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Autore: Baby Giant    07/11/2013    0 recensioni
Se New York incontrasse l'Italia probabilmente avverrebbe una cosa simile. Storia più romantica rispetto alle altre che ho pubblicato, questo perché un po di zucchero non guasta mai.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Le porte dell’ascensore si aprono, siamo al terzo piano. Mattia inizia a correre lungo il corridoio che ci guarda dopo essere usciti da quella cabina di metallo. Gli grido di fermarsi. Ubbidisce. Si volta, mi guarda con il solito sguardo che usa per farsi perdonare quando viene sgridato. Torna indietro come un cagnolino, con la coda tra le gambe. Si sistema al mio fianco, mi prende la mano e alzando il viso verso di me dice: “Scusa mamma, non lo faccio più!”. Osservo gli occhi verdi di mio figlio implorarmi di non alzare di nuovo la voce, mi arrendo, mi chino e lo prendo in braccio. Mattia ha sei anni, ha i capelli castano chiaro e gli occhi verdi come suo padre ma per quanto riguarda il carattere assomiglia in tutto e per tutto a me. È un anno che siamo separati ma nonostante tutto il piccolo non ha perso il sorriso e questa è la cosa più importante. Suo padre è croato, ci eravamo conosciuti all’università, eravamo dei giovani sprovveduti, pensavamo che il nostro amore potesse durare per sempre ma evidentemente ci sbagliavamo.

Dopo aver vagato per alcuni minuti riusciamo a trovare la nostra stanza. Apro la porta con ancora Mattia in spalla: è una camera doppia. Le lenzuola che ricoprono il letto matrimoniale sono di un tenue color lilla, abbinate con le tende. Intercetto con la coda dell’occhio il ragazzo che all’ingresso  del albergo si era offerto di portarci le valige, lo ringrazio e lascio la mancia. Non faccio in tempo a chiudere la porta che mio figlio sta già rimbalzando sul letto, da buona madre so che dovrei rimproverarlo e dirgli che ciò che sta facendo è sbagliato ma pensare che sono in vacanza dopo mesi di lavoro logorante mi addolcisce a tal punto che crollo di fianco a Mattia. Mentre i miei capelli neri si spargono sul lenzuolo, lui si aggrappa alla mia vita e appoggia la testa sul mio ventre, facendomi ricordare che ho solo trent’anni e che potrei permettermi di avere ancora dei figli.

 

In meno di due ore riusciamo a sistemare i bagagli e a farci entrambi una doccia. Mentre usciamo dal’ hotel per fare una passeggiata chiedo a Mattia dove vorrebbe andare e lui, come un qualsiasi bambino in vacanza al mare, mi risponde che vorrebbe recarsi una sala giochi. Comprendo perfettamente quello che cerca di dire mio figlio, tutta colpa di Marjo: suo padre. E' diventato sempre più severo e distante, solo dopo aver divorziato sembra che si sia ricordato di avere un bambino. Marjo tutt’oggi è un uomo davvero affabile, ha un viso che ti strega, un corpo ancora giovane e un lavoro dove viene ben pagato. Molti potrebbero pensare: e cosa volevi di più? Non so se in quel periodo gli chiedevo troppo ma ritenevo che non fosse positivo per mio figlio venire ignorato dal padre e visto che il nostro rapporto si stava sgretolando, decisi che fosse giunto il momento di cambiare vita per me e lui. Ricordo ancora lo sguardo terribilmente calmo di Marjo quando gli chiesi di separarci. Lui acconsentì senza troppi fronzoli, fu secco, deciso e io non potei che rimanere terribilmente delusa dall’uomo che una volta aveva giurato d'amarmi. Non ci misi troppo a capire che aveva un’altra, per di più bionda, con gli occhi azzurri e più giovane di me. Non ho niente contro questo tipo di donna ma possedendo caratteristiche mediterranee che comprendono occhi scuri, capelli neri e un fisico piuttosto formoso non riuscii a non sentirmi piccola e inutile.

Non mi sono pentita di aver divorziato anzi, è stato l’unico modo per poter far riavvicinare padre e figlio. Ho ricevuto il permesso del giudice di poter  tenere Mattia sotto la mia custodia in più il mio ex marito deve cedermi la somma di mille euro al mese. Tanti? Pochi? Non so rispondere a tale domanda, so solo che quando posso rendere felice mio figlio non riesco a tirarmi indietro.

