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Autore: Nymeriah    07/11/2013    10 recensioni
Hunter Clarington viene sfidato a passare la notte nella tenuta di mastodontiche dimensioni e raccapriccianti arredi di Sebastian Smythe. Durante la notte però qualcuno (o qualcosa) bussa alla sua porta.
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[Hunter Clarington - Thadastian - Niff - Richent BroTP - Trunter Enemies]
Questa shot è sul tema di Halloween, storia horror con accenni comici.
Riferimenti a "Il Gatto Nero" di Edgar Allan Poe.
Genere: Comico, Horror, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Hunter Clarington, Jeff Sterling, Sebastian Smythe, Thad Harwood, Trent Nixon | Coppie: Nick/Jeff, Sebastian/Thad
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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THE BLACK CAT

La vendetta di Trent


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  Il pipistrello finto numero centoventicinque – sì, li aveva contati uno per uno – virò in picchiata mirando alla sua fronte, ma Hunter Clarington aveva i riflessi pronti di un militare in trincea e non ebbe il minimo problema a schivare l’attacco. Nel breve lasso di tempo che l’animaletto delle tenebre impiegò per colpire il pavimento, lui si raddrizzò e si aggiustò il ciuffo verso l’alto con aria seccata.
 
  « Per quanto andrà avanti ancora questa storia? »

In piedi sulla soglia, incrociò le braccia al petto e inclinò il capo; gli occhi di ghiaccio si socchiusero puntandosi su Nick e Jeff, che sfoderarono due sorrisi diabolici perfettamente in sincrono, prima di replicare con un entusiasmo assolutamente fuori luogo: « Finché non riusciremo a spaventarti! »

Hunter alzò gli occhi al soffitto, quasi stesse cercando un qualche aiuto divino per trovare la forza di non fare una strage. Detestare Halloween era, per lui, una vera e propria arte già dai tempi in cui suo padre lo obbligava a rimanere a casa la sera, invece di andare di porta in porta con i coetanei a fare dolcetto o scherzetto, perché “streghe e fantasmi? Cose da bambini”. Il particolare che lui all’epoca fosse effettivamente un bambino non era minimamente preso in considerazione, ovviamente. Ma aveva scoperto, da qualche ora a quella parte, che non c’era niente di peggio che passare un Halloween alla Dalton: per l’evento la stimatissima accademia si trasformava nell’equivalente esatto di un asilo nido, con tanto di ragazzini urlanti e piangenti che correvano per i corridoi inseguiti da serpenti finti e lanci di uova marce. Sospettava che il 31 ottobre servisse da valvola di sfogo per permettere alla politica anti-bullismo della scuola di funzionare correttamente negli altri trecentosessantaquattro giorni all’anno.

Hunter si lasciò cadere sulla poltrona di velluto rosso, le gambe divaricate e gli avambracci abbandonati sui braccioli di legno intarsiato; pur nella posizione più rilassata, manteneva comunque un certo rigore che gli garantiva compostezza in ogni momento. « Ho passato la pubertà al poligono di tiro, con una pistola vera in mano – cominciò a spiegare, mentre un sorrisetto, in qualche modo sadico e malinconico al tempo stesso, si faceva largo sul suo volto - È impossibile che scheletri di plastica e ragni di gomma mi facciano paura. »
 
  « Tutto quel tempo con la tua pistola in mano? Adesso capisco perché sei il Re dei Solitari, Clarington. »

Hunter fece scivolare gli occhi annoiati su Sebastian e trovò la personificazione dell’ozio: Smythe fischiettava la colonna sonora di qualche film dell’orrore, con le mani intrecciate dietro la nuca e le gambe accavallate appena sulle ginocchia di Thad. Quest’ultimo si era sporto in avanti per armeggiare con piatti di plastica e bicchieri colorati sul tavolino del salotto ricreativo della Dalton.

  « Ti brucia ancora il culo perché ti ho battuto a carte? Il Poker non è roba da signorine, Smythe. »
 
  « Il culo mi brucia, ma non c’entra niente col Pok... »

Harwood afferrò un Dito Insanguinato di marzapane dal vassoio, lo infilò in bocca a Sebastian prima che potesse finire la frase e sibilò: « Cosa non ti è chiaro di “la nostra vita sessuale deve rimanere privata?” »
 
Sebastian tossì per un minuto intero, cercando di mandare giù il boccone senza farsi uscire la glassa dal naso. Dopo aver variato più o meno tutte le sfumature dal verde al rosso, il suo viso riprese una tonalità più umana e lui deglutì, parlando con voce ancora un po’ roca: « Buono. L’hai fatto tu? »
 
Il volto di Thad si illuminò di soddisfazione e scrollò le spalle imbarazzato, senza però riuscire a trattenere un sorrisetto. « Me la cavo! » Tornando a ordinare i suoi pasticcini, non fece caso a Sebastian che si voltava in fretta verso Hunter e tirava fuori la lingua, strizzando gli occhi in un’espressione disgustata.
 
Clarington rise. Facevano tutti gli spavaldi quando si trattava di mostri e licantropi, ma nessuno aveva il coraggio di dire chiaramente ad Harwood che doveva abbandonare la sua nuova passione per la cucina prima di avvelenare qualcuno letalmente.
 
Trent entrò nella stanza a passo spedito, ignorando completamente il meccanismo che tentava di aggredire chiunque mettesse piede nel salotto; schivò il pipistrello per puro caso, tenendo il capo chino e il naso distrattamente piantato in un volume dalla copertina consumata, gli occhi scorrevano velocemente il testo. Si sedette di fianco a Jeff e fece cenno di no a Thad, che gli offrì un dolcetto alla zucca e… escrementi di scarafaggio? Non ne era sicuro.
 
