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Autore: Nitrogen    02/11/2013    12 recensioni
Credo che per qualche istante io non abbia respirato. Credo che per qualche attimo io non abbia visto, sentito e provato più nulla. Credo che per qualche secondo io abbia davvero creduto d’esser morta.
Genere: Drammatico, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A Candida,
che merita più di quanto io possa darle.


 






Eye Contact
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Apro gli occhi, troppo lentamente e con troppa fatica. Sbatto le palpebre più volte, inizio a muovere un dito e poi l’intera mano; stringo nel pugno un lenzuolo che non conosco, vedo un soffitto troppo pallido per essere quello azzurro della mia camera.
Inizio finalmente a sentire cosa dice il mio cervello, che mi avverte appena se ne rende conto che qualcosa non va come dovrebbe. Alzo la testa di colpo e una fitta lancinante mi prende dalla testa alla spina dorsale, scacciando di nuovo i miei pensieri.
«Ti sconsiglio i movimenti bruschi, Sierra.»
Ignoro il consiglio e volto di scatto la testa verso quella voce maschile che mai prima di allora avevo avuto modo di sentire. Mi mordo la lingua per non urlare e mi concentro su di lui: noto il suo camice, intuisco il suo ruolo in quella stanza d’ospedale; i pensieri volano irrimediabilmente sulle cose peggiori. Vorrei parlare, fare delle domande, ma le mie corde vocali ancora non rispondono alla mia volontà.
«Tranquilla, adesso va tutto bene. Nessun danno permanente, niente di cui tu debba davvero preoccuparti, tesoro mio.», dice mia madre prima non notata poco dietro il medico, «Non ti accadrà mai più nulla del genere.»
Sento ma non ascolto, vedo ma non osservo. Un senso di vuoto, irrequietezza e angoscia mi pervade mentre le attenzioni amorevoli di mia madre si fanno più invadenti.
«Signora, le chiedo di allontanarsi. Sua figlia è chiaramente spaesata, permettetemi di parlarle per qualche minuto in privato. So che vorreste stare con lei ora che si è svegliata, capisco che per voi è difficile lasciarla proprio adesso, ma concedetemi questa richiesta. Potreste aspettare in corridoio?»
Malcontenti, i miei genitori escono dalla piccola stanza e il medico inizia a studiare i miei movimenti e il mio silenzio, fermo al suo posto e intento a giocare con la penna che stringe nella mano destra. Aspetta io parli, ma come lui continuo a non proferir parola.
Non ho forze, l’aria che immetto nei polmoni sembra insufficiente, le mie gambe non rispondono al mio desiderio di muoversi come desidero.
«Hai qualche domanda da pormi?»
Punto gli occhi sul dottore, lo scruto come se volessi fulminarlo con lo sguardo per la sua domanda troppo stupida che interrompe il mio filo di pensieri: tento con fatica di dare un motivo alla mia presenza in ospedale, ma la risposta non arriva nemmeno cercando di ricapitolare cosa avessi fatto per l’ultima volta.
Ricordo una data, un mercoledì qualunque, nessuna festività o evento che mi importi; ricordo di essere andata a scuola normalmente e aver cercato di eccellere più degli altri davanti agli occhi dei professori; ricordo di essere andata a casa, di aver pranzato, di aver svolto qualche rapida faccenda domestica che mi consentisse di avere l’approvazione di mia madre per uscire quella sera stessa; ricordo di essere andata con la mia comitiva nell’appartamento di una mia amica, di essermi divertita come al solito. Continuo a pensare, non curante dell’espressione perplessa dell’uomo fino a quando non constato che non trovo nessun altro ricordo oltre ad essere uscita da quell’edificio. Impreco sottovece, il medico mi sente comunque.
«Puoi chiedermi qualunque cosa, Sierra. Cosa vorresti sapere?»