Decidiamo di andare a vedere la spiaggia e poi andremo a fare un giro per negozi con la speranza – e quasi certezza – di trovare una sala giochi. A prima vista la spiaggia potrebbe sembrare una normalissima distesa di sabbia ricolma di ombrelloni ma invece è il luogo dove ho trascorso i miei albori. Ho voluto venire in vacanza qui, a Riccione, per poter assaporare quei momenti felici che ricordo della mia adolescenza ma che ultimamente mi hanno abbandonata. Anche l’hotel dove alloggiamo è lo stesso della mia infanzia; furono i miei genitori a portarmi qui e anche se dopo essermi sposata ero solita scegliere insieme a Marjo la montagna, questo luogo mi è rimasto nel cuore.

Decido di farmi riservare una tenda e due lettini per una quindicina di giorni, così avremo sempre un po’ di ombra e Mattia potrà benissimo giocare nei dintorni senza problemi. Mentre ringrazio il bagnino per la sua disponibilità vedo mio figlio dirigersi verso il mare; si è tolto i sandalini, li tiene in mano e inizia a battere i piedi in acqua. Lo lascio fare, mi spiace solo non poterlo seguire, le mie gambe non mi hanno mai permesso di portare qualsiasi tipo di pantaloncini ma piuttosto che perdermi tale momento estraggo il mio smartphone dalla tasca dei jeans e inizio a fotografarlo. Ogni tanto gli dico “Saluta il nonno e la nonna che poi gli mandiamo le foto!” oppure “Fai un sorriso al papà!”. Vedendo mio figlio sorridere mentre gioca ripenso alla frase che mi disse mio padre quando gli confessai  di essere incinta: “Conosco persone che si sono pentite di essersi sposate ma mai nessuno che si fosse pentito di aver avuto un figlio”. Forse mio padre sapeva già tutto prima che divorziassi, quando lo dissi ai miei genitori, loro mi guardarono  come per dirmi “Noi saremo sempre dalla tua parte” per poi aggiungere “Non vediamo l’ora di vedere il nostro nipotino di nuovo felice!”.

Dopo aver preso in braccio Mattia per evitare che i suoi piedi si sporcassero di sabbia e dopo averlo quasi costretto a risciacquarseli nella fontanella prima di uscire dal bagno, abbiamo iniziato a camminare per cercare una sala giochi. Scavo nella mia memoria per cercare in ricordare deve fosse situata il luogo di divertimento dove ero solita andare io da bambina e con enorme sorpresa noto che è ancora perfettamente funzionante.

Appena entriamo Mattia sale su una di quelle macchinine che, dopo aver inserito il gettone, iniziano a fluttuare nell’aria. Mattia sorride dicendomi “Guarda mamma, sono un pilota! Posso fare il pilota da grande!”, gli rispondo “Amore tu da grande potrai fare quello che vuoi!” e lui ridendo mi dice “Allora voglio fare l’astronauta!”. Guardo mio figlio muoversi seguendo il ritmo di quell’aggeggio meccanico e non posso fare a meno di ricordare momenti simili della mia gioventù.

 

Sono cresciuta in una famiglia deliziosa, mia madre è stata ed e tutt’ora è la mia migliore amica, mio padre anche dopo aver avuto un infarto è sempre rimasto l’uomo sorridente e positivo che è anche oggi. Penso di essere stata alquanto desiderata visto che, quando hanno potuto, i miei genitori mi hanno sempre incoraggiata e sostenuta con tutte le loro forze. Ogni tanto mi chiedo come sia stato possibile per me, ragazza cresciuta all’interno di una famiglia sincera e amorevole, mettere in piedi un matrimonio così falso e anonimo. Mentre Mattia decide di scendere e cambiare postazione, avverto il mio telefono vibrare. Lo raccolgo e vedendo che è una telefonata del mio datore di lavoro, da una parte, vengo presa da una strana voglia di non rispondere ma visto che mi conviene tenermi stretto il mio attuale impiego decido di acconsentire alla chiamata. Giovanni, il mio capo, dice che dopo essere tornata dalle vacanze dovrò occuparmi di una particolare fattura sparita nel nulla. Annuisco con fare svogliato e riattacco. Ripenso al fatto che sono in vacanza e che qualsiasi cosa succeda all’azienda dove lavoro non è di mio interesse. Ora la mia priorità è assistere mio figlio mentre è intento a divertirsi e anche io non farei male a rilassarmi.