Richard lo seguiva con un contenitore da dieci uova in mano, mezzo vuoto, e l’espressione euforica di chi si sta divertendo fin troppo. Si piazzò in mezzo alla stanza e si schiarì la voce dichiarando: « Posso assicurarvi che i ragazzi del primo anno non metteranno più piede nella sala prove dei Warblers per rubare gli spartiti. Anzi… probabilmente non metteranno più piede alla Dalton.”
 
  « Li hai fatti piangere? » s’informò Sebastian.
 
  « Come neonati. »
 
Nessuno ne dubitò.
 
Un cappio volò da un lato all’altro della stanza e Nick lo afferrò, legandolo al collo di una strega di pezza, che poi lasciò a ciondolare nel vuoto. Quando però Jeff prese a lanciargli i coltelli per finire di incavare le zucche, Trent decise che era il caso di togliersi dalla traiettoria e si spostò a sedere sul tappeto, prima di riprendere la lettura.
 
  « Che stai leggendo? » domandò Thad, sbirciando le pagine ingiallite.
 
Trent alzò gli occhi solo per un momento, l’ombra di un sorriso a piegargli le labbra. « Lo scoprirete stanotte » rispose, nella voce viaggiava un mare di sottintesi.
 
Hunter inarcò un sopracciglio, lentamente. « Che succede stanotte? »
 
  « Halloween in stile Warblers! » esclamò Jeff, lanciando in aria le braccia. Una pioggia di attrezzi per addobbare, ragni e topi di plastica ricadde tra i presenti e Sebastian sbiancò completamente quando realizzò che uno dei coltelli gli era finito a mezzo centimetro dal volto.
 
  « Ma state cercando tutti di liberarvi di me?! »
 
  « È Halloween, i miracoli accadono solo a Natale » sospirò Thad, e alzò le spalle rassegnato.
 
  « E in cosa consiste? » chiese ancora Hunter, ignorando i siparietti ormai abituali della coppia.
 
Nick si avvolse un vecchio lenzuolo impolverato attorno al corpo e ghignò nella sua direzione, stendendo le braccia e ululando come un fantasma vendicativo, e poi spiegò: « Ci ritroviamo tutti a pernottare nel luogo più spaventoso che troviamo e ognuno racconta una storia di paura. »
 
  « E quelle di Jeff sono tutte uguali » aggiunse Sebastian.
 
  « Non è vero! »
 
  « Sei ossessionato dai procioni. Tutti i cattivi delle tue storie sono procioni. »
 
  « E allora? Tutte le tue parlano di uomini che diventano impotenti. »
 
Smythe sembrò rifletterci per un momento. « Esiste qualcosa di più spaventoso? »
 
Hunter risprofondò nella poltrona, l’ennesimo sospiro pregno di noia. « Quindi vi sedete in cerchio a raccontarvi storie di paura come le scolarette che siete? Spaventoso. »
 
  « Sei invitato anche tu, Clarington. »
 
Un silenzio teso seguì le parole di Nixon e l’attenzione dei presenti si concentrò su Hunter; erano tutti in attesa di una sua reazione. Dopo la faccenda degli steroidi, Trent era stato eletto nuovo Capitano dei Warblers e Hunter degradato a semplice membro del coro. I due non si erano più rivolti la parola da quel momento, nemmeno l’accenno di un saluto. Era quantomeno bizzarro che ora Trent avesse deciso di invitare l’altro ad una festa i cui invitati erano un numero così esiguo.
 
  « Scordatevelo. Io ho una dignità da difendere. » Hunter però si era irrigidito. La presa si serrò sui braccioli e le nocche sbiancarono; spia del suo disagio. 
 
  « Paura? » buttò lì Trent con un tono apparentemente noncurante, ma gli occhi erano ancora fissi su quelli dell’altro. Li teneva incatenati ai suoi, come fosse una sfida di silenzi, che era determinato a vincere a tutti i costi. « Non è che tutta questa lagna su quanto odi Halloween in realtà è dovuta al fatto che te la fai sotto? »
 
  « Non potresti sbagliarti più di così, Nixon. »
 
  « Quindi mi stai dicendo che nessuno è mai riuscito a spaventarti? Mai? »
 
Hunter si morse il labbro inferiore e le sopracciglia quasi si toccarono nello sforzo di ricordare. Ripercorse velocemente tutti i suoi Halloween passati, ma non rammentava nessuno che fosse riuscito a scuoterlo in quel senso. Non credeva nell’occulto, quindi tutto ciò che aveva a che fare con fantasmi e stregoneria non lo disturbava minimamente, inoltre era una persona fisicamente allenata e sapeva di essere in grado di difendersi dall’assalto di eventuali assassini mascherati, o almeno da quelli che non imbracciavano una sega elettrica. La logica era dalla sua parte quando affermava che c’erano ben poche cose che avrebbero dovuto spaventarlo. « Mai. » rispose quindi, sicuro.
 
