più grandi, due uomini e una donna. Garu sentì il cuore mancare un battito riconoscendoli immediatamente tutti e tre.
   «Come vedi», riprese a parlare Tobe, «tuo padre e il suo assassino si conoscevano bene. Erano amici.»
   «Un amico non lo avrebbe mai ucciso», affermò l’altro, convinto di ciò che diceva, benché un leggero tremore evidenziasse tutti i dubbi che d’improvviso erano piombati su di lui come una pioggia gelata.
   «Non credo lo fossero più da un pezzo», spiegò Tobe, cercando di venirgli ancora incontro. Non era certo di riuscire a comprendere il suo stato d’animo, ma capiva ugualmente che dovesse essere scioccante, per lui, scoprire quelle spiacevoli novità.
   «Come fai ad avere questa foto?»
   «Ha importanza?»
   «Sì, se vuoi che ti creda.»
   Era giusto, pensò il giovane. Dopotutto non gli aveva ancora spiegato nulla. «L’ho trovata a casa mia.» Garu si permise di alzare su di lui due occhi sospettosi. «Intendo la mia vera casa», si corresse allora Tobe. «È lì che sono tornato dopo che ho lasciato Sooga», gli raccontò. «Era fra i pochi ricordi che mi sono rimasti di mia madre», aggiunse, facendo cenno col capo in direzione della fotografia.
   Garu corrucciò le sopracciglia scure, incapace di seguire il filo del discorso. «E lei come faceva ad averla?»
   «Anche lei è ritratta lì sopra, non vedi?» fu la risposta che gli fece ghiacciare il sangue nelle vene.
   «Che… Che diavolo vai blaterando?» replicò, sentendo la propria voce perdere improvvisamente tutta la propria sicurezza. «Questa è…»
   «Tua madre?» completò nuovamente Tobe per lui. E notando la sua espressione sempre più smarrita, non poté far altro che stringersi nelle spalle e annuire. «Il destino sa essere davvero crudele, alle volte, non pensi?»
   Garu avvertì un capogiro che lo costrinse ad appoggiarsi al tronco dell’albero, contro il quale scivolò, fino a sedersi sul ramo su cui era saltato poco prima che tutta quell’assurda discussione potesse avere inizio.

Era in ritardo, pensò Pucca levando lo sguardo al cielo scuro con un velo di preoccupazione nell’animo. Garu aveva promesso di passare dal Goh-Rong prima che il sole sparisse oltre l’orizzonte, e invece ancora non si era fatto vivo. Oltretutto, Abyo e Ching le avevano detto che il giovane non si era presentato al quotidiano allenamento al dojo e che quando avevano provato a cercarlo a casa non lo avevano trovato. A Pucca non importava neanche che Garu mancasse alla sua promessa, in realtà; tutto ciò che sperava era soltanto che non gli fosse capitato nulla.
   Senza che lei potesse immaginarlo, invece, il giovane al momento si trovava a dover prendere una delle decisioni più importanti della sua vita.

Inginocchiato al centro della propria camera, con un’unica candela come fonte di luce, Garu fissava la foto che Tobe gli aveva lasciato e che lui aveva disteso sul tatami, proprio davanti a sé. Si trattava di una rivelazione inattesa che lo aveva improvvisamente catapultato indietro nel tempo di diversi anni, riportando alla sua mente il ricordo più terribile che aveva e rivelandogli una verità ancora più crudele.
   E mentre gli altri continuavano a cercarlo nei dintorni del villaggio, lui rifletteva su cosa avrebbe dovuto fare. Anche perché nessuno poteva garantirgli che non si trattasse di un tranello escogitato da qualcuno intenzionato a fargli del male – Tobe o lo stesso assassino di suo padre. Ma chi altri poteva conoscere tutti i particolari di quella vicenda, se non quell’uomo? Anche se la storia da lui raccontata fosse risultata un’enorme bugia, Tobe doveva per forza averlo incontrato.
   E ora Garu si trovava davanti ad un bivio: scegliere tra il continuare per la propria strada, ignorando quella foto e cercando l’onore nelle azioni quotidiane che lo avevano fatto diventare quello che era, e il dar credito alle parole del suo antico rivale, ricercando la verità su quel lontano giorno, sia pur con il rischio di cadere in un’imboscata.
   Chiuse le palpebre e davanti a sé rivide quella tragica scena come se stesse appena accadendo. Riaprì gli occhi, serrò i pugni che teneva poggiati sulle gambe e prese la sua decisione.
   Aspettò che la notte inghiottisse ogni rumore nelle vicinanze per uscire di casa, portando con sé la fedele katana. Si mise in ascolto, i sensi all’erta: non c’era nessuno. Si avviò silenziosamente per la strada che lo avrebbe portato al villaggio. Se avesse potuto, in realtà, avrebbe evitato di passare proprio da lì, ma il percorso era obbligato a causa del fiume che circondava Sooga, perciò si ripromise di fare la massima attenzione affinché nessuno potesse accorgersi di lui. Sapeva che non era leale partire così, senza lasciar detto niente almeno agli amici, ma non poteva fare altrimenti; se loro lo avessero saputo, avrebbero potuto fermarlo. O, peggio ancora, avrebbero potuto decidere di accompagnarlo in quello che, per quanto ne sapeva lui stesso, avrebbe potuto rivelarsi un viaggio senza ritorno. Ma andava bene così, era un rischio che aveva deciso di correre.
   Ogni suo proposito, però, venne messo a dura prova quando, passando non lontano dal Goh-Rong, la sua mente volò immancabilmente al di là del muro di cinta che limitava l’accesso al cortile posteriore. Fu lì che s’imbambolò, osservando distrattamente il proprio respiro che si condensava nell’aria fredda della notte. Di colpo si rese conto di non voler più andar via in quel modo, come se fosse stato un ladro o un assassino che approfitta del calar delle tenebre per lasciare il vuoto dietro di sé. Almeno a lei avrebbe voluto dire qualcosa. Tuttavia, sapeva anche che Pucca sarebbe stata la prima a seguirlo, se solo lo avesse visto.
   Di nuovo, Garu si ritrovò davanti ad un bivio.