Rimaniamo per parecchio tempo in quel luogo, Mattia non vedeva l’ora di provare ad essere Valentino Rossi su quelle giostre simili a dei piccoli bolidi. Quando usciamo di lì, mio figlio mi svela quanto sia felice di essere in vacanza con me, la sua mamma, in un posto così divertente.

Sono contenta che Mattia sia felice. Tornando verso l’albergo scorgo con lo sguardo la vecchia libreria dove spesso mi fermavo quando mi capitava di venire in vacanza da queste parti. Si tratta di un piccolo locale; all’interno ricolmo di libri, soltanto toccando la maniglia della porta d’ingresso si riesce ad avvertire il profumo di vecchia carta stampata. Entriamo, il posto è fresco e accogliente proprio come lo ricordavo. Dietro al bancone c’è seduta una signora, minuta ma allo stesso tempo robusta che ispira una certa sicurezza. Appena mi vede entrare con mio figlio che mi stringe la mano mi rivolge un sorriso e un caloroso “Buon pomeriggio”. Ricambio il saluto e mi metto a frugare nei ripiani che più mi ispirano. Mattia rimane sempre al mio fianco, senza dire una parola. Sa della mia immensa passione per i libri e la letteratura e quindi probabilmente non parla semplicemente per non disturbarmi. Dopo aver sfogliato le così dette “Novità letterarie” decido di passare agli “Sconti” e immediatamente vengo attirata da un romanzo giallo. Si ratta di una storia d’amore mescolata con un omicidio, la protagonista viene incaricata di scoprire l’assassino ma, invece dell’uccisore, viene a conoscenza di tutti i tradimenti del marito e quindi per ricambiarlo con la stessa moneta decide di passare una notte di passione con un suo collega. Lo sfondo del racconto è la favoloso Grande Mela: New York.

Rimango a fissare il resto del romanzo per alcuni minuti anche se non sto leggendo la trama. Ripenso al mio primo viaggio a New York, avevo diciannove anni. Mi era stato regalato come premio per la ottima promozione all’esame di maturità. Erano anni che sognavo di andare a viverci ma purtroppo questo non avvenne; pensavo che la mia preparazione scolastica riguardante l’economia mi avrebbe permesso di mantenermi ma evidentemente mi sbagliavo. Provai a cercare lavoro anche come cameriera o barista ma fu inutile, dovetti ritornare in Italia ma almeno avevo avuto la possibilità di sentirmi come Carrie Bradshow in Sex and The City. Non dimenticai mai New York, rimase per molto tempo l’unico luogo dove riuscivo a sentirmi pienamente completa, almeno dopo la nascita di mio figlio.

Mi sento pizzicare lievemente la coscia da una manina, è Mattia che  dopo aver visto il mio sguardo perso nel vuoto mi chiede se va tutto bene, io annuisco prendendolo in braccio mentre con l’altra mano consegno il romanzo alla donnina per poi pagare. Ringrazio ed appena fuori dal negozio mi congratulo con me stessa per l’ottima scelta e soprattutto per aver approfittato dello sconto. Infilo il libro nella mia borsa e prendo in braccio Mattia, farò tutto il percorso per tornare in albergo con lui in braccio.

 

Appena entrati in camera accendo l’aria condizionata, mi infilo la leggera maglia del pigiama e incomincio a leggere, completamente distesa sul letto. Mattia è nella vasca da bagno. Il getto fresco del condizionatore mi scompiglia i miei lunghi capelli scuri sfilacciati sul cuscino. Con la coda dell’occhio intravedo mio figlio mentre schizza e si bagna i capelli color ambra. Abbasso il libro sulla pancia, lo guardo con dolcezza e lui, dopo avermi intravista, mi fa un cenno con la mano sorridendo. Penso che Mattia sia stata la mia unica salvezza dopo il matrimonio finito male con Marjo. Non mi sono mai pentita di essere rimasta incinta anche se ero piuttosto giovane. Mio figlio è il dono più bello che la mia  vita potesse farmi.