Trent chiuse il libro con un piccolo tonfo, lo abbandonò lì a fianco e scambiò un’occhiata fugace con Richard, prima di alzarsi in piedi e infilare le mani nelle tasche della divisa. « Mettiamola così: il ritrovo è a casa di Sebastian, se ti presenti e resisti fino al mattino senza mostrare alcun segno di paura, ti rimetto tra i solisti dei Warblers. In caso contrario rimarrai ad agitare le braccia sullo sfondo fino al tuo diploma. »
 
L’errore più grande di Hunter Clarington, come ormai era chiaro a tutti, era stato quello di sottovalutare Trent; si era lasciato ingannare già una volta dalla sua apparenza indifesa, ma ormai gli era chiaro che quello che aveva davanti era tutt’altro che un ragazzino innocuo. Trent sapeva quando era il momento di farsi avanti e reagire, ma soprattutto… Trent Nixon era onesto e questa era la sua forza, era ciò che portava gli altri Warblers a rispettarlo con naturalezza, senza la necessità di ricatti o regimi di terrore. Se gli aveva detto che gli avrebbe ridato il ruolo da solista, sicuramente non stava mentendo. Quindi dov’era la fregatura? Hunter rifletté per un momento sulle sue parole e notò che qualcosa effettivamente non quadrava: « Solo una domanda… »
 
  « Sì? »
 
  « Cos’ha, di spaventoso, la casa di Sebastian? »
 
 
***
 

  « Mi prendi per il culo? Questa è casa tua? »
 
Aveva udito da voci di corridoio che la famiglia di Sebastian era una delle più facoltose di tutta la scuola e, conoscendo quanto il ragazzo fosse viziato, non stentava a crederlo; quello che invece non aveva contemplato era che la sua famiglia potesse essere tanto facoltosa da comprarsela, la scuola. Si trovavano in piedi davanti ai cancelli in ferro battuto di un vero e proprio maniero, grande quanto la Dalton, se non il doppio.
 
  « Una delle tante, sì. Mamma e papà me l’hanno regalata perché le fondamenta sono troppo malridotte per ristrutturare l’edificio. – Sebastian increspò le labbra e alzò le spalle - Loro non sapevano cosa farsene. »
 
  « È chiaro, cosa potrai mai fartene di un castello… » ribeccò Hunter, il sarcasmo che grondava da ogni sillaba.
 
  « Non molto, dato che ha perso valore dopo… beh, l’incidente. » 
 
  « Quale incidente? »
 
Smythe si guardò intorno paio di volte, come per accertarsi che nessun altro fosse in ascolto a parte Hunter, poi si piegò verso di lui e bisbigliò pianissimo al suo orecchio: « Sembra che il precedente proprietario avesse… murato viva la moglie in cantina. »
 
  « Che dire, la vita di coppia ha alti e bassi. »
 
La voce atona di Thad, alle loro spalle, fece sobbalzare entrambi; lui sorrise gelido a Sebastian, che proruppe in una risatina nervosa e domandò: « Non stai meditando se murarmi o meno in camera da letto, vero? »
 
  « Sarebbe un ottimo modo per tenerti lontano dallo Scandals. »


 
***
 
 
  Gli interni della casa erano quanto di più inquietante e di cattivo gusto Hunter avesse mai ammirato. C’erano teste di alci e orsi imbalsamate a dare il benvenuto sopra ad ogni porta, le pareti e la tappezzeria giocavano su alternanze tra grigio e una tonalità di rosso scuro che ricordava troppo il colore del sangue essiccato - tanto che Hunter avrebbe potuto giurare di aver visto macchie sospette in certi punti della moquette - le stanze erano troppo spaziose e troppo vuote; fatta eccezione per i pochi pezzi d’arredamento in stile europeo ottocentesco, inoltre era chiaro che quella casa non era abitata né pulita regolarmente; considerati i cinque millimetri di polvere che ricoprivano la mobilia, le finestre erano grandi ma al tempo stesso talmente sporche che la fioca luce serale non filtrava quasi per nulla e la penombra inglobava incontenibile metà degli ambienti. Non si stupì quando constatò che l’elettricità mancava in alcune stanze; era prevedibile dato che quelle lampadine dovevano essere al mondo da più tempo di lui.
 
Un particolare che invece lo sorprese fu la frequenza con cui trovò lunghi segni impressi sul legno deteriorato dei mobili. Graffi - Hunter non aveva dubbi – di qualche gatto che doveva aver abitato la casa di recente ma, quando lo fece presente a Sebastian, lui negò: « Questo posto rimane chiuso per tutto l’anno, il personale si assicura che tutto rimanga sigillato, perché l’arredamento è d’epoca e qualche ladro potrebbe approfittarne. Non è possibile che un gatto randagio sia riuscito ad entrare. »
 
  « Ma… e i graffi? »
 
Smythe si voltò a guardarlo, l’aria confusa. « Quali graffi? »
 
  « Questo posto è perfetto! » L’entusiasmo di Nick era come sempre spropositato. Lui e Jeff avevano già scelto una stanza al piano di sopra – matrimoniale, tra l’altro – e ora si stavano sistemando nel salotto, in attesa di cominciare i racconti dell’orrore.
 
  « Chi inizia? » domandò Richard, sedendosi di fianco a Trent che teneva ancora in grembo il libro di quella mattina.
 
Il primo a parlare fu Thad: scelse la breve storia di un cuoco assassino, che chiudeva i suoi rivali nel congelatore e poi li faceva a pezzi servendoli ai clienti come piatto della casa.
 
  « Sicuro che non sia un’autobiografia? »
 
Sebastian pagò pegno con una gomitata nello stomaco per quel commento e fu la volta di Nick e delle sue storie di fantasmi e pipistrelli, Richard prese la parola per terzo e a quel punto della serata Hunter stava già sbadigliando sonoramente. Si era reso conto in fretta e con sollievo di essersi preoccupato inutilmente, era davvero una semplice rimpatriata tra ragazzini e quei racconti erano uno più ridicolo dell’altro. Pensò con un ghigno che riavere il suo posto da solista sarebbe stato come rubare una caramella a un bambino.
 
