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Autore: Hika86    08/11/2013    1 recensioni
Il Giappone è in subbuglio: le guerre si incrociano sul territorio, i potenti si alleano e si tradiscono ogni giorno, l'amico che ti ha sempre difeso, un giorno potrebbe pugnalarti alle spalle, coloro che ti sostengono potrebbero non farlo la vota successiva e d'improvviso chi ami oggi, domani potrebbe essere il nemico...
Ora, in tutto questo casino: io che ci faccio qui?
Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kazunari Ninomiya , Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La sorpresa e il caldo stavano cominciando a farmi girare la testa, quindi uscii il più silenziosamente possibile dall’acqua. Presi il panno asciutto tremando per il freddo, recuperai i vestiti e me la svignai in punta di piedi di modo da trovarmi un angolo tra gli alberi che fosse lontano dalla fonte termale per potermi vestire in pace.
Avevo avvisato Yukino di venirmi incontro con una luce, perché per la fine del bagno sarebbe stata sera e avrei rischiato di perdermi nella foresta buia. Quando la incontrai, era visivamente preoccupata: dovevamo incrociarci a metà strada ed invece, non incrociandomi, era quasi arrivata alla fonte! Pensava fosse successo chissà cosa, ma in realtà mi ero solo attardato ad origliare, io comunque la rassicurai dicendole che mi ero addormentato nell’acqua. Mi misi al suo fianco e ci avviammo verso la villa.
Sposato. Io. Era logico supporre che mia moglie sarebbe stata la figlia di quell'Ujie, altrimenti perchè se la sarebbe portata dietro? Era carina almeno? Yukino doveva saperlo! Mi voltai a guardare il suo viso illuminato dalle fiamme, ma dovetti ingoiare la domanda: sospettavo che avesse una cotta per me, non sarebbe stato carino mostrarmi interessato ad un'altra e probabilmente sarei suonato anche un po' scemo. Per quell'epoca uno come me era ben oltre l'età da marito quindi le mie domande sarebbero suonate infantili. L'età da marito era quella di Yukino, sui 16, 17 anni.
Tornai a guardare l'oscurità davanti a noi, un po' per non inciampare su quel sentiero di montagna, un po' perchè mi ero appena reso conto che Yukino non mi interessava per due motivi: da una parte perchè non ero intenzionato a rimanere in quel posto, ma anche perchè per la mia morale, una morale da ventunesimo secolo, non potevo andare con una minorenne. Non potevo e non mi interessava, non ho mai avuto il complesso di Lolita e le ragazze più piccole non mi attirano. Ma nell'antico Giappone un uomo fatto poteva anche finire sposato con una tredicenne, una bambina insomma! E se la mia futura moglie fosse stata così giovane? Parlando per ipotesi, perchè non avrei alzato nemmeno un dito su una bambina, come avrei assolto ai miei doveri coniugali? Io con una tredicenne sorrido, ringrazio per il suo supporto e basta, di certo non me ne innamoro, non la sposo, non me la porto a letto e... non ci faccio dei figli!
In quale terribile guaio mi stavo cacciando?
Arrivati alla villa mi sentivo di nuovo a pezzi, almeno mentalmente, perchè fisicamente non avevo mai smesso di sentirmi un rottame, vivo per miracolo. Ringraziai Yukino e andai in camera dove uno degli attendenti dei Morikawa mi aspettava per aiutarmi ad indossare il kimono di quella sera. La prima cosa che mi chiese fu se volevo tagliarmi i capelli prima di vestirmi. In effetti era passato un sacco di tempo da quando ero arrivato lì e non mi ero mai posto nessun problema di acconciatura. Rifiutai, ma mi feci dare un nastro scuro: tutto sommato il codino alla Kenshin mi sembrava un'idea figa e avevo bisogno di qualcosa di figo, perchè intorno a me nell'ultimo periodo c'erano solo sudore, lividi e poca igiene.
Una volta pronto, l'inserviente mi aprì lo shoji che dava sul camminamento interno e mi diressi verso la stanza che era solitamente adibita ai ricevimenti, se c'era qualcuno di importante, ma che d'inverno fungeva anche da sala dove consumare i pasti. Normalmente non mangiavo lì, perchè con gli allenamenti ogni membro della famiglia mangiava ad orari diversi ed io ero sempre invitato ad unirmi agli altri compagni d'arme, cosa che mi faceva piacere, quindi facevo sempre il loro pasto e quasi mai lo stesso dei padroni di casa.