Volto il capo, guardo l’orologio poggiato sul comodino, sono quasi le sei e un quarto e visto che la cena è prevista per le sette e mezza inizio a prepararmi. Apro le ante dell’armadio e ne estraggo un tailleur nero con pantaloni e camicetta sbracciata abbinato con décolleté, nere anch’esse. Decido che sia il caso di raccogliermi i capelli visto quanto sono rimasti sciupati dal caldo. Prima di pensare a me chiedo decido quali capi indosserà mio figlio per stasera.

Per le sette e mezza precise siamo già nella Hall dell’albergo, un cameriere mi saluta all’ingresso e batte il cinque a Mattia. Da lontano scorgo Vito che a sua volta mi ha intravisto in mezzo ai tavoli, mi viene incontro, lo abbraccio, gli do un bacio sulla guancia, è da tanto che non lo vedo. Vito è il maître che aveva iniziato a lavorare il primo anno che io e i miei genitori eravamo venuti a Riccione in villeggiatura. Ormai è un amico di famiglia. Saluta Mattia, ci accompagna al nostro tavolo e ci assicura che in breve tempo un cameriere verrà a prendere le nostre ordinazioni. Mangiamo divinamente, io mi abbandono ai piaceri della cucina romagnola mentre Mattia gusta la sua pizza con  le patatine. Il dolce è a self-service, opto per una macedonia mentre mio figlio preferisce un budino al cioccolato. Mentre mi sto servendo, un uomo alto, dalla carnagione scura mi sfiora il gomito sinistro. Si gira verso di me, mi chiede scusa, io a mia vota lo guardo, indossa una camicia bianca, dei jeans chiari e scarpe sportive, porta una macchina fotografica professionale al collo. Rimango sbigottita dal suo aspetto così giovanile e professionale, gli rispondo: “No, guarda, fa niente…”. Comprendendo il mio imbarazzo allunga la mano e si presenta, si chiama Jason. Mi presento a mia volta “Ciao, io sono Anna”  lo guardo con fare abbastanza strano ma semplicemente sono rimasta impressionata dai suoi occhi color tenera. È più giovane di me, dimostra venticinque anni. Non ho il tempo di articolare qualche parola sensata che sento la voce di mio figlio implorarmi di prendergli il suo budino. Lo accontento, mi volto e mentre raccolgo una fetta di quella gelatina scura. Il ragazzo dalla carnagione scura si è inginocchiato davanti a mio figlio, lo intrattiene con parole semplici, gli chiede se gli piace la magia e come per incanto fa comparire una monetina di legno fra le sue dita ritraendole e facendole schioccare. Jason si allontana di lì a poco perché è d’obbligo – almeno per mio figlio -  divorare un budino appena se lo ritrova davanti e quindi sono costretta a seguirlo al tavolo. Non posso negarlo, ho osservato Jason per alcuni minuti dopo essere tornata al tavolo con Mattia e la cosa che più mi a lasciato sorpresa è che ne venivo ricambiata.

 

Dopo la cena io e mio figlio rientriamo in camera, aiuto Mattia a lavarsi i denti ma prima gli tolgo la maglia per evitare che possa bagnarla. Lui, incurante di quello che sto facendo, mi dice: “Jason è simpatico mamma, è un mago!”. Gli rivolgo un sorriso affettuoso, Mattia riesce a trovare del buono in ogni singola persona che incontriamo, è ancora troppo piccolo per conoscere davvero come funzionano le relazioni. Dopo essermi lavata i denti mi rimetto il rossetto, chiedo la porta del bagno ed entrambi usciamo dalla nostra stanza per andare a fare una passeggiata in centro. La receptionist della Hall ringrazia Mattia con un sonoro “Divertiti questa sera!” dopo che lui le ha consegnato le chiavi della nostra camera. Usciamo  mano nella mano ma non riusciamo a fare molta strada. Questo perché Mattia si ferma appena passiamo davanti ad una trasversale. Inizia a tirarmi il braccio. Inizialmente rimango intontita dalla forte luce del lampione che aleggia su di noi ma alla fine anche io riesco a scorgere nella penombra una figura umana. È Jason che, appoggiato al muretto che separa il nostro albergo dalla strada, sta trafficando con la macchina fotografica che ha appesa al collo. Mattia si stacca da me, gli corre incontro lasciandomi indietro mentre chiamo il suo nome a gran voce. Ad un certo punto prende la mano di Jason e lo trascina verso di me. Il ragazzo di colore lo lascia fare, non si lamenta, anzi, guarda mio figlio in maniera divertita. Prima di giungere dinnanzi a me i suoi occhi neri incontrano i miei occhi castani, vedo la sua pupilla ondeggiare da una parte all’altra mentre il mio sguardo rimane fisso sul di lui. Dopo avermi calpestato i piedi più e più volte per far si che Jason potesse essere abbastanza vicino a me, mio figlio alza la testa e mi chiede: “Mamma, Jason può venire con noi? Prima mi a detto che conosce un posto divertente dove andare…”. Rimango attonita a guardare mio figlio per poi tornare con lo sguardo sul viso di Jason. Lui mi guarda nello stesso modo in cui lo guardo io: in maniera dubbiosa ma dopo parecchie richieste da parte di Mattia acconsento permettendo a questo ragazzo di accompagnarci.

