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Autore: crimsontriforce    22/04/2008    4 recensioni
Riven: v. lacerato, spaccato, squarciato; (fig.) straziato, diviso.
Tale il fato dell'Era, tale di chi ne scrisse la fine.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio, Atrus, Catherine
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie '2. In cerchio attorno a una voragine di stelle'
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Seconda al concorso “La memoria e il ricordo” indetto da Izumi sul forum!
Partecipa anche alla mia fissa per Myst che regna sovrana in qualunque cosa io dica, scriva o faccia in questi mesi. :3 Yay.

Scritta a metà Exile, prima dei libri e di... beh. Del resto. Conscia vieppiù in allora della mia pochezza (leastness, dicono altrove), ho cercato di non imbucarmi in trame che potessero condurre ad errori cruciali di 'gniuranza nera. Quelli, per l'appunto, dovrebbero essere assenti. Non immaginavo invece una tal perizia nei dettagli di quel che sarebbe seguito e... nonostante una prima ripulita post-libri c'è ancora qualche svista qua e là, temo (tipo una grossa in fondo). Sto rivedendo le introduzioni e le note di tutte le fanfiction, finito di aggiornarmi sui fatti tramite EoA riguarderò anche gli scritti una volta per tutte. D'altronde, se la fine fosse stata scritta che staremmo qui a fa'?






Disclaimer: Gli avvenimenti narrati sono frutto di fantasia. Non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere delle persone descritte né offenderle in alcun modo. Se possibile, anzi, il tutto è da intendersi come tributo di affettuosa stima.



Ai tre bordi rossi della spaccatura




Riven: v. lacerato, spaccato, squarciato; (fig.) straziato, diviso.




C'era una volta, rinchiuso in una caverna in un'isola remota di un impero sotterraneo in rovina, un uomo che scriveva.
Un tempo inventava mondi - forse si limitava a scoprirli. Scienziato, esploratore, artista, in quelle creazioni riversava tutto l'entusiasmo che aveva imparato a provare per l'esistenza in ogni suo aspetto e in questo celebrava a suo modo l'eredità del suo popolo, che ricadeva unicamente sulle sue spalle. Da quando è stato condotto lì, ha dovuto concentrare ogni sforzo per evitare che una singola Era, su migliaia, si arrendesse alla distruzione.
Il suo nome era Atrus.
E scriveva.
Scriveva.

Secondo regole antiche, adattate dall'uso, dall'estro e dalla necessità, soppesava ogni parola prima di aggiungerla al libro, il quinto scritto da suo padre Gehn: un numero potente e saldo che tuttavia non bastò a salvarlo dal decadimento che accomuna tutte le opere di quell'uomo corrotto. Il mondo che descriveva stava morendo. Da vene di magma come ferite vive sulla terra alle foglie malate degli alberi, tutto poteva e doveva venir salvato da una penna instancabile, anche se la mano che la reggeva era ormai giunta al limite.
Continuava, da mesi ormai, per pura forza di volontà, diviso fra le poche parole scelte dell'Arte, altre con cui fermava su carta, in infiniti diari, i progetti disperati per le prime, e quelle infine non scritte, più numerose ancora, che affollavano i suoi pensieri.
Non sempre riusciva, in questo flusso di parole, a ritrovare il senso di tutta la sua opera: scriveva il mare senza ricordarne il suono, dava vita a un villaggio su cui a stento si rivedeva camminare, in gioventù, quando aveva appena trovato la forza di staccarsi dal padre.

