Storie originali > Soprannaturale
Ricorda la storia  |      
Autore: Armelle    31/10/2013    1 recensioni
Non tutti sanno che "Halloween" deriva da una ricorrenza celtica importata dagli immigrati irlandesi fino in America, dove poi si è evoluta nella festa delle zucche che conosciamo oggi.
Questa è la storia di una donna irlandese e di sua figlia, ambientata durante la notte più magica dell'anno.
Genere: Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

L’ultima sera di ottobre il vento si era alzato feroce, facendo scuotere sui cardini il portone di legno, unico accesso alla casupola. Maeve, la donna che vi abitava, ricordava che appena tre anni prima, durante la stessa sera di fine ottobre, c’era stata una folata di vento talmente forte da sradicare in un colpo solo la porta. A quel tempo la sua bimba, Moira, si trovava ancora in fasce dentro la culla, e la porta scardinata dal vento era andata a scagliarsi proprio sul muro vicino, evitando per un soffio di travolgere la culla.

Non era un caso se un episodio di quel genere accadeva proprio in occasione dell’ultima sera di ottobre, Maeve e suo marito l’avevano pensato subito. Perciò suo marito aveva provveduto all’istante a intagliare una piccola croce sopra il legno della culla, allo scopo di scongiurare per il futuro altri pericoli per la sua unica figlia. Si era trattata di una faccenda prioritaria, addirittura di maggiore importanza rispetto a rimettere in sesto il portone. La bambina, salvatasi per miracolo, era stata affidata per un po’ a una vicina, ma loro erano rimasti nella casa; lui a intagliare la croce, lei a pregare per lo svolgimento del suo lavoro. In seguito suo marito aveva finalmente rimesso in sesto il portone, assicurandosi che stavolta uscisse resistente almeno il doppio, dinanzi ai forti venti dell’inverno che si appressava.

Era la sera in cui ricadeva la ricorrenza di Samhain, il periodo dell’anno che segnava la fine dell’estate, quando cioè il buio prendeva il sopravvento sulla luce, portando con sé la stagione invernale. Era il momento, secondo il calendario celtico, in cui l’anno moriva e rimaneva inerte fino alla ricorrenza di Beltaine, che segnava il momento della sua rinascita. Nei giorni precedenti il bestiame veniva fatto calare dai pascoli, per essere rinchiuso al riparo dal freddo in vista dell’inverno.

Con suo marito, a quel tempo, erano stati sposati da quasi due anni. La loro unione era avvenuta in concomitanza della ricorrenza di Lúgnasad, che si celebrava al culmine dell’estate, ma per la verità l’avevano fatto più per assecondare le pressioni delle rispettive famiglie, che per reale interesse l’uno verso l’altra. Suo padre l’aveva incoraggiata molto in questo senso, dicendole che se le cose fossero andate male l’anno successivo avrebbero potuto sempre disfare le nozze, così stavolta l’avrebbe lasciata libera di scegliere un marito più adatto a lei. I loro genitori, infatti, erano stati amici di vecchia data, perciò entrambi ci tenevano a vedere sancita una volta per tutte la loro parentela. Comunque fossero andate le cose, vivendo a stretto contatto per un anno si erano accorti di piacersi per davvero, che trascorso il periodo di prova avevano confermato la loro unione, per la gioia dei loro padri.

Moira era stata dunque il frutto di quell’unione felice, ma purtroppo la loro serenità matrimoniale era finita molto presto; una mattina in cui suo marito era uscito per la pesca non era più rincasato, e l’indomani avevano trovato il suo corpo alla deriva. La barca, avevano detto altri pescatori che lo conoscevano e che si erano fatti carico di cercarlo, doveva essersi sollevata a causa di un’ondata violenta che l’aveva fatta rovesciare sopra di lui, impedendogli di fare ritorno in superficie e di conseguenza facendolo affogare.

Maeve aveva persino pensato, perché era accaduto poco tempo dopo l’episodio della porta, che si fosse trattato di una vendetta delle fate, per aver impedito di portare via insieme con loro la graziosa bimba su cui avevano posato gli occhi. Da entrambi gli episodi la donna soffriva di forti attacchi di ansia, che la prendevano con una maggiore intensità proprio in occasione della ricorrenza di Samhain.

La notte di Samhain era un periodo particolare, in quanto segnando la fine del ciclo dell’anno prevedeva un periodo di transizione tra il buio e la luce, tra la vita e la morte; durante questo passaggio i confini del tempo e dello spazio si fondevano in uno, tanto che era facile per una creatura mortale finire senza accorgersene nel regno degli spiriti, ma anche viceversa, gli spiriti potevano aggirarsi con molta più facilità tra i vivi.