Ad un certo punto è Jason che inizia a guidare Mattia mentre io li seguo da lontano. Dopo poco tempo ci ritroviamo davanti ad un giostra enorme, una di quelle che per il nostro tempo verrebbero considerate all’antica, con i cavalli e le carrozze. Vedo mio figlio meravigliarsi davanti a tanta maestosità. Sembra quasi di essere a Parigi, nella sera di uno di quei giorni piovosi ma invece siamo sempre a Riccione. Mattia si volta dalla mia parte e ancora prima che riesca a proferire una sola parola mi vede scomparire nell’oscurità per poi ricomparire di lì a poco con tre gettoni. Prima di salire Mattia si getta al mio collo, stringendomi forte per poi andare a ringraziare Jason per avergli svelato un luogo simile.

Mentre mio figlio si sbraccia accompagnato dal su e giù della giostra, io e Jason ci sediamo su una panchina lì vicino e incominciamo a parlare. Al suo polso vedo uno di quei braccialetti da tifoso, c’è scritto “Yankees”, la domanda è spontanea: “Sei americano?”. Lui risponde affermativamente, dicendo di essere figlio di afro-americani ma visto che suo nonno, dopo l’abolizione delle leggi razziali, aveva sposato una donna bianca non possiede quel caratteristico colore scuro degli ex schiavi neri, si definisce mulatto. È in Italia dall’età di tredici anni per riuscire a realizzare il suo più grande sogno, fare il fotografo. Lo ascolto parlare, lo vedo sorridere e piano piano anche io decido di rivelarmi a lui. Quando inizio a parlare del mio matrimonio fallito un anno fa noto che non distrae lo sguardo, mi fissa, cercando quasi di capire cosa si prova a soffrire per amore. Jason non parla della sua situazione sentimentale e quando parla, racconta di se, dei suoi ideali. Narra di quando era piccolo e suo nonno gli raccontava della sfilata per il lavoro e la libertà  indetta da Martin Luther King Jr il 28 agosto 1963 davanti al Lincoln Memorial di Washington.

Mentre mio figlio scende dalla giostra dopo aver consumato i suoi tre gettoni penso a come questo ragazzo riesca a farmi sentire avvenimenti che fino ad alcuni anni fa avevo sentito descrivere solo nei libri.