Certi giorni apriva il libro con particolare nostalgia, alla prima pagina, lasciando che la sua mano aleggiasse per qualche istante sull'immagine porta.
Non l'avrebbe toccata: era una tentazione che conosceva bene, in ogni suo aspetto, perché l'aveva studiata, accettata, elaborata e infine l'orrore delle conseguenze cui avrebbe portato le aveva fatto perdere per sempre ogni attrattiva ai suoi occhi. Se si fosse collegato al luogo che mostrava, anche per un giorno soltanto, atteggiandosi come l'eroe che non era, nessuno sarebbe stato al suo posto per impedirgli di dissolversi per sempre. Si limitava a desiderarla, con tutta l'intensità di un amore lontano ma col cuore leggero per la scelta giusta.
La mano finiva così, senza troppo esitare, a sistemare gli occhiali sul naso o a tormentare la corta barba. Ma Atrus non riusciva a distogliere gli occhi dal susseguirsi di figure, pur se incomplete, sfuocate o in altro modo corrotte: le sole che quel libro morente potesse trasmettere. Assetato di libertà, aveva bisogno di quelle immagini e, cedendo brevemente alla stanchezza, vi si abbandonava.

C'era ancora molto azzurro nell'Era, il colore dominava trionfante su qualunque scorcio l'Immagine porta decidesse di mostrare. Era l'azzurro del cielo d'estate che si rispecchia nel mare, ben lontano dalla volta nera che regnava a lutto su D'ni.
L'Era di Riven, come Atrus amava chiamarla secondo l'uso – bizzarramente profetico – dei suoi abitanti, traeva energia dalle sue tinte vibranti, che la costituivano non meno della terra e dell'aria stesse. Finché fosse riuscito a vedere quell'azzurro e a ricordarsi di com'è fatta un'assolata giornata estiva, la sua speranza di riuscire un giorno a tornare in quel mondo sarebbe rimasta salda.

La vegetazione che si mostrava, a sprazzi, fra il cielo e la costa rocciosa aveva sempre il potere di rasserenarlo. Spesso, quando riusciva a concedersi un riposo, nei suoi sogni appariva ancora il Grande Albero, che lì finiva per confondersi con l'incredibile vista di Channelwood o raccoglieva in sé tutta la vita rimasta in un'altra Era del suo passato, tutta vento e rocce e metallo, di cui faticava perfino a ricordarsi il nome... La sua sagoma maestosa, però, si celava ormai da molto al suo sguardo e il pensiero che la sua Arte potesse essere stata insufficiente a salvarlo era quasi intollerabile. Riscriverlo altrove non sarebbe mai stato lo stesso. Poteva solo sperare che i moti che avevano spaccato l'isola lo avessero solo allontanato dalla sua visuale e che si ergesse ancora, da qualche parte nell'oceano.
In un altro tempo (giunti a questo punto, forse in un'altra vita), ad Atrus sarebbe piaciuto gettarsi alle spalle tutti gli obblighi che erano l'eredità più gravosa che sua nonna, la sua riverita maestra, gli aveva lasciato, per poter infine seguire la sua indole più gentile. Avrebbe scritto allora un'Era verde, non dissimile dalla Myst dei suoi anni felici, dove...
A questo punto i suoi pensieri, immancabilmente, si interrompevano. Troppo dolorosi.

A volte vedeva cose che non capiva: strane forme, colori alieni. Oro. Guizzi metallici attraverso gli stretti. Visioni che lo atterrivano, ma cui non poteva prestare attenzione.
“Occupati, non pre-occuparti”, era solita ripetergli Anna e, per il suo bene, non aveva altra scelta che attenersi a quell'insegnamento. Non poteva forzare Gehn in una gabbia più ristretta di un'intera Era.

A volte gli pareva di scorgere una macchia rosso cupo.
Con un sussulto, provava a seguirla con lo sguardo, ma quella si perdeva subito nell'immagine instabile del libro – voleva pensare che fosse fuggita nascondendosi al suo sguardo, anche se in verità sapeva che, di per sé, la piccola chiazza non provava nulla, perché poteva essere un cespuglio fiorito come uno dei tanti edifici con cui, di certo, suo padre stava sgraziatamente ricoprendo l'Era. Una chiazza di sangue. Lo squarcio di un tramonto fra gli scogli.
Il suo cuore, però, sperava ancora. Immaginava in quella macchia una donna Rivenese, con una massa di capelli neri a incorniciare lineamenti che sembravano scolpiti nella roccia dell'isola. La immaginava avvolta in una lunga veste rossa, la sua preferita; la immaginava camminare libera sulle coste della sua terra natia. Era l'unico modo che gli era rimasto per sopportare l'idea che sua moglie fosse prigioniera da mesi, in mezzo al pericolo, e lui non potesse accorrere al suo fianco.