Maeve, in proposito, ricordava ancora molti racconti della sua nonna materna. La donna era stata una seguace del vecchio culto, praticato con più zelo prima dell’avvento dei missionari cristiani in Irlanda. Proprio i seguaci del vecchio culto conoscevano meglio di chiunque altro quelle creature, perciò sapevano come tenerle buone o addirittura come ingraziarsele.

Quando da bambina viveva insieme alla nonna, ricordava che questa non aveva mai mostrato nei confronti della ricorrenza nessun timore. La nonna raccontava, posata, che le anime dei parenti defunti sarebbero venute a far loro visita quella notte, così dovevano finire di cenare in fretta per lasciar loro la casa a disposizione. Per accoglierli lasciava la tavola apparecchiata, disponendo per loro dolci e coppe riempite di vino o di latte, poi metteva alcune sedie intorno al focolare, che non veniva mai spento completamente, lasciando il fuoco ancora ardente sotto le braci. In questo modo anche gli spiriti dei morti, nel freddo del loro riposo, avrebbero potuto saggiare in quel particolare periodo dell’anno la calda accoglienza di un focolare domestico. Anche la porta non doveva essere sprangata quella sera, così da far sentire gli spiriti benvenuti nella casa.

Nonostante si fosse convertita insieme a suo marito alla nuova religione, Maeve non aveva perso quell’abitudine, soprattutto perché le premeva non indispettire le creature soprannaturali che si aggiravano durante la notte di fine anno. Guai a mostrarsi inospitali o avari nei loro confronti, sarebbero capitate disgrazie terribili nel corso dell’anno a venire.

Nella cameretta dove dormiva la sua bambina, Maeve aveva però aggiunto un crocifisso sul muro, poi c’era la piccola croce scolpita sul legno del lettino, mentre sulla soglia spargeva sempre una striscia di sale. Inoltre lasciava sempre, fuori nel cortile, una o due cipolle svuotate per contenere un po’ di brace, che continuava ad ardere per gran parte della notte; questo in particolare serviva a tenere lontani gli spiriti malvagi, i quali, al contrario delle anime dei defunti, si avventuravano nelle case al solo scopo di fare del male.

La donna sapeva bene che i preti erano contrari a simili superstizioni. Il loro consiglio era semplicemente di rimanere chiusi in casa al sicuro, di sprangare la porta e di circondarsi di simboli sacri per impedire a chiunque si aggirasse durante quella notte di entrare. I morti, secondo i cristiani, dovevano rimanere sepolti fino al giorno del giudizio, perciò se accadeva diversamente doveva trattarsi di un’opera maligna.

Al contrario, sua nonna parlava della morte come di una sospensione della vita, che un giorno sarebbe toccata ad ognuno, ma di cui non occorreva avere paura. Se trattati con riguardo, diceva, i morti non dovevano essere temuti e avevano tutto il diritto di andarsene a gironzolare fra i loro cari, fino a quando non sarebbe arrivato anche per loro il momento di ritornare tra i vivi mediante un nuovo corpo.

Maeve non lo diceva a nessuno, ma alla fine aveva deciso di dare retta alla nonna, almeno per quanto riguardava le precauzioni per non irritarli. Certo, si potevano tenerli lontani per una notte, come dicevano i preti, poi però cosa sarebbe successo? Non poteva fare finta di non ricordare, per esempio, che sua marito era annegato poco tempo dopo aver indispettito una fata, a causa del simbolo sacro inciso sulla culla della bambina.

Proprio le fate, che durante quella notte particolare si trovavano al culmine del loro potere, sceglievano tra i mortali le creature più belle, per trasportarle a vivere con loro nei loro regni. E la sua piccola Moira era molto graziosa, non c’era da stupirsi se le fate avevano messo gli occhi su di lei.

In quel momento la bimba giocava sopra il pavimento insieme al cane, ignara delle tribolazioni della sua povera mamma dovute alla ricorrenza di quella sera.

All’improvviso un poderoso colpo contro la porta fece sobbalzare lei e la figlia, compreso il cane, che si mise in piedi con uno scatto rizzando la coda e le orecchie.

Dalla finestra giunse un coro di voci sguaiate e accostandosi Maeve vide il corteo mascherato sfilare davanti alla casa. Uno di quei ragazzi aveva lanciato un sasso facendo tremare la porta, che per fortuna era stata rinforzata a dovere. Maeve prese un grosso respiro, cercando di riprendersi dallo spavento, seguendo con irritazione il corteo che per fortuna passava oltre casa sua.

