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Autore: dilpa93    07/11/2013    7 recensioni
“Il momento della morte, come il finale di una storia, dà un significato diverso a ciò che lo ha preceduto”
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Kate Beckett, Martha Rodgers, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Richard Castle
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Prima stagione
Capitoli:
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“Mentre rimandiamo, la vita passa.”
Seneca

 
 
Marzo 2009
 
C’è una strana calma, che contrasta con la solita frenesia che ogni giorno, da mesi, è solita accoglierlo.
A passo svelto si dirige verso i colleghi con il capo chino sulle scartoffie che ricoprono le loro disordinate scrivanie.
“Una giornata che inizia senza un cadavere... strano ed imprevisto!” Li saluta allegro con curioso umorismo, lasciando il caffè ancora caldo sulla scrivania della detective. Si guarda intorno come un cucciolo spaurito, smarrito senza il suo padrone nei paraggi.
“Ehi ragazzi, dov’è Beckett?”
“Ha chiesto la mattinata libera.” Mugugna Esposito lanciando la penna sulle carte, rilassandosi poi sul morbido schienale.
“Beckett, la mattinata libera? State scherzando?” Chiede scettico continuando a cercarla con lo sguardo.
Da quando era iniziata la loro collaborazione, non c'era stato giorno in cui non l'avesse trovata lì, inchiodata alla sedia, domandandosi se andasse mai a casa, o se dormisse. Sulle scene del crimine era sempre la prima ad arrivare, dal distretto era l'ultima ad andarsene.
“Affatto, ma, visto che lei non c’è, credo che questo non le serva.” Prosegue l’ispanico afferrando il brico riservato a Kate.
“Già, grazie Castle”, ammicca Ryan alzandosi e portandogli via l’latro dalle mani.
“Que-quello in realtà... era, era mio.” Sbuffa sedendosi sulla sedia ormai assegnata a lui. Con le dita picchietta sul bracciolo consunto, arricciando le labbra deluso dal non averla trovata lì. Di sottecchi, osserva il posto vuoto di fronte a lui interrogandosi cosa abbia spinto una stakanovista come Katherine Beckett a prendere un impegno in un’ordinaria giornata di lavoro.
 