«Non credo di ricordare perché io sia finita in ospedale.», confesso frustrata dalla fatica con cui faccio uscire la mia voce. «Amnesia?»
Lo vedo sorprendersi, poi sorridere. «È possibile, ma non devi preoccuparti per questo adesso.»
«Non vorrei offenderla, però non mi interessa la sua opinione. Mi rinfreschi la memoria, dottore.»
Lui si schiarisce la gola e inizia a parlare lentamente soffermandosi di tanto in tanto per assicurarsi io abbia capito;  a fine racconto, io riesco a ricordare tutto ma sento qualche battito mancarmi.
Una macchina sbanda a notte fin troppo inoltrata nei pressi del palazzo proprio quando io e una parte della comitiva stiamo uscendo dall’edificio: un mio amico riesce ad attraversare la strada per una questione di istanti; io, non godendo del suo stesso tempismo, perdo quella frazione di secondo che mi permetterebbe di salvarmi. Se non fosse per la forza di gravità che mi spinge al suolo e mi arresta la voce, finirei senza dubbio contro la vettura che segue; se non fosse per qualche legge della fisica, quella stessa che vedendomi ha frenato, sarei stata investita per una seconda volta nell’arco di troppo poco tempo.
E invece crollo sulla strada, sentendo il fiato mozzarsi per l’impatto insieme a qualche scricchiolio di ossa e a un brusco impatto della prima macchina contro un muro.
Credo che per qualche istante io non abbia respirato. Credo che per qualche attimo io non abbia visto, sentito e provato più nulla. Credo che per qualche secondo io abbia davvero creduto d’esser morta.
Poi l’asfalto gelido mi accarezza i vestiti stracciati e i polmoni tornano a fare il loro lavoro, così come il cuore a battere, il cervello a pensare e la mia vista a vedere il sangue che dalla fronte scorre fino a terra: mi sollevo appena sul gomito destro e osservo quella macchia di un rosso tanto vivo da non sembrar vero, e troppo grande per suggerirmi di essere ormai salva da ogni pericolo.
Desidero alzarmi, desidero voltarmi di spalle e sputare in un occhio a chiunque sia stato ad investirmi, ma il braccio sinistro non risponde alle mie volontà perché probabilmente rotto e nemmeno le gambe sembrano volermi reggere.
Dovrei lasciar perdere e aspettare che qualcuno mi aiuti, eppure con non so quale forza mi alzo in piedi costatando che non sono l’unica ad essere stata tradita dalla fortuna: una moto scura e malridotta è abbandonata sull’asfalto a qualche metro da me, e poco più distante, quasi come nascosto nel buio, intravedo un corpo che non pare nemmeno respirare.
Osservo l’automobile fumante accartocciata contro il muro, noto lo sguardo perso sulla strada dei miei amici sconvolti che non riescono a muoversi per soccorrere né me né gli altri due sconosciuti coinvolti nell’incidente. La strada continua ad essere deserta, e non sento nessun suono se non quello delle mie ossa che scricchiolano.
Faccio un passo lento e snaturato verso il corpo esanime, capendo che se mi reggo in piedi è solo perché la mia forza di volontà ha deciso di aiutarmi; faccio un altro passo e un altro ancora, mi avvicino alla motocicletta e inciampo su chissà quale pezzo staccatosi da essa. Questa volta non riesco a mettermi in piedi e dunque mi ci avvicino strisciando: il casco è integro, non vedo sangue, respira, eppure non si muove nemmeno quando tento di scuoterlo con l’unico braccio funzionante.
Lo sento gemere solo quando tento di rimuovere il casco. Mi fermo una volta riuscitaci, aspetto lui dica qualcosa per assicurarmi che stia bene. E invece stringe con una smorfia di dolore il mio braccio sinistro, quello rotto, puntando le sue iridi quasi trasparenti nelle mie: ansia, sofferenza, paura, confusione.
