Film > Rush
Ricorda la storia  |      
Autore: Vega Lyrae    08/11/2013    3 recensioni
"Io ho sempre vissuto per raggiungere la cima, ma raggiungerla a modo mio: con costanza, dedizione.
Abnegazione.
Non me n’è mai fottuto nulla di piacere alla gente."
Riflessioni di Niki Lauda sulla sua carriera, sull'incidente dell'1 agosto del '76 e sul rapporto con il rivale di sempre, James Hunt.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Niki Lauda
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Uomini e topi.

   Quando sei bello e perdi la tua bellezza a causa di una tragedia accettarlo ti riesce difficile.
   Io non ho mai avuto questo problema. Non mi è mai servito un bel visino e non credo di averlo mai voluto. Mi bastavano delle buone chiappe, ecco cosa. Dovevo solo sentire la macchina per poterla guidare al meglio, non uscirci insieme.
   Il flirtare, l’essere ammirato – dalle donne, soprattutto – ho sempre preferito lasciarli a quel cazzone di James. Lui era nel suo elemento, quando si parlava di divertirsi, fare baldoria – o farsi picchiare da qualche marito geloso. Lui è sempre stato così: strafottente, indolente, a suo modo accattivante nella sua cafoneria spietata. Non l’ho mai capito.
   Io ho sempre vissuto per raggiungere la cima, ma raggiungerla a modo mio: con costanza, dedizione.
   Abnegazione.
   Non me n’è mai fottuto nulla di piacere alla gente. So di avere un carattere difficile, ma non mi importa. Tanto, già solo a vedermi, la gente mi scherniva. James mi chiamava “topo”, per via dei miei denti. Per chiunque io ero un “ratto”, un “topolino insignificante”. Ero “Lauda il crucco bastardo”, nonostante gli speaker abbiano ripetuto migliaia di volte, elencando i posti dei campionati di F1 (in cui ho avuto la pole position spesso e volentieri), che sono austriaco, accidenti. Ma neanche questo mi è mai importato.
   Nelle scuderie io non dovevo ridere e scherzare con i miei meccanici o qualsiasi altro collaboratore (figurarsi coi giornalisti, quindi). Loro dovevano fare il loro lavoro, starmi a sentire, perché io ero l’unico capace di fare del mio team un team di vincenti. Il Commendator Ferrari ti considera un amico, uno di famiglia, solo fin quando vinci, così mi aveva detto una volta Clay. Era vero, ma d’altra parte come ragionamento lo capivo bene.
   Io non ho mai desiderato essere amato per i miei modi di fare, o per il mio aspetto. Io ho sempre voluto che mi si riconoscesse che facevo ciò che sapevo fare in modo eccellente – “perché sono il migliore.” E affanculo la falsa modestia.
   Io ho metodo. Ho cervello. James e il suo “immortale cazzo” potevano conquistarsi tutti i rotocalchi, le amicizie e le passere che volevano. Io volevo solo la cima, e ci sono arrivato, eccome. Sempre grazie alla mia immortale abnegazione. Le previsioni che avevo fatto a mio padre si sono rivelate mefistofelicamente corrette.
   La paura era una percentuale che consideravo solo a scopo informativo. Potevo morire in una corsa, come vivere – e vincere.
   E vincevo.
   Tutto è cambiato quando ho conosciuto Marlene. Lei è stata la prima donna che mi abbia mai fatto veramente capire cosa vuol dire poter perdere qualcosa. Rientrare ai box e vedere il suo viso pervaso dal sollievo mi riempiva di una sensazione a metà fra la gioia e l’angoscia.