Fissa con sguardo assente i piedi fasciati in un paio di stivaletti neri tamburellare sul linoleum lucido. Con le mani si regge il viso pallido; i gomiti poggiano con pesantezza sulle gambe.
Fa un profondo respiro abbandonandosi contro lo schienale della sedia pieghevole. Il contatto con la plastica nera la fa rabbrividire e da quell’istante il freddo diviene pungente, lo sente fin dentro le ossa nonostante la primavera sia ormai alle porte.
Aspetta ascoltando i secondi scanditi dall’incessante e lento ticchettio dell’orologio.
Si tormenta il lobo dell’orecchio sinistro che, da giorni, sente intorpidito, sintomo di un brutto presentimento che invano ha tentato di ignorare.
“Katherine Beckett.”
Alza lentamente il capo, lasciando scivolare la mani lungo le cosce.
“Katherine Beckett”, scandisce nuovamente l’infermiera.
Scuote la testa, rispondendo poi con un timido “sono io” e, facendolo, ogni cosa accanto a lei pare riprendere vita e i rumori dapprima ignorati e apparentemente muti tornano prepotenti ad invadere la sua mente.
Il chiacchiericcio insistente delle infermiere, il ronzio del refrigeratore del distributore di bevande, il pianto di un neonato tenuto tra le braccia dalla donna accanto a lei, il persistente squillare del telefono al banco ed, infine, il deciso tonfo della porta che si chiude alle sue spalle.
“Si accomodi, il dottore arriverà a minuti.”
Sorride cortese l’infermiera digitando sulla tastiera del computer.
“Grazie.”
Rimasta sola, concede al suo sguardo di vagare indisturbato sebbene conosca quello studio a memoria.
Sa esattamente che sulla parete alla sue spalle è appesa la laurea in medicina, il cui quadro, incurante dei numerosi tentativi di sistemazione, continua a pendere più verso destra. Ai lati tavole anatomiche risaltano sull’intonaco bianco e ogni volta, nell’attesa, si perde nell’analisi delle immagini del corpo umano. Vene e arterie, quei sottili tubicini rossi e blu che si ramificano e collegano lungo ogni singolo arto, creando come un'autostrada corporea.
Sulla scrivania accanto al computer tre cornici racchiudono il tesoro più prezioso dell’uomo che da anni l’ha in cura, i suoi figli. Ne hanno parlato spesso durante le visite, forse un modo cortese per alleviare la tensione che era solita mascherare con la gentilezza tipica del suo essere e sorrisi all’apparenza sinceri.
Thomas, il maggiore, ha intrapreso il college l’anno prima. “Economia”, aveva sospirato con una scrollata di spalle il dottor Bolkowitz. Nei suoi occhi aveva colto una leggera delusione, probabilmente dovuta alla speranza, ormai persa, che seguisse le sue orme.
Julie, invece, frequenta ancora al liceo. Una ragazza a modo; aveva avuto l’occasione di incontrarla un paio di volte e non aveva potuto fare a ameno di notare il suo smagliante sorriso. Studia danza classica da quando aveva soli quattro anni, è il suo sogno, la sua vita. Da come gliel'aveva descritta sembra essere già una donna di casa nonostante la sua giovane età, e dalle sue parole aveva avuto l'impressione che senza di lei la casa sarebbe stata lasciata andare, abbandonata al suo destino. Il fatto di essere medico gli precludeva spesso la possibilità di stare a casa per una cena tranquilla o per un film davanti alla tv. La reperibilità quasi sempre necessaria è la parte che più odia del suo lavoro, a pari merito con la perdita dei suoi pazienti. Così spesso Julie si trova a rifare i letti, rassettare, e occuparsi di Maggie, la piccola di casa. Un tornado di sei anni. A detta del padre è la luce della famiglia, soprattutto da quando la moglie é venuta a mancare due anni prima. Le aveva mostrato qualche disegno fatto da quella bimba dalle guanciotte rosee e lentigginose. La maggior parte ritraevano la famiglia. Tutti sorridenti, il sole sempre presente, giallo e grandissimo sopra le loro teste, non si percepiva quasi la mancanza di quella figura fondamentale che non potrà mai vedere quei particolari capolavori.
Non lo sente entrare, assorta nel trambusto dei suoi pensieri.
“Katherine, credevo che ti avrei rivisto non prima di giugno.”
“Già, ma ho la sensazione che qualcosa non vada.”
“D’accordo, siediti sul lettino, controlliamo subito.”
Lo stetoscopio viene a contatto con la pelle calda, reprime un gridolino e inspira a fondo sperando che quella sgradevole sensazione passi in fretta.
“Facciamo un ECG sotto sforzo e vediamo se hai ragione.”
“Come al solito...” Sospira stanca di quella situazione che si protrae ormai da tempo.
Il lobo dell'orecchio sinistro continua a formicolare.
Gli elettrodi aderiscono con facilità, sono per lei come una seconda pelle.
Comincia a camminare lentamente sul piccolo tapis roulant posto in un angolo della stanza, proprio accanto alla grande finestra che dà sul parco interno dell’ospedale. È una vera meraviglia, specialmente in quel periodo, ma nonostante la bellezza dovuta allo sbocciare dei primi fiori e al rinverdirsi degli alberi, non riesce a provare allegria o piacere ogni qualvolta si perde ad osservarlo.
In pochi secondi il respiro diviene corto e accelerato, il viso paonazzo per lo sforzo. Si sente sollevata quando John spegne il macchinario.
Vedendolo tornare a sedersi alla scrivania, rimuove ogni singolo elettrodo quasi come se si trattasse di un’azione quotidiana e sistema la camicia. Ciascun bottone entra con lentezza e precisione nell’asola corrispondente. Se si fosse prestata abbastanza attenzione si sarebbe riuscito a sentire il lieve fruscio della plastica che attraversava il tessuto leggero.
“Purtroppo il tuo presentimento era giusto. La tua cardiopatia si è acuita.”
“Quanto è grave?”
“C’è un’accentuata dispnea e la gittata cardiaca è parecchio peggiorata, si è abbassata di molto dall’ultima volta.”
“È per questo che mi stanco subito, non è così?”
Annuisce sospingendo con l’indice gli occhiali in modo da allontanarli dalla punta del naso aquilino.
“Il tuo cuore non pompa abbastanza sangue dal-”
“Ventricolo sinistro alle arterie, lo so. Ma ci sarà qualcosa da poter fare, da tentare.”
“Ci abbiamo provato, lo sai.”
Scuote la testa, spostando lo sguardo dal volto dell’uomo ad un punto imprecisato del soffitto.
Non avrebbe pianto ancora, se lo era ripromessa quella stessa mattina. Era strano il modo in cui la sua forza e la sua spavalderia, che le avevano permesso di farsi strada nella polizia, sparissero non appena faceva il suo ingresso tra quelle mura, come fossero capaci di indebolire le sue difese, di penetrare la sua corazza.
“Allora, ricominciamo...” Dice in un sospiro aggiustandosi le maniche del camice bianco.
“Non un’altra volta, non ce la faccio più a sentirlo.”
“Invece te lo ripeterò fino a che non ti convincerai che abbiamo fatto tutto il possibile.”
 