Ogni anno era la stessa storia. C’era una frotta di ragazzacci che dovevano andare in giro con le facce imbrattate di nero, a spaventare vecchi e povere donne come lei, aggiungendo scompiglio a quella notte già di per sé caotica. Per accentuare la confusione, alcuni di loro potevano persino andare vestiti in abiti femminili, con il risultato di apparire ancora più grotteschi. Per la furia che li animava durante quella notte, pensava Maeve, forse facevano più paura loro, rispetto alla creature del mondo degli spiriti.

Volendo calmare un poco le sue ansie, che rischiavano di soffocarla, Maeve aveva preso l’abitudine dalla morte di suo marito di prendere un decotto rilassante, quindi metteva a letto la bimba lasciando la casa a disposizione, come voleva sua nonna, di chiunque volesse.

Forse quella sera, però, a causa dello spavento provocato dal sasso lanciato contro la porta, che le aveva riportato il ricordo della minaccia scampata anni prima, aveva ecceduto un po’ troppo con le dosi. Più tardi, senza sapere quando si fosse addormentata, si risvegliò con la faccia sprofondata sul tavolo, vicino a uno dei piatti di dolci preparati per la visita dei defunti. Subito si sollevò, gettando a terra la sedia, per precipitarsi fino alla camera della sua bambina. Non ricordava di averla messa a letto o l’aveva fatto?

In ogni caso non aveva messo la protezione di sale sulla soglia della camera, tanto meno le cipolle all’esterno riempite di braci, utili a tenere lontani gli spiriti maligni che si aggiravano durante quella notte. Cercò in lungo e in largo per tutta la casa, ma alla fine dovette rassegnarsi, la bambina era sparita. 

Allora uscì di fretta e furia dalla casa, spalancando la porta e addentrandosi nella tetra campagna invernale di quella notte oscura, la più magica dell’anno, dominio delle creature fatte d’ombra. Presa dal panico per la scomparsa della sua unica figlia, la donna iniziò a correre per il sentiero, senza pensare ai divieti di non aggirarsi durante quella ricorrenza, oppure alle creature che avrebbe potuto incontrare o ai pericoli a cui sarebbe potuta andare incontro. La sua creatura era la sua unica ragione di vita, se lei era già stata portata nell’aldilà l’avrebbe seguita senza indugio.

Percorse un buon tratto di strada, ma dovette fermarsi, quando si accorse di stare vagando dentro a una nuvola densa di nebbia, rischiando di cadere e di ferirsi; morta o ferita, non poteva essere di nessun aiuto alla sua Moira, se lei era da qualche parte che richiedeva il suo aiuto.

Si fermò, dunque, iniziando a guardarsi attorno, poi percorse qualche passo nella speranza di trovare un punto di riferimento, che le consentisse di capire dove si trovava e di orientare il suo percorso. Tuttavia la nebbia era troppo densa e lo spazio aperto della campagna era privo di punti distintivi, tali da fornire una posizione precisa su cui fare affidamento.

Mentre imprecava, maledicendo la nebbia, le parve allora di sentire dei passi alle sue spalle. All’inizio Maeve ne fu sollevata. Pensò potesse trattarsi di qualcuno disposto ad aiutarla, ma quando stava per voltarsi, intenzionata ad andare incontro al viandante, si bloccò, ricordando alcune storie concernenti quella notte particolare; se per un caso sfortunato ci si trovava a vagare fuori casa durante la notte di fine anno, non bisognava mai voltarsi, se si sentiva qualcuno camminare appresso, perché si trattava dei morti che seguivano le orme dei vivi. Siccome i confini dello spazio e del tempo si dissolvevano, molti morti che non avevano un posto dove andare – perché non erano accolti dai parenti o non avevano parenti in vita o qualcuno da visitare – credevano ancora di trovarsi nella loro dimensione, pertanto consideravano un’intrusione la presenza di una creatura vivente nel loro mondo. Per di più essi erano indispettiti, proprio in quanto non avevano un posto dove andare, per cui imbattersi in uno di loro non aveva mai risvolti positivi.

Maeve continuò perciò a camminare con il cuore in gola, iniziando a disperare di non rivedere più la sua bambina. Aveva le lacrime agli occhi e di tanto in tanto dalla sua gola usciva un forte singhiozzo, che si propagava angosciante nel silenzio assoluto della nebbia.

Ad un certo punto davanti a sé vide spuntare qualcosa attraverso la nebbia, che si muoveva verso di lei, quasi strisciando sopra il terreno. Maeve indietreggiò spaventata, senza accorgersi, avendo trasferito davanti e non più alle sue spalle le sue paure, che il rumore dei passi dietro di lei era cessato.