Mentre mi dirigevo verso la sala, comunque, pensavo solo all'angoscia che mi assaliva. Ero arrivato alla conclusione che non potevo più rimanere in quella casa altrimenti mi avrebbero fregato alla grande. Dovevo fuggire, e alla svelta anche. Entrai e trovai la famiglia Morikawa già seduta. Davanti al tokonoma¹ c'erano due posti vuoti, ovviamente per gli ospiti, e più distanti, ma di fronte ad essi in linea d'aria, il Signor Morikawa e Toshinori occupavano altri due posti. Rimanevano solo due cuscini con il panchetto su cui sarebbe stato posato il cibo: erano uno di fronte all'altro e si trovavano ai lati dell'immaginaria tavolata: ovviamente da una parte c'era Masatoshi e di fronte mi sarei seduto io. Ero certo che mi sarebbe andato tutto il cibo di traverso. In quel momento comunque mi preoccupava di più cosa fare per scappare. Certo, i Morikawa non si meritavano un voltafaccia, ma nemmeno io mi meritavo di essere sfruttato per i loro scopi politici. Dente per dente, come si suol dire. Avrei chiesto a Rie di prendermi con sé, di farmi entrare nelle fila dei suoi guerrieri. Andarmene e basta sarebbe stata un'idiozia, non avrei mai trovato un posto accogliente e sicuro come quella villa e sarei morto al primo accenno di pericolo. La soluzione migliore era quindi rimanere ancora con qualcuno che mi potesse difendere e a cui importasse della mia sorte (mi auguravo che a Rie importasse, insomma), ma che forse mi avrebbe fatto sparire da quell’intrico di macchinazioni politiche.
Ero seduto al mio posto cercando le parole giuste da rivolgere a Rie una volta che l’avessi incontrata il giorno dopo, e quasi non mi accorsi degli ospiti che stavano per entrare nella sala. Vedevo Ujie Masamune per la prima volta, dopo aver sentito la sua voce e i suoi piani già due volte. In un certo senso, l’idea che mi ero fatto di lui stonava con la sua figura: era più anziano di Morikawa, secco, secco, che sembrava potesse volar via da un momento all’altro se non avessimo fatto attenzione agli spifferi. Aveva baffi e pochi capelli bianchi, un sorriso addolcito dalle rughe profonde e mani dalle dita sottili. Era il ritratto del moderno (per me) vecchio contadino in pensione, che ha smesso di lavorare perché è troppo anziano e perché le esportazioni di frutta e verdura dall’estero hanno ormai reso inutile il suo impegno. Ci sarebbe voluto un cappello di paglia e dei pantaloni sgualciti per completare il quadro, invece il kimono da cerimonia stonava con la sua immagine.
Per quanto potesse sembrare un caro vecchietto, comunque, non avrebbe avuto la mia libertà o il mio stato civile. O almeno così continuai a pensare finché da dietro le sue spalle non seguì anche la figura della figlia, la donna che avrei dovuto sposare.
Era bella. L’aggettivo “bella” è forse troppo poco per descrivere la figlia minore di Ujie, ma “carina” è sminuente e “meravigliosa” dà l’idea di una bellezza sfacciata e vistosa. Aveva i tratti del viso molto dolci e leggermente marcati, segno che almeno non era una bambina. Lunghi capelli neri, tagliati con la foggia dell’epoca, e occhi d’un castano brillante. Aveva un neo piccolo, ma ben visibile, appena sotto l’occhio.
Ovviamente niente di tutto questo venne registrato dalla mia mente in quel momento, posso farlo ora che sono calmo, tranquillo e scrivo tutto ciò che ricordo su queste pergamene, ma in quel momento penso di essere rimasto semplicemente a bocca aperta, come un perfetto idiota. Ne ho incontrate di donne belle nella mia vita, ne incontro parecchie sul lavoro, ma non mi era ancora capitato di rimanere così colpito. Parliamoci chiaro, la bellezza è un dato relativo: ad Aiba chan piacciono delle donne che io non vorrei manco come mie colf, per esempio; ma ci sono persone che sono oggettivamente belle. Jun è bello: può starvi sulle palle, ma negare che sia bello è come dire che la terra è piatta. Io davanti a quella donna rimasi totalmente sconvolto, era veramente la donna più bella che avessi mai visto fino a quel momento… quanto è vero che la terra è rotonda. Di colpo, sposarla, anche solo per poche settimane, non mi parve un’idea così malvagia.