Riven non poteva morire: era ingiusto e contro natura. Ma Gehn aveva scritto oltre duecento Ere e su più d'una si era sviluppata una civiltà condannata sin dalla nascita. Le sue stesse creazioni, da quando era stato portato su D'ni con l'inganno, erano state condotte alla rovina da mani avide. Il potere di un singolo uomo, anche quello dell'ultimo discendente dei D'ni, non poteva essere sufficiente a porre rimedio a tutto: se Atrus aveva scelto di legare la sua vita alla salvezza della Quinta Era, fra tutte, era unicamente per Catherine.
Avrebbe voluto avere tempo di chiarire la questione con la sua coscienza (aveva l’impressione che ne sarebbe uscito sconfitto. D’altronde, era solo un uomo), ma non era un lusso che potesse permettersi e certo non gli sarebbe servito una volta fatta la sua scelta. Non che volesse tornare indietro, ma farlo a quel punto sarebbe stato doppiamente insensato.

All’inizio aveva impiegato quel poco di tempo che riusciva a togliere a cibo e sonno per curare un breve diario, fra i tanti, scritto però solamente con parole comuni da innamorato. Poco alla volta cercava di ricostruire ogni dettaglio di Catherine, stupendosi di quanto l’insieme riuscisse a superare, ogni volta, la somma delle parti. Pur vedendo sconfitto il fine ultimo di tale operazione, quel quadernetto mal rilegato restava il suo secondo più grande tesoro lì dentro.
 Quando aveva iniziato a provare il desiderio di mischiare altre parole alle semplici descrizioni si era fermato di colpo. Era stato solo un pensiero. Un’idea infondata, sciocca. Ma era qualcosa che Gehn avrebbe fatto e Atrus non era certo di poter sopportare di vedersi così simile a suo padre.
Da allora si era limitato ai ricordi.

Un ricordo rosso, nella fattispecie, cioè la prima immagine che lo assaliva quando il caso voleva che una piccola macchia rossa si mostrasse dalle pagine del libro. Risaliva agli anni delle sue esplorazioni attraverso le Ere; per la precisione alla fine di ognuna di esse, quando era giunto il momento di tornare verso casa. Quando apriva il libro che l’avrebbe riportato a Myst sorrideva e si preparava ad affrontare gli attimi di buio del Legame con serenità, perché sapeva che, immancabilmente, la prima cosa che avrebbe visto sarebbe stata la splendida figura dormiente di Catherine avvolta nel rosso. Dopo averla ammirata da lontano la svegliava con un bacio in fronte, lieve per quanto ne era capace, sussurrando il suo nome. Non aveva memoria di momenti più belli nella sua vita, che pure ne aveva visti molti, ed era tentato di tornare ogni giorno per salutarla così, anche per un attimo soltanto. Quando veniva sorpreso da un bacio di ritorno, quando era sicuro che fosse sveglia, la aiutava ad alzarsi e insieme uscivano all’aria aperta, discorrendo serenamente dei fatti piccoli e grandi dei giorni trascorsi lontano.

Atrus voleva arrivare a vedere un giorno in cui avrebbe potuto toccare l’Immagine porta per venire accolto da un abbraccio rosso. Poteva ancora sentire la stoffa della veste di lei sotto le sue mani, ma presto l’illusione finiva e tornava a essere solo carta.