Il sole non era ancora sorto quando Pucca si alzò dal letto, pur con gli stessi abiti e le stesse preoccupazioni del giorno addietro. Il pensiero della sparizione di Garu non le aveva fatto chiudere occhio. Come poteva essere scomparso nel nulla? Senza averle lasciato detto nulla, per di più.
   La ragazza si trascinò alla finestra e ne aprì le imposte per far cambiare l’aria nella stanza. Qualcosa, che era stata infilata fra le ante della finestra, cadde sul davanzale: un biglietto piegato in due. L’istinto le disse che non poteva essere stato che Garu a lasciarlo lì. Subito Pucca si affrettò a prenderlo e ad aprirlo, e quel che lesse le diede ragione: nessuna firma, solo una parola scritta con l’inconfondibile calligrafia del suo amato ninja. Tornerò.
   Strinse il biglietto al petto. Non aveva idea di cosa stesse passando per la testa di Garu, né dove lui fosse andato; di una cosa però era certa: se aveva lasciato detto che sarebbe tornato, lo avrebbe fatto di sicuro. Garu non era un bugiardo, e lei lo avrebbe aspettato.






(*) Hakama: Indumento indossato sopra il kimono, usato anticamente dai samurai per proteggersi le gambe quando cavalcavano.











Stavolta l'ho combinata grossa, lo so. Sto stravolgendo tutta la serie, perdonatemi. ;_;
A mia difesa posso dire che in realtà ho solo ricamato abbondantemente su un fatto realmente accaduto, almeno stando al videogioco Pucca Power Up, e cioé che il padre di Garu è stato ucciso da un ninja che aveva sul volto una cicatrice uguale a quella di Tobe. Lo dimostra questo filmato: http://www.youtube.com/watch?v=1sN_yMb22Lk
Inoltre, se ci fate caso, anche se l'uomo sfregiato assomiglia tantissimo a Tobe, in realtà, sembra avere due ciuffi di capelli che gli ricadono davanti agli occhi (mentre Tobe ha sempre avuto i capelli all'indietro, senza contare che ha solo tre anni più di Garu e che quindi sarebbe assai improbabile che abbia avuto la meglio su un ninja adulto).
E... sì, va beh, il resto poi l'ho inventato di sana pianta, costruendoci su una trama degna delle migliori telenovelas sudamericane. :°D
In ultimo, poche sporadiche informazioni riguardo alla fanfiction: è composta da quattro capitoli, ma è comunque più breve rispetto ad Amnesia. E se ho scelto di legarla a quest'ultima è per via di alcuni dettagli che riguardano Tobe e Garu, nonché il rapporto che si è venuto a creare fra loro dopo l'incidente capitato a Pucca.
E ora mi eclisso, sperando di non ricevere insulti. XD
A presto~♪
Shainareth
P.S. Sono sempre ben disposta a mettere l'avviso di OOC qualora lo riteneste necessario, quindi non esitate ad essere onesti nelle vostre eventuali recensioni!





  
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