  « A quel punto un proc… - Jeff ammutolì a metà parola, lanciando un’occhiata avversa a Smythe, poi riprese correggendosi - … un orsetto lavatore comparve dal profondo della foresta e… »

  « Un orsetto lavatore? Jeff, ma quante volte ti hanno fatto cadere sulla testa da neonato? »
 
Hunter sospirò e appoggiò la nuca al cuscino del vecchio divano, socchiudendo gli occhi. Non seguì una sola parola del battibecco tra Sterling e Smythe, perché l’ora era tarda e lui cominciava ad essere stanco, ma l’attenzione si risvegliò di colpo quando fu il turno di Nixon.
 
  « Ora vuoi dirci di che si tratta? » domandò Richard, indicando il libro dell’amico.
 
Trent abbozzò un sorriso e annuì. « Edgar Allan Poe. Il gatto nero. » Bastarono quelle poche parole a riportare un silenzio di tomba tra i presenti, il ragazzo si schiarì la gola e cominciò a parlare con voce ferma e costante: « È la storia di un uomo dall’indole apparentemente calma, che ama moltissimo gli animali. In particolare si affeziona a un gatto dal manto nero come la paura, che diventa il suo inseparabile compagno. Ma col tempo qualcosa scatta in lui e viene posseduto sempre più frequentemente da improvvisi attacchi di rabbia incontrollabili… »
 
  « E per caso si scopre che si fa di steroidi? »
 
  « No. »
 
  « E il protagonista odia la Splenda? »
 
  « No. »
 
  « Solo io noto la somiglianza con Clarington? »
 
  « No, Jeff, l’abbiamo notata tutti. Ora sta’ zitto. »
 
Hunter rispostò il peso in avanti, appoggiando i gomiti sulle cosce e lo invitò a proseguire con un gesto della mano: « Continua. »
 
Trent sembrava soddisfatto del suo rinnovato interesse e non se lo fece ripetere due volte. « La sua insensata attrazione verso la violenza lo porta persino a cavare un occhio al povero gatto, il cui muso rimane sfigurato da un’ampia cicatrice. Ma la perversione dell’uomo non si ferma qui e arriva infine al punto di non ritorno: lega una corda attorno al collo del povero animale e… lo impicca. »
 
Per un istante l’unico rumore nella stanza è l’eco lontano del bubolo di un gufo. Hunter non si era accorto di stare trattenendo il fiato e si ritrovò a esalare uno sbuffetto d’aria nel tentativo di rilassarsi. « Va’ avanti. »
 
  « L’uomo è convinto che il suo crimine contro la vita e la natura rimarrà impunito, ma quando la mattina seguente si sveglia… la sua casa è in fiamme. Riesce a fuggire, ma della sua dimora non resta nulla. Un unico muro rimane intatto dopo l’incendio e sulla sua superficie, come un monito dall’aldilà, l’uomo trova la figura di un gatto impiccato in bassorilievo. Da quel momento lo spirito del gatto lo perseguita… fino a portarlo alla follia. »
 
  « Ma non era già pazzo prima? »
 
  « Beh… ora lo è di più. »
 
  « L’uomo commette altri crimini, sempre più efferati e imperdonabili, arrivando persino ad uccidere la moglie e a occultarne il cadavere. Quando infine viene arrestato il giudice emette una sentenza senza remore: lo condanna a morte. E fino all’ultimo istante di vita l’uomo continua a ripetere sempre le stesse parole: “Non sono stato io, non ero io! È il gatto! Il gatto mi ha posseduto!” »
 
  « BENE! » Thad sbatté le mani sul tavolino davanti a lui e gli altri saltarono sul posto guardandolo con occhi sbarrati; a parte Nick, che stava dormendo ormai da più di mezz’ora sbavando sulla spalla di Jeff. « Direi che è ora di andare a dormire » aggiunse poi, alzandosi in piedi con un sorriso.
 
Richard portò un braccio dietro la testa e lo afferrò con l’altra mano, stiracchiandosi e gemendo per i muscoli indolenziti. « Hunter, vuoi unirti a noi per la notte? » domandò, in tono casuale.
 
  « Che domanda è? Io non sono… »
 
  « Bi-curioso, sì lo sappiamo. Era una cortesia… per non farti dormire da solo in una casa così grande. »
 
  « Dormo da solo da quando avevo un anno di vita. »
 
Sebastian represse un risolino. « La tua vita sentimentale è davvero così pessima…? »
 
  « Non in quel senso! »
 
Trent aveva già salito mezza rampa di scale quando si voltò e, appoggiando l’avambraccio al corrimano, puntò nuovamente gli occhi in quelli di Hunter. Lui rabbrividì, strofinandosi le spalle e dando la colpa al riscaldamento malfunzionante del maniero.
 
  « Allora… buonanotte, Clarington. »
 
 
***
 
 
  Un miagolio in lontananza.
Nell’ombra Hunter camminava; i suoi passi affondavano nel nulla e gli occhi non vedevano che buio. C’erano i rumori però, quelli li sentiva rimbombare contro le pareti umide del castello. Il bubolo del gufo in sottofondo, ogni volta che passava davanti alla doppia finestra del salotto – quante volte l’aveva già superata? – e il rumore strisciante di una corda; che veniva trascinata sul pavimento davanti a lui da qualcuno che forse nemmeno esisteva. Hunter non avrebbe saputo dire chi fosse, perché tutto ciò che si trovava a più di cinque centimetri dal suo viso era divorato dalle tenebre. Ma lui non aveva altra scelta se non camminare verso l’ignoto… ancora e ancora.
 