Per i primi venti minuti gli unici a parlare furono i due capifamiglia, poi l’ospite fu tanto cortese da cominciare ad informarsi su ognuno dei convenuti. Parlò con Toshinori trattandolo con grande rispetto, forse perché era l’erede, e poi passò a Nagatoshi: al maggiore aveva chiesto della situazione del villaggio, della casa e con chi vi lavorava, oltre che qualche curiosità sull’addestramento dei guerrieri, mentre col secondogenito si premurò esclusivamente di domandare i suoi progressi con gli allenamenti. Era chiaro che argomenti riguardanti il governo delle terre non dovessero minimamente riguardarlo. Ripensai alle parole che Rie mi aveva detto due sere prima e ammetto che, sì, in quel momento provai pena per lui. Ma dubito che fosse il sentimento che volesse provassi per lui.
Il seguente avrebbe dovuto essere il piccolo Toshiaki, ma forse sarebbe stato sgarbato parlare con me, un adulto e un ospite, dopo di lui. Avrebbe voluto dire che valevo meno di un bambino. Comunque non mi aspettavo di avere la precedenza, quindi quando capii che Ujie Masamune stava guardando proprio me, rischiai quasi di strozzarmi: stavo continuando a lanciare occhiatine furtive a sua figlia, se n’era per caso reso conto?
«Toshiya san, hai tenuto segreto un figlio fino ad oggi?» domandò squadrandomi
«No Masamune san, questi non è figlio mio, ma di uno delle mie tante sorelle». Avvertii un’insolita rigidità nel tono con cui Morikawa rispose: era stato punto sul vivo? Non ero suo figlio, ma era vero che mi aveva tenuto segreto.
«Ah già, la tua è una famiglia numerosa» annuì quell’altro senza staccarmi gli occhi di dosso
«E’ mio nipote, Morikawa Kazunari».
Come ci si presentava a delle autorità all’epoca? C’erano formule particolari? Cose che non avrei dovuto fare? O che avrei dovuto assolutamente fare per non recare offesa alla controparte? Ma che importava? Non avevo risposta a quelle domande e di certo non c’era nessuno alle spalle del signor Ujie ad alzarmi cartelli con su scritto cosa fare. Meglio tentare che stare zitto.
Posai le bacchette e mi voltai con tutto il corpo, scivolando con le ginocchia martoriate sul ruvido tatami. Quindi puntai le dita delle mani a terra e mi chinai fino a sfiorare il pavimento con il naso, come avevo visto fare ai servitori in quella casa. «Mi chiamo Morikawa Kazunari. Sono molto lieto di fare la Vostra conoscenza». Usai la formula più cerimoniosa che mi venne in mente.
«Hai uno strano accento» osservò semplicemente Ujie. Tutta quella manfrina e lui notava la mia strana inflessione? Certe volte quel mondo era proprio frustrante!
«Non è il primo che me lo fa notare» risposi. «Vengo da un’isola lontana dalla costa, sembra che lì la lingua abbia assunto delle caratteristiche molto particolari col tempo»
«E dimmi Kazunari, cosa fai lì sulla tua isola?» insistette. Avevo la crescente impressione che i suoi occhi mi stessero consumando: non avevo problemi a venire fissato da migliaia di fan, ma quei due occhi mi mettevano a disagio come poche volte mi era capitato.
«Sono il primogenito maschio dei miei genitori. Come può vedere sono piuttosto mingherlino, la mia costituzione non aiuta a diventare un bravo guerriero come vorrebbe mio padre. Dato che i miei cugini sono così forti e allenano molti uomini durante l’anno, mio padre mi ha mandato qui per imparare qualcosa e forgiare il fisico» gli propinai la scusa che ci eravamo inventati con Morikawa
«E cosa facevi tutto il giorno sulla tua isola se non eri portato al combattimento?» chiese riprendendo finalmente a mangiare.
Ottima domanda.
Anche io tornai a voltarmi verso il mio piatto. Cosa facevo nella mia inesistente isola per riempire la mia inesistente vita da guerriero? «Cantavo» risposi senza rifletterci troppo
«Cantavi?» ripetè guardandomi con le sopracciglia alzate
«La nostra tradizione musicale è uno dei nostri tesori, a tutti, uomini, donne e bambini, vengono cantante molte canzoni e, se uno è bravo, lo si addestra perché impari a cantare o a suonare uno strumento».