***

C'era una volta, in un albero in mezzo a un lago che era anche la grande casa di un popolo in esilio, una donna che sognava.
Un tempo era stata straniera in patria: orfana spirituale in un grembo Rivenese, come si era definita. Poteva avere amici come tutti, un padre e una casa, ma sentiva che il suo posto nel mondo era altrove. Forse oltre i confini del mondo stesso. Allora guardava fuori dalla finestra, la notte, e cercava lì il suo futuro.
“Eti, cosa c'è oltre le stelle?”, chiedeva. Ma la compagna di giochi non sapeva risponderle.
Oltre c'era tutto. Scoprirlo dapprima la marchiò, ma tramite quello trovò il suo posto e la sua felicità. Prese Atrus per mano e si fece condurre via da lì; al suo fianco scoprì le Ere e ne scrisse a sua volta, donando loro un equilibrio istintivo che la guidò nel trovare il suo. La parte di lei che viveva su Myst assieme all'uomo che amava non avrebbe saputo dire gioia maggiore dell'assisterlo nelle sue scoperte o attenderlo la sera sulla porta di casa – proprio lei che in gioventù era stata così fieramente indipendente e che ora sorrideva nel riflettere sul proprio cambiamento e non vedervi contraddizioni. Testa, cuore e libera scelta erano sempre stati a guida delle sue azioni, prima e dopo.
Non aveva più amici, però, né un padre. Aveva lasciato un'ombra su Riven che continuava a chiamarla.
Rispose al richiamo anni dopo, subendo il più bieco dei tradimenti, quello dei suoi stessi figli. Quando anche si fu accorta dell'inganno e seppe di essere rimasta intrappolata per sempre su Riven, diventata da anni una prigione senza uscita, assieme al peggiore dei loro nemici, per un attimo ne fu felice. Dovette rendersi conto che, da disadattata qual era stata, era tornata al suo popolo come inarrivabile dea per tornare a sentire il muro invisibile che era stato l'unica costante dei suoi giorni.
Per chi ha vissuto tre vite, ognuna da estranea, il sogno è un'ancora potente.
Il suo nome era Katran – Catherine, secondo una testarda pronuncia straniera cui negli anni si era affezionata al punto da farla sua.
E sognava.
Sognava.

Non sogni di pace: quelli sarebbero venuti in seguito, sperava, quando la nuova casa dei suoi Moiety fosse stata veramente sicura. In quei giorni, Catherine era ancora divisa fra speranze, doveri e mezzi successi e i suoi sogni erano tutto ciò che la teneva ancora insieme, indicandole la direzione.

Si sognava in fredde vesti D'ni, che riuscivano a dare un pallore mortale anche alla sua carnagione scura, intenta a impartire ordini a schiere di sottoposti suddivisi secondo le logiche del Cinque. Allora si svegliava di soprassalto, Nelah la sentiva dalla stanza vicina e si premurava di portarle dell'acqua e chiederle se potesse fare qualcosa per alleviare le sue pene. Catherine la lasciava tornare a dormire scusandosi per il disturbo, ma così facendo restava sola e lucida a riflettere sui significati del sogno: i rischi del comando, sì, ma anche la sua inevitabilità. Che lo si volesse chiamare 'destino' o no, il suo ruolo di capo dei ribelli era stato scritto fin dal suo ritorno a Riven. Tornando a cullarsi nel dormiveglia, poteva vederlo come un sentiero dietro di sé che avrebbe percorso anche da sola e senza aiuti. Gehn era un despota sostenuto da un'ampia – per quanto, Catherine ne era sempre più convinta, falsata – conoscenza dell'Arte. Gli isolani da soli non sarebbero mai riusciti a opporsi a lui per poter vivere in pace né, allargando gli orizzonti, per impedirgli di spezzare, un giorno, le sbarre della gabbia in cui da trent'anni era rinchiuso. Lei sì. Ed era lieta di assumersi un ruolo che per Atrus sarebbe stato troppo personale e gravoso, l'avrebbe fatto anche se non vi fosse stata spinta dalle superstizioni della sua gente. Anche se le stava togliendo la sua vita. Col cuore pesante, tornava a dormire.

Sognava di essere lei stessa Riven e di andare incontro a un analogo fato. Era spezzata, morente, i suoi arti non le rispondevano più. Sul braccio destro, quello con cui scriveva, gravava l'opera di Gehn, come il centro di un'infezione che si diramava in tutto il suo corpo. Col sinistro vedeva: con quella mano, infatti, riceveva i dispacci delle spie ribelli in tutte le isole e tramite le loro parole le sembrava di conoscerne nuovamente ogni angolo. Vedeva con la mano, perché la testa era lontana, forse tagliata. Con la gamba destra era già nel dominio privato dell'usurpatore; con la sinistra si attardava ancora nella sua vecchia casa. Prima o poi si sarebbe rotta del tutto.