Entrava nell’ampio ingresso e il lampadario antico sopra di lui dondolava appena, superava il salotto e il gufo gridava più forte, saliva le scale e la corda sbatteva ritmicamente contro ogni scalino, imboccava il corridoio delle camere e solo allora si presentava il quarto rumore, tanto insistente da diventare ossessivo: un raschio sempre identico, dietro ad ogni porta. Qualcosa o qualcuno grattava per uscire da quelle stanze, ma lui non aveva il coraggio di aprire. E non aveva il coraggio di fermarsi. Né di cominciare a correre.
 
Quindi camminava fino all’ultima porta in fondo al corridoio, l’unica dietro alla quale sapeva non si celasse nulla, la apriva e si trovava di nuovo nell’ingresso, il lampadario dondolava e tutto ricominciava.
 
All’infinito.
 
Non avrebbe saputo dire quante volte aveva ripercorso i suoi stessi passi, ma ogni volta l’ansia cresceva e il mondo attorno a lui si faceva più nero. Non poteva continuare, doveva trovare il modo di uscire da quella casa.
 
Quando finalmente si decise a frenare il passo, tutti i rumori cessarono di colpo. Si mosse alla sua sinistra meccanicamente e la mano si appoggiò sul pomello di una porta.
Qualcuno grattava.
Un miagolio.
La aprì.
 
 
Hunter si svegliò di soprassalto.
Le mani umide di sudore strette a pugno sulle lenzuola, i muscoli delle braccia tremanti per la tensione, come se si stesse aggrappando. A cosa, non lo sapeva nemmeno lui. Si tirò a sedere quasi con rabbia, perché quella situazione era ridicola; non poteva credere che le favolette per bambini che aveva ascoltato la sera prima gli avessero davvero provocato incubi così inquietanti.
 
Sono solo storie, ricordò a se stesso.
 
Si passò le mani sul volto, strofinando le palpebre e poi tentando di mettere a fuoco la stanza in cui si trovava. La prima cosa che notò furono le tende del letto a baldacchino che danzavano appena per le carezze del vento notturno. Hunter non ricordava di aver lasciato aperta la finestra, ma decise che era il caso di andare a chiuderla, dato che l’incubo lo aveva lasciato completamente fradicio di sudore e rischiava un mal di gola dormendo in quello stato. A piedi nudi raggiunse la finestra e la chiuse con un gesto secco, facendola sbattere contro gli stipiti in legno consumato.  Uno sbadiglio lo tradì, seguito da un fremito e si strinse nelle spalle strofinandosi gli avambracci. Tutto a un tratto… faceva così freddo.
Non fece in tempo a indugiare su quel pensiero, perché un rumore lo fece raggelare sul posto.
 
Un raschiare contro la porta.
 
Hunter rimase immobile, gli occhi sgranati e la pelle d’oca, mentre ponderava la possibilità di averlo solo immaginato. Doveva essere così: era stata sicuramente un’allucinazione uditiva dovuta all’ansia provocata dal sogno. Dopo mezzo minuto di attesa – in cui l’unico suono fu il rimbombare del suo cuore nella gola - il ragazzo si concesse un sospiro di sollievo, rilassando le spalle e…
 
…stavolta lo udì distintamente: il rumore degli artigli che graffiavano lo strato laccato superficiale del legno era inconfondibile.
 
Artigli.
 
Come aveva fatto a non riconoscerlo prima? Clarence faceva lo stesso rumore quando voleva uscire dalla stanza per godersi la frescura autunnale nei giardini della Dalton; si alzava sulle zampe posteriori e sfoderava gli unghioni, rovinando il disegno in bassorilievo che decorava l’entrata. Hunter l’aveva sgridato più volte per quel motivo.
 
Il ragazzo si decise finalmente ad avanzare verso la porta, perché la parte razionale del suo cervello ora stava lavorando in modo febbrile ed ogni cosa era più chiara. Smythe si era sbagliato e un gatto era indubbiamente entrato nella tenuta, probabilmente un cucciolo randagio in cerca di cibo e un posto caldo dove dormire.
 
Hunter sorrise tra sé per ritrovare un po’ della sua solita sicurezza e appoggiò la mano sul pomello, ignorando la sensazione di déjà vu che gli si insinuava viscidamente nelle interiora. La prima cosa che vide in mezzo a quel nero che tutto inghiottiva, fu una luce gialla; era brillante quanto bastava per annichilire il buio solo in quel punto ed era immobile, sospesa nel vuoto a meno di tre metri da lui.
 
Hunter fu scosso da un fremito quando realizzò che era un occhio. Il piccolo occhio sinistro e allungato di un gatto nero, che sedeva fiero di fronte a lui. Il ragazzo dovette sporgersi in avanti e forzare la vista per constatare che, al posto dell’altro occhio, la creatura aveva una grossa cicatrice ancora incrostata di sangue raffermo.
 
Le parole di Trent attraversarono la sua mente con una nitidezza spaventosa: … cavare un occhio al povero gatto, il cui muso rimane sfigurato da un’ampia cicatrice…”
 
Il felino aprì le fauci e un lungo miagolio patito risuonò come un lamento, si voltò e gli diede le spalle, con la coda alta in allerta cominciò ad avanzare superbo nel buio. Hunter deglutì e tentennò  per un istante; non era sicuro che lasciare la sua stanza in piena notte per inseguire un gatto misterioso dall’aspetto raccapricciante fosse la scelta più saggia in quel tipo di situazione. Ma si riscosse e prese a camminare subito dopo, riflettendo logicamente sul fatto che se voleva dormire in pace doveva accontentare la creatura, o sarebbe tornata più tardi per grattare di nuovo alla sua porta.
 