   “La felicità è un nemico. Ti indebolisce, ti insinua dei dubbi. Ad un tratto hai qualcosa da perdere.” le ho detto durante la nostra luna di miele. So di averla ferita, così. Lei era sempre in ansia per quello che poteva accadermi. Seguiva le gare con attenzione maniacale; ogni notizia di incidenti durante le prove libere o durante la corsa vera e propria la faceva sbiancare al pensiero che potesse capitare anche a me. E ogni volta per lei vedermi vivo e vegeto era come una benedizione divina. Non avrei dovuto dirglielo, forse… ma dovevo dirlo. Marlene è stata la sola a cui ho ammesso questa mia inquietudine. La cosa mi spaventava più di quel 20% di possibilità di crepare in pista, percentuale che accettavo se rimaneva entro quella soglia.
   A Nürburgring non fu così.
   E infatti non avrei voluto correre. Sapevo che il rischio era esponenzialmente maggiore di quello che affrontavo di solito. Era un’operazione suicida, ecco cos’era. Se quegli idioti avessero seguito il mio consiglio… ma è inutile piangere sul latte versato. Ciò che è fatto è fatto. Non mi sono mai fatto fermare – mai. Da niente e nessuno.
   Dell’incidente ricordo ogni singolo dettaglio. Ricordo come in quel momento, quando la macchina fu sbalzata contro la parete di roccia e di incendiò in mezzo alla pista, mi prese il panico. Guy Edwards e la sua Hesketh mi evitarono, ma Brett Lunger e Harald Ertl non ci riuscirono e finirono per speronarmi.
   Ero terrorizzato. Vedevo le fiamme intorno a me, sentivo la pelle che si scioglieva, il calore del metallo, il puzzo di copertoni bruciati, di benzina e della mia carne che stava letteralmente arrostendo. Avevo le lacrime agli occhi per il fumo e non riuscivo a slacciare la cintura. Gridavo. Gli altri erano scesi dalle loro vetture ed erano venuti ad aiutarmi. Guy, Harald, Brett e Arturo Merzario mi tiravano da ogni parte per riuscire a farmi uscire dalla macchina. Qualcuno aveva preso un estintore e stava cercando di spegnere le fiamme.
   Persi i sensi. All’inizio non sapevo dove mi stavano portando. Mi sembrava di essere in una specie di bolla di sapone, tutto era confuso e irreale. Dalla barella vedevo solo facce indistinte, luci tremolanti, udivo suoni distorti e una specie di fischio persistente in sottofondo. L’orecchio destro si era praticamente fuso con il cranio. 
    Ospedale militare di Coblenza. Trauma Center di Ludwigshafen. Mannheim, Städliche Krankenanstalten. Hanno avuto il coraggio di rifilarmi l’estrema unzione, i bastardi. Cazzo, hanno anche chiamato Chris Amon per sostituirmi nella griglia senza neanche sapere se ero vivo o morto. Ne sono venuto a conoscenza dopo, ovviamente.  La prima cosa che ho realizzato quando ho ripreso conoscenza è che James aveva vinto. Dopo che la gara era stata sospesa per un’ora e mezza – in modo da far sgombrare la pista e tutto il resto – avevano continuato a correre. E James aveva vinto.
   E non smetteva di vincere. Nürburgring, il giorno dell’incidente. Österreichring, Austria, 15 agosto. Zandvoort, Olanda, 29 agosto.
   Dopo avermi dichiarato fuori pericolo il 5 agosto ed avermi trasferito nuovamente a  Ludwigshafen l’8 agosto, i dottori dovettero trapiantarmi la pelle di mezza coscia sulla faccia per coprire la zona ustionata. Ma non era quella la parte peggiore. Dovettero soprattutto ripulirmi i polmoni, aspirando via tutto quello che avevo inalato nel minuto e mezzo che avevo passato in quell’inferno a ottocento gradi che era la mia Ferrari, per evitare che venisse contaminato anche il sangue. Era terribile. Mi ficcavano in gola un tubo di metallo che risucchiava via tutta la merda e la faceva finire in alcuni contenitori. Era un procedimento estremamente doloroso. Tutt’ora credo che sia il dolore peggiore che abbia mai provato.