E fare piroette, back-filp, recitare, posare per le foto, condurre programmi e intrattenere centinaia di migliaia di persone. Questo non lo dissi, è chiaro, ma ebbi l’impressione di starmi sminuendo: agli occhi di Ujie ero un uomo fatto che sapeva cantare. Fine. Bella figura!
«E sai suonare qualcosa?» chiese incuriosito. Nonostante quella storia dovesse suonare bizzarra alle sue orecchie, si era fatto appassionare.
«Sì, ma è uno strumento del nostro paese che qui non c’è. Canto comunque» annuii
«E sei bravo?».
Di tutto ciò che sapeva fare, solo i backfilp erano utili ad un misero idol del ventunesimo secolo catapultato magicamente in quell’epoca, mentre l’unica che lui potesse ammettere di saper fare era cantare, quella era l’unica dote che potessi sfoggiare. «Il migliore» risposi con semplicità, come se avessi appena detto “dell’altra insalata, grazie” o “si metterà a piovere domani”. Accidenti, non volevo sembrare una mezza calzetta nell’unica qualità che mi era concesso di ammettere! Già se pensavo di ascoltarmi dal loro punto di vista, mi rendevo conto di essere un inutile idiota, se poi non ero bravissimo in niente avrebbero potuto chiedersi con quale coraggio mio padre avesse deciso di esporre al mondo intero un figlio di cui avrebbe solo dovuto provare vergogna.
«Sul serio?» domandò Toshinori sgranando gli occhi. Lo ringraziai mentalmente, la mia uscita di poco prima peccava di immodestia, ma lo stupore nello sguardo dei miei “parenti” indicava che almeno non ero uno che andava in giro a vantarsi.
«Com’è che non ci hai mai detto di questa tua dote?» chiese Nagatoshi. La mia pietà per lui sparì di botto quando gli vidi un ghignetto divertito stampato in faccia. Perché non si era strozzato con quello che aveva nel piatto?
«Come ho già detto, non sono qui per cantare, ma per imparare dai miei cugini ad essere più uomo» dissi cercando di prevenire qualsiasi sua stupida battutina
«La nobiltà d’animo non è una debolezza» disse una voce sottile. «Un uomo dal cuore gentile saprà come comportarsi sia in guerra che in pace. Uno guidato solo dalla forza fisica realizzerà se stesso solamente nella violenza». Girai lo sguardo perché quella era la prima volta che sentivo la voce della figlia di Ujie. E mi aveva fatto un complimento.
«Ma un giorno sarà parte degli Arashi!» intervenne Toshiaki che aveva già finito di mangiare
«Gli Arashi?» fece Toshinori, confuso
«Sono i quattro guerrieri più fortissimissimi dell’isola di Kazu» spiegò il bambino
«Toshiaki! Pensavo ti fossi morso la lingua. Quando ci siamo visti l’ultima volta non facevi altro che parlare» disse allegramente Ujie e il discorso si spostò finalmente sull’ultimo rimasto.
Il mio interrogatorio sembrava concluso, o almeno li primo round: figuriamoci se il nostro ospite avrebbe dato in sposa sua figlia ad uno smidollato canterino! Si sarebbe di certo premurato di scoprire qualcosa di più e di sapere anche le mie potenzialità future. A mente lucida ero totalmente contrario a quel suo piano, poi però alzavo gli occhi sulla figlia e mi rendevo conto che ad una parte di me non sarebbe dispiaciuto. Quando ebbi il coraggio di fissarla, dopo che il discorso venne dirottato sul mio adorabile cuginetto, incontrai il suo sguardo. Sul momento mi spaventai e feci per abbassare gli occhi, ma mi resi conto del sorriso che la donna mi aveva rivolto quando aveva capito che la stavo guardando e allora mi concessi di chinare appena il capo: volevo ringraziarla per aver preso le mie difese.

Dopo cena ci spostammo nella veranda che dava sul giardino della villa. Era la stanza proprio davanti alla sala dove avevamo mangiato. I due capifamiglia presero una pipa lunga, caratteristica di quell’epoca e del tabacco. La ragazza, Toshiaki e Nagatoshi vennero mandati nelle loro stanze, perché la gente importante doveva discutere di affari. Avrei dovuto andarmene anche io, ma Morikawa mi bloccò quando ero già sulla porta.
«Kazunari, rimani pure» mi invitò.