Quando intuì che il gatto lo stava portando verso la cucina, si tranquillizzò: il felino aveva sicuramente fiutato l’odore di cibo e voleva che Hunter lo aiutasse a procurarselo. Ma, per quanto il suo cervello continuasse a ripetersi che tutto poteva essere spiegato razionalmente, il senso di inquietudine cresceva a macchia d’olio dentro di lui. C’era qualcosa di strano, qualcosa di perverso in nell’aria viziata dal tempo e dalla polvere di quel corridoio. E il modo in cui quel piccolo corpo, martoriato dalla fame e dalle sventure, si muoveva non era normale: erano movimenti scattosi e affaticati, molto diversi da quelli sinuosi ed eleganti di Clarence. Sembravano… privi di vita.
 
 
***
 
 
  Dalla porta socchiusa della cucina spirava una debole luce bluastra. Hunter aggrottò la fronte stranito. Non si aspettava che qualcuno potesse trovarsi in cucina a quell’ora, soprattutto perché si trovavano in una casa che non riceveva manutenzione regolarmente, quindi era improbabile che il frigorifero fosse ancora in buone condizioni o che ci fosse rimasto molto nella dispensa. Si sfregò una mano sulla fronte, strizzando gli occhi e scuotendo la testa. Stava decisamente pensando troppo, quella notte. Tutta quella irrequietezza era da attribuirsi all’arredamento orribile della casa, non c’erano dubbi. Non era paura. Hunter Clarington non aveva paura.
 
Tuttavia scostò la porta lentamente, sbirciando con cautela all’interno della stanza e riconobbe la schiena minuta e compatta di Thad; teneva il capo chino sul bancone e indosso aveva ancora gli abiti della giornata. Hunter rilassò i muscoli sentendo il battito regolarizzarsi di nuovo per il sollievo, finché il suo sguardo non cadde sul banco della cucina.
 
Hunter si portò una mano alla bocca e la morse per trattenere un grido.
 
Thad aveva la presa serrata su un coltello. Lo calava ritmicamente su un tagliere con la maestria di un cuoco professionista e il sangue colava giù dal bancone, scivolando tra le increspature del legno.
 
Dita. Sta tagliando delle dita.
 
Il conato di vomito fu così forte che Hunter sentì le lacrime scivolargli sulle guance quando lo represse a forza, ingoiando più volte. Sopra al tagliere, sulla dispensa, alcuni barattoli erano stati lasciati pronti per l’uso. Uno di questi, di vetro trasparente, lasciava trapelare l’immagine del contenuto: occhi gialli tal taglio allungato e la pupilla affilata.
 
… cavare un occhio al povero gatto…”
 
Thad infilò la mano nel barattolo e ne prese uno, lo appoggiò su un vassoio al suo fianco e si fermò per pulire il coltello sul proprio grembiule. Il sangue impregnò il cotone gocciolando sul pavimento e sulle sue scarpe, ma Harwood non se ne curò e tornò a tagliare.
 
Le gambe  cedettero e Hunter si aggrappò alla maniglia per non svenire, sbiancando completamente quando la porta si spalancò del tutto. La nuca di Thad sussultò e poi lo vide voltare il capo lentamente.
 
Un ghigno.
 
Harwood serrò la presa sul coltello e si voltò completamente verso di lui. Hunter stavolta non perse tempo a trovare spiegazioni logiche per la scena a cui aveva appena assistito, chiuse la porta sbattendola con tutta la forza che aveva e prese a correre. Superò l’ingresso, ignorando l’antico lampadario che dondolava minaccioso sulla sua testa; passò davanti alla grande finestra del salotto e quel maledetto gufo cominciò a bubolare, posseduto da chissà quale spirito notturno; risalì le scale per raggiungere il corridoio delle camere tentando di ricordare disperatamente il numero della stanza di Nick e Jeff.
 
Doveva trovare gli altri. Doveva avvertirli che un maniaco omicida con la faccia di Thad stava tagliando a pezzi cadaveri in cucina. Passando davanti al portone d’ingresso era stato tentato di fuggire da quella maledetta casa, di rifugiarsi in giardino, ma la poca lucidità che gli era rimasta gli era bastata per fargli intuire che non era una buona idea. Il castello era in mezzo al nulla, - boschi e montagne lo circondavano per chilometri e chilometri – quindi gridare aiuto non sarebbe servito a niente e non aveva con sé le chiavi della macchina. La cosa giusta da fare era trovare gli altri, chiudersi in una stanza e usare il primo cellulare disponibile per chiamare la polizia.
 
Una luce gialla.
 
Un miagolio in lontananza.
 
Il gatto da un occhio solo era di nuovo seduto di fronte a lui e Hunter si bloccò realizzando solo allora che il felino era sparito poco prima che raggiungessero la cucina ed era ricomparso adesso nel lato opposto della casa, senza che lui l’avesse visto né sentito arrivare. Quel gatto aveva decisamente qualcosa di sbagliato.
 
Miagolò di nuovo. Un lamento sempre più agonizzante. Poi si accostò ad una porta sulla sinistra, alzandosi sulle zampe posteriori e graffiando ripetutamente. I suoi artigli erano così ingialliti da sembrare marci, si sbriciolavano ad ogni unghiata, ma riuscì comunque a lasciare dei segni definiti.
Dopodiché gli diede le spalle e si allontanò scivolando nell’ombra.
 