   Fosse stato solo questo, magari l’avrei accettato. Ma durante l’aspirazione vedere al piccolo televisore a colori (per quanto mi era possibile, con le palpebre gonfie) i campionati che continuavano, e James che continuava a rimontare, a guadagnare punti, a raggiungermi, mentre io ero in un merdoso letto d’ospedale – beh, quello no.
   Chiedevo al dottore di continuare a ripulirmi i polmoni oltre quanto necessario per la seduta. Doveva togliermi dal corpo tutta quella roba schifosa il prima possibile. Soffrivo come un cane, ma ero intenzionato a rimettermi subito. Cercavo di infilarmi il casco nonostante le piaghe bruciassero e sanguinassero. Marlene guardava questi miei tentativi patetici e io sapevo cosa avrebbe voluto dire. Ma dovevo farlo. Dovevo tornare in pista.
   E così ho fatto.
   Quarantadue giorni dopo l’incidente ero a Monza. Ovviamente i giornalisti si assieparono in massa per vedere com’era ridotto Lauda dopo lo schianto. E naturalmente, c’era il vero “Schianto”: James “the Shunt” Hunt mi raggiunse, sgomitando nella folla e chiamandomi a gran voce.
   “Niki!” mi gridò, arrivato alla postazione della Ferrari. Era contento di vedermi di nuovo in piedi, e forse pensava di farmi una delle sue solite battute. I suoi “la prossima volta ti raggiungo, topolino” e “non cantare vittoria troppo presto, rattino mio” erano la norma, una sorta di rito pre e post corsa. Il suo canzonarmi per il mio aspetto era una manifestazione d’amicizia. Ma quando mi girai il sorriso che aveva su quella sua allegra faccia di bronzo parve scivolargli via e le parole gli morirono in gola.
   Sapevo cosa stava pensando.
   L’ho già detto. Quando qualcuno perde la sua bellezza in maniera tragica non sa come accettarlo. Se fosse capitato a James, lui avrebbe avvertito di più il peso della perdita. Avrebbe faticato per accettare la sua nuova faccia, e guardandosi allo specchio avrebbe provato un gran dolore. Ma perché lui aveva qualcos’altro da perdere, di ben diverso. A me non serviva la faccia per guidare, come aveva detto Marlene, bastava il piede destro.
    E io avrei guidato.
   “E’ tanto brutto, eh?” chiesi a James, sapendo benissimo che lo era. Il mio viso da topo era diventato un muso da serpente, squamoso di croste che andavano seccandosi. Lui era palesemente a disagio. I suoi occhi azzurri erano fissi sulle mie piaghe, sull’orecchio carbonizzato, sulla benda che ancora dovevo portare in testa (dove sotto la carne viva era scoperta a chiazze, in mezzo ai capelli che mi erano miracolosamente rimasti).
   Negò. Mi venne da ridere. Forse pensava che mentendo mi avrebbe fatto sentire meglio. I medici mi avevano detto che col tempo sarebbe migliorato, ma avevo già imparato a non illudermi. Sarei rimasto con quell’aspetto per sempre, quindi ogni palliativa stronzata per convincermi del contrario era superflua. E guardando la reazione di James ne avevo avuto la conferma. Ora non poteva fare nessuna battuta confidenziale come faceva prima. Il topo era vivo, era lì, era sempre il solito topo. Ma lui era ugualmente pietrificato da quello spettacolo. Il Niki che aveva sempre sfottuto era  scampato alla morte, ma la cosa che James faticava a metabolizzare era il segno che quell’incidente mi aveva lasciato. Magari, inconsciamente, aveva pensato che mi avrebbe rivisto un po’ malridotto, ma non più di tanto. Lo sfregio che mi sarei portato addosso a vita, che avrebbe spaventato chiunque mi guardasse, turbava lui più di quanto turbasse me.