Mi sorprese, perché pensavo che Ujie volesse parlare proprio della proposta di matrimonio e dell’impressione che avevo fatto, quindi, per potermi criticare in libertà, non avrei dovuto essere presente.
«Non so se è il caso» accennai a mezza voce. Nagatoshi aveva avuto un attimo di incertezza mentre camminava verso l’uscita della stanza, era chiaro che lo infastidisse che io potessi rimanere, mentre lui no.
«Non penso ci sia nulla di male» insistette il padrone di casa. Avrei giurato che il suo sguardo fosse quasi supplichevole. Forse non voleva che si parlasse del matrimonio e sperava che la mia presenza lo salvasse da quel discorso, ma Ujie gli rovinò la festa.
«Lascialo andare Toshiya san, al suo posto, con gli allenamenti che dovrà subire domani e quelli fatti oggi, anche io vorrei solo andare a dormire».
Ma per chi mi aveva preso? Idol non è sinonimo di idiota, almeno nel mio caso: non sarei andato a ronfare nel mio futon mentre quell’Ujie dei miei stivali decideva del mio futuro stato civile! Nemmeno se la consorte era la sua meravigliosa figliola. Chinai il capo in un cenno di saluto ed uscii chiudendo gli shoji. Sospettavo che davanti a me non avrebbero parlato onestamente, non il nostro ospite per lo meno, mentre io volevo sapere esattamente cosa mi aspettava; sarei stato a sentire senza renderli partecipi del fatto che c’era un secondo paio d’orecchie in ascolto.
Nagatoshi era infondo al corridoio e speravo che il fatto che non fossi rimasto lo rendesse più felice. Attesi di sentire i suoi passi allontanarsi quindi, memore del fatto che in una casa di legno e in un epoca senza traffico ogni minimo rumore poteva tradirti, feci il corridoio fino infondo, nella direzione che si supponeva avrei preso per andarmene, poi svoltai l’angolo. A quel punto, invece di proseguire nel corridoio e verso il ballatoio di legno che avrebbe portato alla mia stanza, rientrai nella sala dove avevamo mangiato. I domestici avevano già tolto ogni cosa quindi la attraversai nella penombra senza inciampare in nulla, arrivai fino infondo e uscii di nuovo nel corridoio trovandomi esattamente dalla parte opposta rispetto a quella dove mi avevano sentito camminare. Passai nell’angusto spazietto che stava tra la parete e le scale che portavano al primo piano, dove c’erano le stanze dei guerrieri, e guadagnai la piccola uscita laterale dedicata ai domestici.
Camminai molto lentamente sul legno del camminamento esterno. Ormai avevo imparato a conoscere quel legno, sapevo che era infido e in quel punto non ero mai passato quindi non sapevo dove fosse più cedevole. Guardando alla mia sinistra, infondo a quello stesso camminamento, potevo vedere la colonna contro la quale mi ero appoggiato la prima notte che avevo parlato con Rie, quando ancora ero malato e stordito e dormivo nella camera del padrone di casa. Feci pochi e ampi passi sulle travi, per non venir tradito da troppi scricchiolii, quindi feci un salto per atterrare sull’erba secca. Fortunatamente chi si occupava del giardino spazzava via le foglie secche quasi ogni giorno quindi solo un orecchio sovraumano avrebbe sentito il lievissimo tonfo dei miei piedi contro il terreno.
Mi accucciai trattenendo a stento degli imprechi: camminare a gattoni era devastante per via di tutti i tagli alle gambe, perchè sentivo la pelle tirare, e per via dei muscoli che dopo una giornata intera di salti, calci e zompi di ogni tipo cominciavano a dolermi. In pochi secondi gli arti inferiori cominciarono a tremarmi leggermente. Comunque tenni duro, strinsi i denti e mi nascosi sotto il camminamento. Lì non mi avrebbe visto nessuno e arrivai a carponi fin sotto gli shoji aperti della veranda dove Ujie, Morikawa e Toshinori parlavano a bassa voce.
«... ci assicura che saranno dalla nostra parte?» diceva mio cugino
«A questo serve tua sorella» ribatteva Ujie. Avevano già cominciato a parlare animatamente, mi chiesi se avrei mai capito quale fosse l’argomento dato che quell’uomo parlava sempre lasciando sottintese un sacco di cose, come se avesse paura di venir ascoltato in qualsiasi momento dalla persona sbagliata, cosa non tanto lontana dal vero.