Hunter sentì il sudore gelido correre dalle tempie lungo il viso, fino alla mascella. Teneva gli occhi puntati sui graffi come se volesse cancellarli con la forza del pensiero; aveva il cuore in gola e il respiro impazzito. Era la stessa stanza del suo sogno, ne era certo; non era più solo un vago senso di déjà vu, era sicuro di aver già vissuto quel momento, forse in un’altra vita o dimensione. Lesse il numero della camera e tirò un sospiro di sollievo, perché la 136 non poteva che essere la stanza di Nick e Jeff.
 
Lanciò un’occhiata dietro di sé, ma non c’era traccia di Harwood, quindi appoggiò la mano sul pomello in oro laccato e spinse appena. Gli unici spiragli di luce nella stanza erano dati dalla luce fioca della luna, che filtrava a fatica attraverso i vetri sporchi della finestra e le tende di raso color panna, ma era comunque abbastanza per distinguere le figure.
 
Al contrario di quello che si aspettava, Nick e Jeff non stavano dormendo. Invece erano in piedi al centro della camera e stringevano entrambi qualcosa tra le mani: il più alto teneva per la collottola la figura snella di un gatto, la coda raccolta contro il ventre e le orecchie abbassate, l’amico più basso invece stava legando un cappio la lampadario.
 
Hunter seppe improvvisamente cosa stava per succedere e indietreggiò, coprendosi gli occhi in modo spasmodico, mentre la voce di Trent tornava a tormentarlo: “… lega una corda attorno al collo del povero animale e… lo impicca.”
 
Quando Nick lasciò cadere il corpo a peso morto e la corda si tese, un miagolio strozzato si liberò nell’aria, troppo simile al grido di un essere umano. Hunter non riusciva a frenare gli ansiti e le gambe tremavano talmente tanto che non era più certo se fosse lui o il terreno sottostante a muoversi. Lasciò che le mani scivolassero via dalla sua visuale e vide la coppia di amici girarsi all’unisono verso di lui.
 
“… Da quel momento lo spirito del gatto lo perseguita… fino a portarlo alla follia.”
 
Follia. Quella che avevano negli occhi era pura follia.
 
A quel punto Hunter non pensò più. Non c’era rimasto più nulla in lui se non la paura. Il terrore cieco e irrazionale. Quindi ricominciò a correre, cercando di forzare i muscoli a non cedere, nonostante i tremiti, e si gettò istintivamente verso la porta in fondo al corridoio. Nel suo sogno quella porta lo riportava all’ingresso. Forse era quella la salvezza, forse aveva ancora una via di fuga; poteva tentare la sorte e nascondersi nel bosco, camminare alla ricerca di qualche pastore o cacciatore.
 
Spalancò la porta senza delicatezza stavolta, ma non ebbe il tempo di superare la delusione quando si accorse che quello che aveva davanti non era una sorta di portale spaziotemporale che lo riportava all’entrata del maniero, bensì una semplice scala a chiocciola che scendeva ripida verso una destinazione ignota. Lui però non aveva scelta; Nick e Jeff erano alle sue spalle, un nuovo cappio alla mano e la furia omicida negli occhi, quindi scese i gradini tre alla volta, ritrovandosi in un ambiente angusto circondato da quattro mura massicce di gelida pietra. C’erano solo vecchi elettrodomestici ormai inutilizzabili, uno scaffale con libri ammuffiti e qualche straccio. La cantina.
 
Sono in trappola, fu la realizzazione scioccante non appena mise piede in quel luogo.
 
Sentiva i passi dei suoi inseguitori battere sui gradini della scala a chiocciola, quindi corse verso il lato opposto della stanza e tastò la parete nel tentativo ormai disperato di trovare qualcosa, qualsiasi cosa che lo facesse uscire da lì: un passaggio segreto, un punto in cui la pietra era abbastanza consumata da essere frantumata a mani nude. Qualsiasi cosa.
 
  « Hunter! »
 
Il ragazzo sobbalzò allontanandosi dalla pietra di un passo. La voce che aveva appena gridato il suo nome veniva da… dietro la parete?
 
Sembra che il precedente proprietario avesse… murato viva la moglie in cantina.
 
Il sangue gli si congelò nelle vene, quando capì chi c’era dall’altra parte del muro.
 
  « Sebastian…? »
 
  « Hunter! Fammi uscire! »
 
Hunter cadde in ginocchio, si rannicchiò su se stesso e si coprì gli occhi, scoprendo di stare piangendo. Quello fu ciò che lo sconvolse di più. Lui, Hunter Clarington, stava lacrimando per la paura.
 
  « Qui non c’è aria! Fammi uscire! »
 
  « Non posso! » urlò il ragazzo, la voce spezzata dai singhiozzi.
 
I passi cessarono.
 
Per un momento ci fu solo silenzio.
 
Hunter attese, non aveva il coraggio di scostare le mani e aprire gli occhi. Voleva che fosse solo un brutto sogno, voleva che fosse solo il continuo di quel maledetto incubo… voleva risvegliarsi nel suo letto, alla Dalton.
 
  « Sei proprio inutile, Clarington. Se davvero mi murassero vivo l’unica cosa che faresti è rannicchiarti e piangere come un bambino? Vuoi anche farti una sega mentre aspetti che io muoia? »
 
Una risata riempì la cantina e la luce si accese di colpo.
 
Hunter spalancò gli occhi e lanciò un grido quando si ritrovò il viso di Sebastian a mezzo centimetro dalla sua faccia. « Cos… c-come hai f-fatto a uscire? »
 
Sebastian sorrise diabolico e indicò lo scaffale nell’angolo della stanza: era stato scostato dalla parete e c’era una porticina di metallo spalancata proprio dietro di esso.
 