   Mi disse che aveva provato a scrivermi per scusarsi. Che gli dispiaceva per ciò che era successo, che era stata colpa sua per aver convinto gli altri, alla riunione in Germania, a gareggiare nonostante il tempaccio, che si sentiva responsabile per quello che mi era capitato.
   “E lo sei.” risposi, lapidario.
   Parve ferito, nonostante sapesse che era vero. Lui stesso l’aveva ammesso. Non mi andava di dire stupide frasi di circostanza solo per farlo stare meglio. Dissi la verità, dissi quello che pensavo, come avevo sempre fatto.
   “Ma credimi”, continuai. “guardarti vincere quelle gare, mentre lottavo per sopravvivere… sei responsabile anche per il mio ritorno in quella macchina.”
   Lui mi guardò in silenzio per qualche secondo, con espressione indecifrabile. Poi mi girai e andai a raggiungere gli altri della scuderia.
    Non mi davo pena per il mio viso. Ero vivo e tanto mi bastava. Ma non potevo vivere con la consapevolezza che mi ero lasciato andare al dolore senza reagire e senza lottare.
   Dovevo tentare, ad ogni costo.
   Anche a costo di non vincere il titolo, stavolta.
   Sul circuito di Monza non finii neanche sul podio, occupato da Ronnie Peterson, Clay Regazzoni e Jacques Lafitte. Ero quarto, ma avevo recuperato tre punti preziosi. In testa per la conquista del titolo mondiale c’ero ancora io. 
   Dopo Mosport in Canada (con James in pole position) e Watkins Glen negli U.S.A. (sempre James in pole position) l’ultima tappa del mondiale era il Gran Premio del Giappone.
   Al circuito del Fuji pioveva che Dio la mandava. Troppo per permettere una corsa sicura, ma non fu annullata. Tutti volevano vedere la fine della battaglia fra Lauda e Hunt. Nessuno voleva perdersi uno spettacolo così succoso.
   E fu in quel momento, prima dello start, che io e James ci guardammo e capii che la vittoria non sarebbe andata al migliore. Sarebbe solo andata in qualche modo. Io e lui eravamo uguali nel talento e tanto bastava. Non dovevamo dimostrare niente a nessuno o all’altro, tranne che a noi stessi.
   Mi ritirai, perché era tutto troppo pericoloso. Non volevo correre il rischio di lasciarci finalmente la pelle, non intendevo dare questo ulteriore dolore a mia moglie.
   James invece continuò. Voleva dimostrarsi che poteva vincere e nonostante alcune manovre da vero kamikaze e un taglio profondo sulla mano a causa della leva del cambio rotta, riuscì a classificarsi al terzo posto – esattamente ciò che serviva per permettergli di vincere il titolo mondiale. Mi scavalcò. 69 punti contro i miei 68.
   Un punto solo. Per un punto riuscì a battermi.
   Non me la prendo. Anzi, in qualche modo la sua vittoria mi ha reso orgoglioso. James aveva talento, quella spericolata foga che io – con i miei calcoli, le mie percentuali e la mia attenta pianificazione – non ho mai posseduto. Era una scintilla innata, la sua.
    James Hunt, la meteora più fottutamente magnifica che abbia conosciuto. Lo rispettavo. Per quanto potessimo essere diversi, io e lui eravamo amici. Tutti i vaffanculo che ci siamo rivolti, le frecciatine alle conferenze e alle riunioni, la nostra sfida, erano diventati parte della nostra amicizia.
   Naturalmente perdere – specie per così poco – non è stata esattamente la cosa più esaltante del mondo. Ma se c’è una cosa di cui sono orgoglioso è che non mi sono arreso. Nonostante io abbia rinunciato alla corsa cruciale per cause di forza maggiore, non mi sento di aver vinto di meno di James.
   Ho vinto con me stesso perché non ho lasciato che quell’incidente si mettesse fra me e ciò che mi ero prefissato di raggiungere. Mi ha penalizzato, perché se fossi stato in forma come le altre volte forse avrei vinto io. Però ho preso atto e ho reagito. Non ho mai smesso di cercare di perfezionarmi, di avere il controllo su ciò che facevo. Mi sono interessato anche al volo per riuscire a capire come governare al meglio i comandi. Lauda il saccente voleva ancora imparare, dopotutto.