Sognava di essere rinchiusa per sempre su una torre in mezzo a un lago che poi era un albero che era un'Era. L'avevano costruita solo per lei e non poteva rifiutarsi di entrarvi. Certe volte ricordava di essere stata lei ad ordinarne la costruzione. Appena sentiva la porta chiudersi dietro di sé si svegliava, madida di sudore. Guardava fuori dalla finestra e vedeva una torre, che poi era un albero, che era un'Era: Tay, l'Era brulla rubata a Gehn, riscritta da Catherine a immagine e somiglianza del Grande Albero che avevano perso, da lei donata al suo popolo perché potesse vivere finalmente libero e sicuro, sotto il cielo aperto, senza più timori. Quando avessero distrutto l'unico Libro di collegamento che da Riven conduceva fin lì sarebbero stati protetti per sempre, senza la possibilità che visitatori indesiderati arrivassero al loro rifugio. O se ne andassero.
Presto la porta si sarebbe chiusa davvero e sarebbe rimasta lì per tutto il resto della sua vita. Era la scelta giusta, ma Catherine esitava.

Non raccontava a nessuno dei suoi sogni. Nessuno le era abbastanza vicino da poter accogliere simili confidenze.

Agli inizi pensava che provare a seguire gli usi dei ribelli l'avrebbe aiutata a integrarsi, anche se in veste di loro capo e mai di uguale. In molti aspetti l'intuizione si era rivelata felice, che si trattasse di maneggiare il piccolo pugnale simbolico o uscire in superficie paludati come spiriti. Vedere la sua amata isola esalare gli ultimi respiri continuava a provocarle un dolore intenso come il veleno dell'ytram, ma l'euforia del momento spesso scacciava ogni altra sensazione. Quando si trattava di aspetti più strettamente religiosi, però, aveva presto imparato che l'adorazione dei Moiety aveva l'unico risultato di opprimerla. Il fondamento stesso del loro credo era un punto su cui avrebbe preferito soffermarsi il meno possibile, eppure le sembrava che nelle sere di festa non inscenassero altro, mese dopo mese. Ogni volta era costretta dal suo status ad osservare il padre di Atrus, quel Gehn che continuavano a combattere, mostrarsi come falso dio e saccheggiare impunito la bella Riven prima di venir affrontato e sconfitto da un'irriconoscibile versione di se stessa e di suo marito in un'eroica battaglia che culminava col sacrificio di entrambi nella Fessura Stellata che dava il nome ad Allatwan. Il suo ritorno sull'isola dalle 'terre oltre la morte' non era dunque che la prova definitiva, secondo i più osservanti fra i Moiety, del suo status divino (a parte tutto, non era mai scesa a patti col termine “dio”: la disgustava quando applicato a Gehn o a se stessa, su Atrus invece suonava semplicemente buffo). Pur rimproverandosi una qual certa mancanza di serietà, Catherine raramente riusciva a nascondere un sorriso nel vedere Gehn così grottescamente trasfigurato da un costume che non doveva lasciare dubbi sul suo malefico ruolo nella storia. Al contrario, però, s'irrigidiva nel vedere quello che un'adorazione primitiva aveva fatto del rapporto fra lei e Atrus. Non si poteva certo dire offensivo, anzi. Forse, se fosse stata più serena, sarebbe riuscita ad apprezzare lo sforzo d'immaginazione invece di rigettarlo. Ma la visione idealizzata che danzava sotto i suoi occhi non aveva più nulla di personale o di umano e... e l'umanità e le piccole cose erano tutto quello che più amava in Atrus. Strappargliele nascondendolo dietro una maschera eroica era la peggior perversione che si potesse compiere verso il suo ricordo di lui. E Catherine non era certa di sapere come comportarsi nei confronti di un ricordo vuoto. A volte, quando il nulla la prendeva, i suoi ricordi si svuotavano e le restavano solo i sogni e nel panico non sapeva cosa fare, ma fino a quel momento erano sempre tornati tutti dopo un po', chissà perché si erano allontanati. In quel caso, invece, i giorni del suo passato con Atrus sarebbero morti senza possibilità di scampo.