  « Quella è la caldaia. E queste sono le chiavi. » Gli mostrò un mazzetto di chiavi tintinnanti e gli diede una pacca sulla spalla, in qualche modo rassicurante.
 
Solo allora Hunter provò ad alzare lo sguardo davanti a sé, e trattenne a stento un altro grido, quando Thad si chinò verso di lui porgendogli un vassoio colmo di Dita Insanguinate e Occhi di Gatto.  « Ne vuoi provare uno? Per fare la cornea ho usato miele e gelatina, il sangue invece è glassa colorata. »
 
Hunter non riuscì nemmeno a rispondere, boccheggiò ancora senz’aria e spostò lo sguardo su Jeff, che stava stringendo il pupazzo di un gatto; Nick ridacchiò ed estrasse il cellulare dalla tasca, premette un tasto e un miagolio agonizzante risuonò nella stanzina. « L’abbiamo registrato l’ultima volta che Sebastian ha pestato inavvertitamente la coda di Clarence » spiegò, piuttosto orgoglioso della trovata.
 
Richard esplose nell’ennesima risata e Hunter spostò gli occhi sulla base della scala a chiocciola, dove lui e Nixon stavano osservando la scena.
 
  « È stato Trent a organizzare tutto, considerala la sua vendetta per averlo fatto fuori temporaneamente dai Warblers. »
 
Trent gli sorrise, per la prima volta senza rancore. « Felice Halloween, Clarington. »
 
 
***
 
 
  « Ma perché te la prendi? Era solo uno scherzetto di Halloween! Avevi detto che niente poteva spaventarti. » Sebastian passò tutta la mattina seguente a rincorrere Hunter, cercando un modo per farsi perdonare, ma rigorosamente senza chiedere scusa.
 
  « Intendevo gente mascherata da vampiro e film dell’orrore! Non i miei compagni che impiccano gatti e affettano cadaveri! »
 
Thad scrollò le spalle, incastrando la sua borsa nel bagagliaio di fianco a quella di Richard, che era già al volante e strombazzava per il puro gusto di spaventare i corvi sugli alberi. « Si capiva che non erano dita vere… »
 
  « Puzzavano come se fossero in putrefazione. »
 
  « Ehi! » Harwood protestò, sinceramente offeso, prima di prendere posto nella macchina di Richard.
 
Nick cercava di trascinare Jeff, che piagnucolava di non voler tornare a scuola, dove i procioni l’avrebbero trovato, perché era un luogo troppo scontato dove nascondersi. A quanto pare aveva avuto anche lui incubi movimentati la notte precedente.
 
Trent li superò con nonchalance e si fermò di fianco ad Hunter, che al momento era molto impegnato a tentare di strozzare Sebastian a mani nude, in un tentativo di ammazzarlo sul serio e fargli finalmente chiudere la bocca. « Considera il tuo debito nei confronti dei Warblers definitivamente saldato » parlò Nixon, la voce ferma e solenne.
 
  « Sentito? Non è bello sentirsi parte del gruppo? » Sebastian sfoderò un sorrisone tutto miele e Hunter strinse la presa sul suo collo con gusto.
 
  « Clarington, mollalo o il mio prossimo piatto sarà a base di Persiano! »
 
Hunter grugnì e lasciò andare il ragazzo, ma un pensiero gli attraversò la mente in quell’istante e aggrottò la fronte, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi. « A proposito di gatti… e quello nero con un occhio solo? Come avete fatto ad addestrarlo a portarmi nelle stanze? »
 
Sebastian si accigliò, ancora massaggiandosi il collo. « Di quale gatto stai parlando? È stato Richard a venire a svegliarti graffiando alla tua porta, non c’era nessun vero gatto. »
 
Clarington piantò gli occhi nei suoi per un lungo momento, ponderando la veridicità delle sue parole, ma conosceva abbastanza Sebastian da capire quando mentiva. E ora non lo stava facendo.
 
Hunter si voltò di nuovo verso la casa e deglutì a vuoto. « Andiamocene, – sentenziò infine, prendendo posto al volante sull’altra macchina -  non ne posso davvero più di questo posto maledetto. »
 
Le gomme sfregarono dapprima scivolose sul terreno fangoso, poi fecero presa e le due auto si allontanarono a velocità sostenuta dal maniero.
 
In lontananza… un miagolio.
 
 



Note:

Il gatto con un occhio solo, l’elemento della sua impiccagione e la moglie murata sono tutti riferimenti al racconto Il gatto nero di Edgar Allan Poe, la cui trama viene spiegata brevemente da Trent a metà storia.
 
Questa storiella è stata per me un vero e proprio esperimento; non ho mai scritto racconti di paura prima, ma è un genere complesso, che mi ha sempre affascinata e sapevo che sarebbe stata una sfida, quindi mi sono messa alla prova. Ai posteri l’ardua sentenza ;)
 
Mi sono divertita a lasciare delle piccole anticipazioni nella prima scena, e parecchie analogie nemmeno troppo velate tra il sogno di Hunter e la sua esperienza horror, ma (SE ho fatto bene il mio lavoro) qualche lettore lo avrà notato per conto suo.
 
Finale aperto, già. A vostra interpretazione: il gatto era frutto della suggestione di Hunter? O meglio ancora della sua follia? O esiste davvero lo spirito di un gatto che perseguita chi alloggia nella casa? Scegliete voi :3

Un bacio e grazie per essere arrivati fino a qui :*

 
   
 
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