   James si è ritirato due anni dopo. Ha passato il resto del ’76, dopo essere stato iridato, fra tutti i suoi eccessi preferiti – tante donne, tanto alcol, tanta droga. Non nego che il suo ritiro prematuro mi abbia dato un dispiacere, ma non ero sorpreso. James aveva un fuoco pazzesco dentro che però ha finito con lo spegnersi in fretta. Il Commendator Enzo aveva ragione anche su questo: arriva un momento, dopo l’apice del successo, in cui il pilota abbandona perché tutta la passione svanisce.
   La cosa che mi dispiace è che James ha abbandonato anche la passione per la vita.  James campava alla giornata, con la sua allegria e i suoi vizi, con quel suo slancio particolare, ma nella vita come in pista non è mai stato capace di evitare di stare in bilico su quella linea quasi impercettibile che divideva il coraggio dalla disperazione – era sempre pronto a poter morire. Come se non gli importasse.
   Una delle ultime volte che ci siamo visti è stato a Bologna, in un piccolo aereoporto privato dove io stavo controllando uno dei miei aerei (ero stato a Fiorano per i test pre-stagionali) e lui stava per prenderne uno (era stato ad un matrimonio. “O almeno credo fosse un matrimonio, poteva essere un compleanno per quel che mi ricordo.” ) Inevitabilmente il discorso era caduto sulla sua vittoria.
   “Non ho vinto la cosa più importante della mia vita per tornare subito al lavoro”, ridacchiò lui, accendendosi una sigaretta.
   “Perché? Devi, invece. Per fargliela vedere a quelli che dicono che hai vinto solo per via..” non finii, ma feci un gesto eloquente con la mano.
   “Per via di cosa? Per via del tuo incidente?” replicò infatti James, piccato. “Niki, questo lo dice la gente o lo dici tu?”  
   Non ebbi tempo di rispondergli perché continuò, infervorandosi: “Io ho vinto, chiaro? Nel giorno più importante, quando si decideva tutto, abbiamo corso alla pari, con macchine alla pari. E io ho messo in gioco la mia vita fino in fondo.”
   “E lo chiami vincere, quello?”
   “Sì!”  
   “I rischi erano totalmente inaccettabili. Tu eri pronto a morire.” Glielo sputai quasi in faccia. Non capivo come non riuscisse a vedere la differenza. Hunt, dannato stronzo, per un trofeo del cazzo ti saresti accoppato. Ho proprio ragione a darti dell’idiota. “Per me questo è perdere.”
   “Sì, lo ammetto!” sbottò lui. “E’ vero. Ero pronto a morire, pur di batterti. E’ questo l’effetto che hai su di me.”
   Rimasi colpito da quelle parole. Sapevo che per James la nostra competizione aveva un effetto particolare, come per me. Ma io non ero pronto a rischiare più del dovuto, specialmente dopo Nürburgring. Lui continuò a blaterare di quanto fosse stupendo ingannare la morte, che era come essere cavalieri; che uccidevo lo sport a sparare percentuali, uccidevo il bello di tutto quanto.
   I suoi amici lo chiamavano, ma lo trattenni. Gli dissi di quanto era stato brutto per me, in ospedale, mentre mi sottoponevo a quella tortura infernale dell’aspirazione, vederlo che si fregava i miei punti (“I tuoi punti?”), e di quanto l’avessi odiato per questo. Ma il mio medico aveva avuto ragione: l’incidente non era necessariamente la maledizione di un nemico. Poteva essere uno spunto da cui imparare.