Amareggiata, osservava la recita quanto più possibile in disparte, lasciando che le fiamme delle torce la proteggessero da quella versione deviata della realtà. Il velo rosso era il suo scudo: quando la situazione glielo permetteva osservava le lingue di fuoco guizzare e divorare le immagini su cui si soffermavano. Era una buona difesa, ma non un pensiero piacevole, e l'associazione di immagini stava corrompendo qualunque fuoco su cui posasse gli occhi. Finiva per sovraimporre l'odiata recita alla fiamma, oltre che il contrario. La soluzione migliore che trovò fu, in fondo, abbastanza simile a quello che si era abituata a fare negli anni: una riscrittura. Non voleva arrendere il pensiero del fuoco e, per esteso, del rosso che tanto amava, alla tristezza. Iniziò allora a pensare, durante quegli spettacoli, al contrario esatto di quello che le stavano presentando, cioè al più piccolo e insignificante dei suoi ricordi – un ricordo rosso.

Un tempo, prima che Atrus decidesse di farne un altro 'luogo di protezione' per i suoi libri (ne aveva riso, allora, da stolta), c'era un fuoco sempre acceso nel caminetto della loro biblioteca su Myst. Quando calava la sera, Catherine amava sedersi in quella sala, vicino agli scaffali ricolmi di diari, e lasciare che i suoi pensieri si confondessero col caldo rassicurante della legna che ardeva. Amava anche sonnecchiare così seduta, lasciandosene cullare, ma il momento che preferiva era quello in cui il rosso scompariva dalla sua vista, oscurato da una sagoma familiare: Atrus si era finalmente Collegato a casa dopo l'esplorazione di un'Era lontana e li attendeva qualche giorno di comune gioia. Lei fingeva di continuare a dormire, lui si avvicinava e la baciava sulla fronte sussurrando il suo nome. Subito seguito dalle prime avvisaglie della piena di parole con cui l'avrebbe investita nel tentare di comunicarle tutte le scoperte e le meraviglie in cui si era imbattuto e che le avrebbe tanto, tanto voluto mostrare di persona se solo avesse vinto la sua ritrosia nell'usare i Libri e... e...

Sì, annuiva la stanca dea che regnava su Tay, mentre le maschere le mostravano un guerriero senza macchia e senza paura: quello era il suo fuoco e quello era suo marito.

Col tempo, le sue memorie di Myst erano diventate rosse e impalpabili come la fiamma. Come con quella, Catherine faceva del suo meglio per tenerle vive.


***

Hanno continuato a combattere. Lei contro un mondo intero, lui contro se stesso, avversario ugualmente temibile, e l'hanno fatto perché non potevano sopportare la prospettiva di vivere i loro giorni con un altro ricordo rosso.
Gli incubi di Catherine le mostrano ancor oggi nuove vesti tinte di rosso: quello del sangue di suo marito, se avesse lasciato modo a Gehn di scriversi una strada verso D'ni e provare dinnanzi alle Ere tutte che lui, l'ultimo vero erede di quella grandiosa civiltà, non aveva più figli. Catherine non avrebbe assistito alle poche parole che si sarebbero scambiati né sentito il colpo di fucile che ne avrebbe sancito la fine, ma l'immagine, che al suo pensiero veniva fin troppo semplice ricreare, non l'avrebbe più lasciata.
Ad Atrus, che non aveva tempo nemmeno per un incubo, bastava invece alzare gli occhi con timore verso l'Immagine porta per vederla vittima di un fallimento che tutti i suoi sforzi non potevano che rimandare. Quando infine avesse sbagliato qualcosa, e prima o poi sarebbe certo accaduto, non sarebbe mai più esistita Catherine né Eti né Enant e neanche il richiamo profondo del wahrk o la quiete del villaggio all'alba. Solo un'ultima fiammata di un rosso vivo a celebrare, sotto il suo sguardo impotente, la distruzione di tutto ciò che di caro gli era rimasto in infiniti mondi.