Per un istante mi sembra di leggergli dentro tutto questo; per quello successivo mi convinco lui possa fare lo stesso con me; quello dopo ancora, io sono crollata sul suo petto senza essere più in grado di controllare il mio corpo.
«Che cosa stai cercando di fare? Non puoi alzarti!»
Ignoro le parole del medico e stacco lentamente la flebo dal braccio fissando il muro di fronte come incantata dal suo pallore. L’asfalto, il fumo, il sangue incrostato nei capelli, il respiro che diviene più flebile ad ogni passo che eseguo in direzione di quello sconosciuto, ogni sensazione torna a vivere nel mio corpo pur essendo ormai lontana da quel momento.
Poggio i piedi sul pavimento e il medico mi si placa davanti: «Ascoltami, Sierra, non puoi ancora alzarti. Devi stare al riposo per più tempo possibile, tre giorni non bastano per...»
«Lo so, non c’è bisogno me lo dica. Ma mi permetta di ignorare il suo consiglio almeno per questa volta.»
Scivolo alla sua sinistra e lo supero, reggendomi malamente sulle gambe che si muovono come se non avessero mai camminato. Sono costretta a reprimere qualche gemito di dolore, ad appoggiarmi al muro per non perdere l’equilibrio.
«Il ragazzo. È ancora qui?»
«Se parli di quello al volante…»
Scuoto la testa e le vertigini mi prendono. «No, non di lui. Voglio sapere dell’altro ragazzo. È ancora qui?»
«Sì. Perché ti interessa?»
«Non ha importanza. Dov’è?»
Alla massima velocità concessami dalle gambe, esco dalla stanza e porto la mia attenzione ai numeri posti su ogni porta del corridoio; i miei genitori mi osservano e forse mi parlano senza essere ascoltati, mi vedono allontanarmi senza che io rivolga loro parola e non dando spiegazioni per il mio gesto.
Spalanco la porta dove il medico mi ha detto che avrei trovato lo sconosciuto e vi entro, non curante della confusione lasciata nelle teste dei miei parenti. La stanza, identica alla mia, è resa viva dalla presenza di due infermiere che chiacchierano tra loro sottovoce mentre si assicurano che gli intrugli endovenosi del ragazzo non siano terminati.
«Oh, cielo. Tu non dovresti muoverti dal letto.», mi dice una di esse intimandomi di uscire.
Mi spinge verso la porta e io non ho forza sufficiente per controbattere alla sua decisione di riportarmi in stanza; se non fosse per il medico che arrivato alle mie spalle le chiede di lasciarmi fare, avrei dovuto aspettare ancora per incontrare quel ragazzo.
Le infermiere escono ed io resto da sola con il medico e un corpo incosciente. Mi avvicino a quest'ultimo lentamente, quasi come se temessi di svegliarlo e dar di nuovo modo alla sofferenza di deturpare il suo volto da angelo.
Gli sfioro un braccio violaceo, salgo all'altezza della spalla fino a raggiungere il viso.
"Gabriele". Il medico mi rivela il suo nome e io lo ripeto dapprima mentalmente e poi lo sussurro a me stessa. È un nome abbastanza comune, eppure mi sembra di sentirlo come per la prima volta e lo trovo meraviglioso.
Voglio rivedere i suoi occhi, voglio immergermi di nuovo nella sua anima. Gli accarezzo i capelli, lo chiamo senza alzare troppo la voce. Apre gli occhi come tre giorni prima, li apre e lascia che io osservi le sue iridi vitree che non smettono di studiarmi.
«Tu... Qual è il tuo...»
«Sierra. Il mio nome è Sierra. Piacere di conoscerti, Gabriele.»
 


──Note dell'autore──
Credo che avrei potuto fare di meglio, ma... Non so, questo è uscito dalla mia testa e questo pubblico. Non so chi sia Sierra, non so chi sia Gabriele, né tanto meno chi possa essere il medico. Ho solo scritto, come al solito, senza pensare a cosa sarebbe uscito fuori.
Se il risultato non vi piace, vi chiedo umilmente perdono.


「Nitrogen」
 
   
 
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