   Pensai a quando ci eravamo conosciuti, nel 1970, quando eravamo ancora ragazzini. “Due cazzoni matti in formula 3. Ripudiati dalle famiglie, senza una meta. E adesso siamo entrambi campioni del mondo. Non è male, eh?” sorrisi, sorprendendomi anch’io di quanta strada avessimo fatto. Il contakilometri delle nostre vite era parecchio carico.
   “No. Non è male.” ammise lui, sorridendo a sua volta.
   “Quindi ora non mollarmi.”
    Mi guardò sorpreso.
   “Mi serve qualcuno che mi rompa le palle.” gli spiegai. Senza di lui non era lo stesso. Volevo spronarlo a fare del suo meglio come lui aveva sempre – talvolta senza volerlo – spronato me. Dai, inglese bastardo, non mollare proprio ora. Non dare ragione a quelle merde. “Rimettiti al lavoro.”
   “Va bene, Niki, va bene” rise, continuando a fumare la sua sigaretta, ormai quasi arrivata al filtro. “Ma prima voglio divertirmi un po’. Non bisogna rinunciare ai piaceri della vita. A che serve avere un milione di coppe, di trofei e di aerei se non te la spassi? A che serve vincere?”
   E allora capii.
   Per James la vittoria era il solo modo di continuare a vivere. Senza vittoria, non c’era nulla da godersi. E quella vittoria gli era bastata per sempre. La sua lotta si era conclusa in positivo, in maniera spettacolare. Ma lui non si sarebbe sprecato ulteriormente. La vittoria non gli aveva lasciato la voglia di continuare a mettersi alla prova, come era successo a me. Tutt’altro. Che amara consapevolezza.
   “Ci vediamo in pista, campione.” Mi salutò, avviandosi.
   “Ti aspetto, campione.” risposi.
   Non mantenne quella promessa. Lo vidi allontanarsi contro il tramonto bolognese. Alto, bello, affascinante. Tutto quello che io non ero mai stato. Ma in quel momento non provai invidia. Era una sensazione strana, melanconica.
   “Ti trovo bene, Niki”, fece all’improvviso, voltandosi nuovamente verso di me, con un gran sorriso. “L’unico uomo che si è bruciacchiato la faccia ed è diventato più bello.”
   E se ne andò.
   Non cambierai proprio mai, stronzo.
   James è morto a 45 anni, nel ’93. Io invece sto invecchiando. Un vecchio topo sfigurato, che si trascina ancora nella scia dell’antico successo. Sono stato campione del mondo per tre volte e non devo più dimostrare nulla neanche a me stesso.
    Perché se c’è una cosa che ho vinto davvero, alla fine, è la capacità di vivere.





Angolino di Vega: salve-salvino. :c E finalmente ho pubblicato la mia prima storia! 
Debbo dire un paio di cose. Innanzitutto, perché la prima storia che pubblico è su 'Rush'. Non sono mai stata una grande appassionata di F1, ad essere sincera: le poche cose che so le ho sentite da mio nonno e da un paio di miei amici che la seguono da anni, quindi mi sono basata molto su informazioni cercate in Internet e sugli avvenimenti narrati nel film - che ho visto lunedì scorso alla serata del cinema dell'uni. Mi è piaciuto moltissimo: oltre a Chris Hemsworth ( *coffcoooff*) ho apprezzato anche e soprattutto l'interpretazione di Daniel Bruhl, attore che reputo davvero notevole; le musiche, poi, davvero meravigliose. Il film mi ha molto colpito e mi ha spinto, dopo mesi e mesi di inattività, a scrivere e - hallelujah! - finire una storia. L'ho scritta quasi tutta di getto, e in poco tempo, sorprendendomi di me stessa xD per cui, ho voluto "festeggiare" così questo piccolo parto che ha segnato la fine, o almeno così spero, del mio blocco dello scrittore. (Ovviamente le frasi nei dialoghi sono prese dai dialoghi del film.)
A voi, quindi. :D
 
  
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > Rush / Vai alla pagina dell'autore: Vega Lyrae