La nottata in ospedale era stata lunga. Il silenzio le era risultato insopportabile. Era riuscita a distinguere con precisione ed esattezza, al di fuori della sua stanza, il trascinarsi dei piedi delle infermiere del turno di notte. Aveva sentito ogni singolo passo. Rimbombavano senza permesso nella sua testa.
La mattina era arrivata con lentezza e quando l’avevano finalmente preparata per l’operazione si era sentita più leggera. Ben presto però era sopraggiunta l'ansia, trasparita solo nel modo in cui morbosamente aveva stretto tra le mani il lenzuolo del lettino. Improvvisamente l’essere da sola l’aveva fatta piombare nel panico.
Suo padre era da anni una figura quasi del tutto invisibile. Da troppo tempo non lo sentiva chiederle “come stai?” o interessarsi a ciò che le stava capitando con sincerità e reale apprensione, ormai sprofondato nell’abisso dell’alcol dal quale non sembrava esserci una possibile via d’uscita.
Parlarne con altri? Troppa vergogna e un grande bisogno di fingersi forte ed invincibile, l’esatto opposto di ciò che era in realtà. Quel finto orgoglio di cui si era circondata era ormai diventato una parte di lei. Walter Langer ha scritto “La gente crede più ad una grossa menzogna che ad una piccola, e se viene ripetuta abbastanza spesso la gente prima o poi ci crede”, e così era successo a lei. Aveva finto così a lungo di essere chi non era, che aveva finito per trasformarsi in quella persona.
Aveva aperto gli occhi ritrovandosi nella sua stanza, avvolta dalla luce del sole pomeridiano riflesso dalle superfici bianche.
Spaesata non poté però non sorridere, certa di essere riuscita a risolvere almeno una parte dei problemi che sembravano non volerne sapere di allontanarsi dalla sua vita.
“Ben svegliata signorina Beckett. Come si sente?”
“Come è andato l'intervento?” Aveva domando sbiascicando, sentendo ancora l’effetto dell’anestesia.
“Adesso arriverà il dottore, lei si risposi.”
Avrebbe voluto mettersi seduta, fermarla, obbligarla a dirle se era davvero tutto finito, e invece, ancora intorpidita, non fu in grado di muovere un muscolo.
Il dottor Bolkowitz era arrivato dopo qualche minuto. Cartellina in mano e un sorriso tirato.
“Kate, come si sente?”
“B-bene” aveva risposto incerta, non sapendo cosa aspettarsi.
Il lobo dell’orecchio già formicolava.
“Qualcosa non va?”.
La sua espressione, come risposta iniziale, aveva lasciato poco spazio all’immaginazione.
Un eccesso di tessuto grinzoso intorno al cuore aveva reso impossibile intervenire. Il rischio nel proseguire avrebbe comportato un arresto cardiaco che, sommato alle precedenti aritmie, sarebbe potuto essere fatale. Si erano visti costretti a richiudere e ad inserirla nella lista trapianti.
 
È ormai sei anni che aspetta.
Ha proseguito con la sua vita come nulla fosse, rispettando le visite trimestrali, ma senza per questo risparmiarsi sul lavoro. È arrivato il momento di smetterla di non vedere quanto la sua testardaggine le stia facendo male.
“Sapevi che questo momento sarebbe arrivato.”
“A cosa serve? Sono in quella lista da così tanto... non vedo perché dovrei mettere in pausa la mia vita.”
“Perché altrimenti la tua vita finirà troppo presto Kate, ecco perché. Ci conosciamo da anni, lascia che ti parli come amico e non come medico. Non ti sto dicendo di chiuderti in casa a poltrire, sto dicendo di ridurre il carico di lavoro. Il tempo che guadagnerai potrebbe bastarti fino a quando non arriverà un cuore. Ormai mi sono affezionato a te, ti ho praticamente vista crescere e fare avanti e indietro tra queste mura. Non fare si che la prossima volta che entrerai qui dentro non ne uscirai più.”
Digrigna i denti, torturandosi le dita delle mani le cui ossa scrocchiano ad ogni tocco.
“D’accordo... mi dica cosa devo fare.”



Diletta's coroner:

Nuovo esperimento, nuova long...
Spero di non fare troppi danni!
Buona serata :)
 
  
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