Urlò di terrore quando la creatura arrivò come un fulmine fino ai suoi piedi, che quasi non ne morì. Mettendosi una mano sul petto, la povera donna cadde gattoni per terra davanti al cane di casa.

Si trattava di un meticcio, un cucciolo che aveva trovato una volta nell’orto di casa in cerca di qualcosa da mangiare. La donna era stata molto abbattuta a seguito della morte del marito, che era sempre alla ricerca di qualcosa capace di deviare i suoi pensieri dai ricordi di una vita serena terminata troppo presto. Allora, nel vedere quel cucciolo tutto solo e affamato, si era intenerita, decidendo di tenerlo nella sua casa.

La notte dormiva sotto al tavolo e quando faceva troppo freddo lasciava anche per lui un po’ di brace accesa, vicino alla quale l’animale andava volentieri a rannicchiarsi. La sua bambina l’adorava e il cane sembrava giocare volentieri con lei, in quanto la piccola Moira sembrava considerarlo alla pari di un fratello maggiore, così ne aveva molto rispetto. Anche a lei faceva molta compagnia, oltre a farle piacere che divertisse la sua figliola.

Considerato ciò, il cane era diventato a tutti gli effetti un membro della loro piccola famiglia.

In quel momento, Maeve non fece nemmeno a tempo a riprendere il fiato esaurito con l’urlo da poter sgridare la bestiola, che questa era già ripartita saltando. Quindi, al limitare della nuvola di nebbia, si era fermato in attesa. Maeve, irritata, si sollevò in piedi, ma poi le insinuò il dubbio che forse il cane non voleva affatto giocare. Se Moira era inseparabile da lui, forse sapeva dove stava sua figlia. Pensandoci ancora meglio, non erano spariti insieme dopo che lei li aveva lasciati, come ora ricordava, a giocare tutte e due sul pavimento?

Non avendo alternative migliori da tentare, dal momento che si era persa, la donna si aggrappò con disperazione a quella possibilità, nella speranza di ritrovare al più presto la sua bimba sana e salva.

Dopo aver camminato per un certo tratto, seguita incessantemente da quel mare di nebbia, finalmente vide ricomparire il cielo notturno e i prati aperti della verde campagna. Uscendo dalla nuvola prese un grosso respiro di sollievo, ma non fece a tempo a cantare vittoria, che ciò che vide le fece raggelare il sangue nelle vene.

Si trovava sopra una collina non molto elevata, dove il cane si era fermato. Come aveva sperato l’aveva condotta fino al luogo in cui si trovava sua figlia, ma non poteva immaginare che trovarla non avrebbe significato automaticamente riportarla a casa sana e salva. La piccola Moira era sì viva, ma stava girando tenuta per entrambe le mani dentro un cerchio di fate, al fianco di alcuni individui di sua conoscenza passati a miglior vita. Nell’aria, una musica leggera si accompagnava al vento appena percettibile, era la musica delle fate.

Le fate erano lì, ma non poteva vederle. Ancora una volta erano state loro a trasportare Moira sulla collina, poi al suono della loro musica fatata avevano ammaliato anche i morti.

Dopo un momento, nell’uomo che teneva la mano destra della figlia, Maeve riconobbe senza indugio suo marito. Nel rivederlo davanti a lei dopo tre anni trascorsi dalla sua morte e osservando di nuovo insieme padre e figlia tenersi teneramente per mano, la donna si sentì sopraffare dall’emozione. Aveva cercato di mostrarsi forte per il bene della bambina, ma non poteva negare che molte volte, se non ci fosse stata Moira a trattenerla legata a quel mondo, sarebbe andata appresso a lui nel regno delle ombre. Lasciandosi trasportare dall’emozione, avanzò verso il cerchio tendendo le braccia per farsi accogliere in mezzo a loro, per rimanere anche lei a danzare ai confini del tempo e dello spazio, fino a dimenticare il dolore che negli ultimi anni l’aveva travolta.