Così attendevano una fine che, come entrambi ebbero a dire, non era ancora stata scritta. E quando giunse resistevano ancora e vinsero, grazie al più inaspettato degli aiuti. Poi fu un nuovo inizio e un altro ancora, ma questa è un'altra storia, una lunga storia di ricostruzione che avrebbe posto le basi per una nuova era.


***

Qui, tutto quello che un libro può aspirare a contenere è un accorto accostamento di parole, che evochi nel lettore riflessioni e l'impressione di mondi lontani o vicini, e non c'è strumento più miracoloso di una tastiera collegata a un computer. Da semplice scribacchina del Web, dunque, la mia vita non potrebbe essere più lontana dall'Arte e dai suoi ultimi eredi. Conobbi però le storie che vi ho riportato dalla bocca di chi le ebbe vissute, raccontatemi nella tranquillità che seguì quei giorni. E, nel sentire l'affetto con cui tratteggiavano quell'unico ricordo comune alla base della spaccatura che aveva diviso le loro vite, la mia mente tornava sull'Isola di Myst, in un tempo antecedente il nostro primo incontro. In allora, io stessa mi ero trovata a camminare su quell'Era tanto amata quanto ormai morta, cercando di capire che forze mi avessero condotta lì e come tornare indietro. Mi parve ascoltandoli che a volte, la sera, quando mi era capitato di attardarmi presso il piccolo bosco in cerca di indizi, un manto rosso si fosse mostrato al limite del mio sguardo e che, una volta almeno, avessi visto con chiarezza due figure passeggiare fra gli alberi, mano nella mano.
Ma certo era la memoria che giocava strani scherzi.













Nerdaggine & credits:

@ titolo: Spaccato nel senso di traduzione italiana di 'riven'. Nella sua accezione figurata, il termine significa anche tormentato (di animo). Il riferimento è agli eventi pre-Myst che portano alla situazione descritta. I bordi sono, metaforicamente, il punto di vista dei personaggi su quegli eventi. Sono rossi perché il ricordo che li lega è rosso e sono tre perché (due era troppo scontato e) c'è dentro anche lo Straniero, ecché.

@ sogno di Katran: a ogni arto corrisponde effettivamente una delle cinque isole con le sue caratteristiche principali: in ordine, Dome Island con la cupola che dà energia ai Libri; Survey Island con tutte le telecamere e le estrusioni olografiche; Prison Island col tronco tagliato del Grande Albero, lontana; Book Assembly Island con lo studio di Gehn; Jungle Island unica ancora abitata dagli isolani.

@ “altra Era” citata oltre a Channelwood: Selenitic. Quella verde, nelle intenzioni, è Tomahna. Perché ha, uhm, tante serre. Ed è un'Era, come tutti sanno :facepalm: Metà Exile, gente, abbiate pietà...

@ definizione di Katran come sognatrice: senza trucco e senza inganno siore e siori, scelta più o meno a casaccio prima di realMyst, prima dei libri, prima di staceppa. Feeling so speshul right now. La pazzia (tu quoque, donna?) accennata nel diario di Riven però s'ha da approfondire, e non solo con Carta Straccia.

@autocitazione scandalosa da una vecchissima fanfiction su zelda: ma ma ma! Al tempo descrissi Riven (e Tay, nondimeno) quasi senza saperlo, citare quel primo tentativo parlando di Riven (e di Tay, nondimeno!) mi pareva doveroso. Spero non stoni.

@ Tay riscritta a immagine del Grande Albero: a quanto ne so, è un'ipotesi di Riven Illuminated. Ottimo sito, per inciso, consiglio una visita a tutti i curiosi.

@ nuovi inizi: pur con la cronica mancanza di finali scritti che tanto amiamo, di nuovi inizi ce n'è a iosa, prego sceglierne due secondo gusto personale. Uno è Yeesha, dai. L'altro... diciamo Releeshahn?

   
 
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