Dopo essere riusciti a far allontanare Mattia dal quel luogo, ci dirigiamo verso il centro per poi entrare in una gelateria, sederci e ordinare. Il luogo è affacciato sul mare quindi mentre Mattia di diverte a sporcarsi di sabbia, io e Jason continuiamo a parlare. Mi chiede per quale motivo mi trovo in un posto simile ed invece non sono su qualche isola nel bel mezzo del mar dei caraibi, gli rispondo che avevo voglia di tornare indietro, alla mia infanzia, alle origini. Lui invece è qui giusto per staccare due settimane, prima di partire per un set fotografico a Budapest. Gli chiedo se viaggia tanto, lui risponde di si ma che alla fine torna sempre in Italia, la considera la sua casa, la sua terra delle opportunità. Mi chiedo come non riesca ad accorgersi in quale fantastico paese è nato ma lui, come se in qualche modo mi avesse letto nel pensiero, mi dice: “Sembra strano ma per me l’America non è quel fantastico luogo che tutti sognano. Forse dipende da dove sei nato. Secondo me se anche tu fossi nata in America adesso ti riterresti contenta di essere qui”. Lo scruto con sguardo serio, questo ragazzo sa come rapirmi, sa come trattenermi, le sue parole si fermano infondo al mio petto e non si muovono più fino a quando non interrompe il silenzio dicendomi: “Hai davvero un figlio meraviglioso, un giorno spero anche io di avere un bambino simile a lui…”. Mi parla con il capo girato nella direzione di Mattia, lo guarda sognante e proprio in quel momento decido di informarmi: “Sei fidanzato?”. So perfettamente che potrei sembrare sfacciata ma visto che mi trovo in vacanza, in una località dove poche persone mi conoscono posso permettermi di chiederglielo. Lui scuote il capo, dice di no per poi scoppiare in un sorriso frustato. Mi scuso, gli chiedo di perdonarmi, che se non vuole raccontare è libero di non farlo. Rimane con lo sguardo perso nel vuoto per alcuni minuti ma poi inizia a dirmiche non sarebbe corretto visto che io mi ero aperta con lui come se fossi stata davanti ad un vecchio amico. “Se vuoi dire che mi sono sputtanata subito senza aspettare che ci conoscessimo per bene, ti do ragione” gli dico in maniera quasi imbarazzata. Lui scoppia a ridere a dopo aver attenuato quella risata inizia a raccontare: “Ho travato la mia ragazza a letto con un altro. Il bello è che l’altro era il mio migliore amico. Sono single da due anni e non ho più un migliore amico”. “Oh” dico abbastanza impietosita, “Mi dispiace…” cerco di scusare la mia eccessiva curiosità. “Non devi scusarti”, nel suo tono riesco quasi a captare un rimprovero, “Sai Anna, funziona così e basta. Non bisogna mai fidarsi ciecamente di nessuno, neanche del proprio migliore amico che si conosce da una vita. Vedi, non siamo stati creati per essere felice, dobbiamo solo essere capaci di goderci il momento, quello che avviene, quello che si può vedere in un determinato istante e io sono del parere che tu non sarai mai più bella di quanto sei ora”.

Rimango immobile, cerco di guardarlo negli occhi ma non ne sono capace, l’unica cosa che riesco a fare, con un filo di voce, un dire “Grazie” mentre una minuscola lacrima mi scivola sulla guancia sinistra. Lui raccoglie un fazzolettino dal contenitore sul tavolo e inizia delicatamente a tamponarmelo sul volto. Questa volta invece lo fisso, con ardore, sperando in una sua reazione ma l’unica cosa che riesce a dire è “Scusa, non volevo farti piangere”. “No, no…” cerco di ribattere “Mi è solo andato un granello di sabbia nell’occhio”. Lui mi guarda sorridendo e dolcemente afferma: “È la scusa più vecchia del mondo”. Finisco anche io per sorridergli e annuire.

 

La serata finì piuttosto presto, tornammo in albergo verso le undici, fummo costretti perché Mattia iniziò ad avere sonno. Salutammo Jason davanti all’ascensore, lui fece le scale mentre io e Mattia decidemmo di prendere l’ascensore. Appena le porte si chiusero appoggiai la schiena sullo specchio e, sempre tenendo per una mano Mattia, mi massaggiavo le tempie con l’altra finché ad un certo punto mio figlio, preoccupato, mi chiede se va tutto bene e io, sollevando lievemente il palmo della mano rispondo di sì, giusto per tranquillizzarlo.

Durante la notte non riesco a prendere sonno, continuo a pensare alle parole di Jason, il fotografo americano. Chiudo e apro gli occhi per alcune volte, in maniera abbastanza irritata; probabilmente se qualcuno mi stesse guardando ipotizzerebbe di osservare una donna con alcuni problemi nevrotici ma vi assicuro, non è così. Decido di alzarmi dal letto e andarmi a sedere sulla poltroncina di fianco alla finestra. Una debole luce filtra dalle persiane e io mi posiziono lì, controluce, in ombra per poter osservare mio figlio che dorme in posizione fetale nell’altra parte del letto matrimoniale. Respira dolcemente, una delle manine si trova appena al di sotto del mento. Il caschetto di capelli chiari gli copre lievemente le palpebre serrate. Lo guardo con occhi lucidi e ringrazio per aver ricevuto quello che è  il senso della mia vita. La gamba che ho piegato per riuscirmi a sedere su quella poltroncina inizia a reclamare un po’ di pietà, avverto un leggero formicolio, decido di alzarmi. Apro il cassetto del comodino che ho di fronte e ne estraggo un pacchetto di Winston Blu ancora incartato. Ne porto sempre un pacchetto con me. Non fumo ma ogni tanto una sigaretta mi aiuta a tranquillizzarmi. 