Si trovava ormai a un passo dal cerchio, quando fu distolta da una voce dietro di lei che la chiamava. Maeve si voltò nel sentir fare il suo nome, ma si rese conto che non c’era nessuno sulla collina con lei, tranne i morti impegnati nella danza e il cane. Eppure proprio quest’ultimo la guardò dritta negli occhi, che in un lampo Maeve fu sicura che fosse stato proprio lui a fare il suo nome, direttamente nella sua testa. Per la sorpresa, la donna rimase immobile nel punto in cui si era fermata. Tuttavia bastò a ricordarle che suo marito era morto, mentre per lei e per sua figlia non era ancora scoccata l’ora della fine e forse, nelle vastità del regno dello spirito, non si sarebbero nemmeno incontrati. Finché invece rimanevano nella casupola dove avevo stabilito il loro nido d’amore, suo marito poteva ancora ritrovarli seguendo una via che già conosceva, fino a quando la morte e una successiva rinascita un giorno non avrebbe rintrecciato i loro cammini. Oppure, se le credenze della sua vecchia nonna erano solo superstizioni, come affermavano i preti, quello non doveva essere suo marito, ma uno spirito malvagio che voleva impadronirsi della sua bimba.

Ad ogni modo, Moira aveva il diritto di vivere la sua vita e lei come madre aveva il dovere di accompagnarla durante i primi difficili passi lungo il percorso.

Sentendoli bruciare per via delle lacrime, chiuse per un momento gli occhi e all’interno della sua mente si presentò un’immagine e vi rimase impressa. Riaprendoli vide ancora davanti a sé il cane, il quale puntava su di lei il suo sguardo inumano, gli occhi come due lune iridescenti; stretta nella bocca, chissà come, l’animale ora teneva una corda. Accorgendosi che l’oscurità si attenuava per lasciare di nuovo il posto alla luce del giorno, Maeve si affrettò a mettere in pratica la scena che si era presentata nella sua testa, l’unico modo per salvare la sua bambina, prima che le ombre si dissolvessero al riaffiorare del giorno portandosela dietro con loro.

Raccolse la corda dalla bocca del cane, quindi la legò stretta al tronco di un albero lì vicino, invece l’altra estremità se la strinse intorno alla vita. In questo modo si avvicinò al cerchio, e quando i morti allungarono le mani su di lei facendo per trascinarla all’interno, la trovarono fissata alla pianta. Facendo bene attenzione a tenere un piede al di fuori del cerchio, Maeve poté sporgersi all’interno il necessario per afferrare per le spalle la sua bambina. Nel vederla, Moira le sorrise e si lasciò trasportare docilmente. Lasciò la mano di suo padre e mentre veniva trascinata fuori la oscillò lievemente, come per dirgli addio.

Maeve cercò di tenere i suoi occhi fissi sulla figlia, per non essere di nuovo presa dal richiamo dei morti o dalla tentazione di unirsi alla danza. Tuttavia, una volta uscite lei e la bambina, i morti di sorpresa ruppero il cerchio. Infuriati, avanzarono verso di loro e i loro volti si deformarono in ghigni diabolici, le mani si tesero freneticamente allo scopo di afferrarle entrambe. Almeno suo marito, se non altro le sembrò, era scomparso.

La bambina iniziò a piangere per lo spavento, mentre la madre la teneva stretta, senza sapere come fare stavolta a salvarla. Allora, quando sembrava non esserci più scampo, sentirono il cane abbaiare due volte. Dinanzi a loro l’avanzata dei morti si arrestò, quasi in risposta a un ordine imposto. Per tutto il tempo, sotto lo sguardo ferino dell’animale che avevano tenuto per un certo periodo nella loro casa, la scena rimase immutata. Perciò Maeve, tenendo stretta la sua piccola, ne approfittò per correre con lei giù dalla collina alla ricerca di un riparo.

Mentre correva a perdifiato scendendo giù a valle, si udì il canto del gallo annunciare il nuovo giorno. Maeve si fermò, respirando a grandi sorsi l’aria fresca del mattino, ben sapendo che la venuta del nuovo giorno annunciata dal gallo significava per entrambe la salvezze delle loro vite mortali.

Più tardi, quando il pericolo ormai era passato, la donna si arrischiò a ritornare sulla collina alla ricerca del loro piccolo amico, il quale con il suo contributo le aveva salvate. Non ci fu però traccia di lui, né quel giorno, né nei giorni a seguire. Nemmeno fece più ritorno alla loro casupola, dove era stato accolto con tanto affetto.

Con il passare dei giorni, Maeve si rassegnò alla sua partenza. Fu un giorno per caso, ripensando all’ultima volta in cui l’aveva visto, che le venne in mente una vecchia storia raccontata a lei da sua nonna ai tempi in cui era stata una bambina. Secondo la storia, il cane era uno dei guardiani dell’altro mondo, l’unico capace di tenere a bada i morti.

 


Note: scritta per il contest "Medioevo: ma quale epoca buia?!" organizzato da Faejer su EFP

  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: Armelle