Apro la porta del bagno, mi rinchiudo li dentro, non voglio che mio figlio inali del fumo passivo mentre dorme. Mi siedo sulla tazza del water e, mentre accavallo una gamba inizio a fumare. Lo faccio lentamente, “Bisogna godersi il momento…”, con gli occhi fissi al muro dinnanzi a me, “Non sarai più bella di quanto sei ora…”, l’ennesima boccata di fumo.

Ad un certo punto avverto un rumore, come se qualcuno stesse chiamando il mio nome e di fatto è così. Mi alzo dalla mia seduta, apro il rubinetto del lavandino, faccio scorrere un po’ d’acqua giusto per poter spegnere la sigaretta appena iniziata. Esco di soppiatto dal bagno per evitare di svegliare Mattia e la avverto ancora, una voce sta chiamando il mio nome e proviene da dietro l’uscio della camera. Apro lievemente la porta e subito intravedo la figura di Jason che tenta di richiamare la mia attenzione. Glielo domando immediatamente:

“Cosa ci fai qui? È tardi e Mattia dorme.”

“Ti prego Anna esci, ti devo parlare!”

“Ora? Non possiamo domani mattina?”

“No! Mi dispiace se ti ho fatto piangere non era mia intenzione!”

“Okay, calmo, scuse accettate.”

In quel momento mi prese per un braccio e mi tirò fuori, feci attenzione a non far sbattere la porta per evitare che Mattia potesse svegliarsi.

Guardai Jason negli occhi prima che lui riuscisse a bloccarmi contro il muro e baciarmi. Lentamente fece scivolare la mano lungo il mio braccio fino ad arrivare alle mie cinque dita per poi intrecciarle con le sue. Non mi baciò in maniera aggressiva o sfacciata ma in modo dolce, sensibile, in quel modo che mi mancava da tempo poi, dopo essersi staccato dalle mie labbra, inserì la testa nell’incavo del mio collo e iniziò a parlare. Parlava di me, dei miei occhi, dei miei capelli e dei miei sorrisi. Parlava di come guardavo mio figlio, parlava di come mi comportavo e ad un certo punto iniziò a parlare di quanto gli piacessi. Quella notte la passammo distesi come due adolescenti sulle scale dell’albergo a raccontare, a raccontarci. Rimanemmo lì, in pigiama, l’uno nelle braccia dell’altra, come dei realizzati sognatori. Il mattino dopo uscimmo insieme, come tutti i giorni che seguirono. Ricordate quel servizio fotografico a Budapest? Bene, Jason non lo vide mai. Il ragazzo afro-americano che fa il fotografo ora è il mio secondo marito. Anzi forse è l’unico vero uomo che sia stato in grado di far crescere me e mio figlio.

È stato un colpo di fulmine, una cosa che avviene una sola volta nella vita, una cosa che bisogna essere in grado di afferrare e fare propria perché non ci capiterà mai più però allo stesso tempo bisogna essere in grado di sorridere, di andare avanti, di accontentarsi di noi stessi, di quello che ci circonda.

Mattia adora Jason, come lo adorano i miei genitori; Marjo inizialmente non credeva che potessi creare un situazione adatta a me e a nostro figlio con una persona da lui non ben vista ma del resto non poté farci niente, è la mia vita non la sua, sono io quella che deve essere felice, non lui, per quanto sia complicato trovare questa maledetta contentezza non è corretto non averla almeno una volta nella vita sfiorata perché mettevamo gli altri prima di noi stessi. La relazione più difficile e duratura che si possa avere è quella con se stessi e per quanto si possa amare una persona non è giusto finire per auto-svalutarsi. Amare significa condividere e apprezzarsi a vicenda, non venire accantonati.

E se qualcosa finisce, beh, forse è per questo che esistono le seconde possibilità.

  
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