«No, padre, non puoi essere d’accordo con una cosa simile» ma Morikawa non disse nulla. «Non possiamo coinvolgere Rie»
«Quindi il suo nome è “Rie”?» domandò Ujie. Possibile che non sapesse il nome della figlia del suo amico? Tra l’altro, che fine aveva fatto? Se la giovane Ujie era stata ammessa alla cena, perché non era stata presente anche lei quella sera?
«Non può essere coinvolta» continuò Toshinori, ostinato. «Nessuno deve avere a che fare con quella donna e nessuno dei nostri piani può riguardarla, è troppo pericoloso»
«Quando si tratta di incursioni e sabotaggi, i vostri piani la riguardano sempre» gli fece notare l’ospite. «Dovresti deciderti Toshinori, non credi? O la tua famiglia è superstiziosa, e allora avreste dovuto farla fuori quando è nata e ha ucciso tua madre, o non lo è e la smettete di usare quella ragazza solo come pare a voi. È utile, può essere una pedina importante».
Mentre ascoltavo, nascosto nell’oscurità sotto il legno (chissà che diavolo di insetti c’erano lì con me, senza che io li vedessi), fissavo il prato del giardino, quel poco dei tronchi che riuscivo a vedere e le pietre degli stagni in lontananza. Nonostante il tono sommesso della conversazione, la tranquillità notturna di quel Giappone medievale era perfetta per farmi sentire tutto senza grossi problemi. Le serate invernali poi non prevedevano il frastuono di grilli e cicale. Certo, questo significava che anche io dovevo essere prudente: mi ero steso nella terra umidiccia perché le mie gambe avevano cominciato a tremare troppo violentemente per reggermi stando a gattoni o accucciato, ma ero circondato da foglie secche e semi disfatte nel fango e il pericolo di tradirmi con uno scricchiolio troppo forte era sempre dietro l'angolo.
Non mi capacitavo della disumanità di quel discorso. Parlavano di sbarazzarsi di Rie o di usarla per i loro scopi come fosse una tattica invece che una persona. Era una donna, quindi di scarsa utilità in tempo di guerra, e potevo capire che si pensasse così all’epoca, ma non mi capacitavo di come potessero parlare di ucciderla con tanta nonchalance. Ujie già non mi stava simpatico, dato che pensava di venire qui e fare il bello e il cattivo tempo con la mia vita, ma Toshinori che scuse aveva? Lei era sua sorella!
«Vorrei non toccare questo argomento» li interruppe Morikawa. «Come medico, non approvo nulla che porti qualcuno alla morte, lo sai figlio mio. Per questo ho accettato il piano del nostro ospite: se faremo così è possibile che eviteremo uno spargimento di sangue. Pensi che i Tokudaiji si faranno scrupoli a risparmiare la gente dei villaggi di queste terre se scoprissero che non accettiamo nè vogliamo il loro dominio?»
«No, certo, ma non sono d’accordo con l’utilizzare Rie in questo modo» continuò caparbio Toshinori. Presi una foglia tra le mani, sollevato nel sentire che si preoccupava di sua sorella. «Un matrimonio? Tutti i territori e un accordo di servilismo? Non siamo così deboli da dover supplicare gli Yamaguchi a questo modo. Combattiamo da soli e conquistiamoci la nostra indipendenza» fece con fervore. «Ma lasciate stare quella donna. Porta sfortuna, e se è coerenza che desiderate, allora ditemi cosa devo farne di lei e lo farò. Stanotte stessa»
«E tuo fratello?» domandò il padre. «Uccideresti anche lui?» e allora calò il silenzio.
Rimisi a terra la foglia nel nel buio nemmeno vedevo. Non stavo capendo più nulla.
Volevano far sposare me con la figlia di Ujie, quello era il “legame a doppio filo” a cui avevano accennato durante il bagno, dato che le due famiglie erano già legate con le nozze dei primogeniti tra di loro. Questo avrebbe scoraggiato i Tokudaiji dall’attaccarli se avessero rivendicato l’indipendenza delle loro terre. Fino a quel punto mi era tutto chiaro. Ma chi erano questi Yamaguchi? Una famiglia a cui chiedere aiuto militare? Per non parlare del discorso su Rie. Padre e figlio erano pronti a sgozzare lei e il fratello (quale? Nagatoshi o Toshiaki?) oppure ad usarla come fosse un’arma, invece che un essere umano.
Oltre alla totale confusione, alla stanchezza e al conseguente sonno, cominciavano a farmi male i muscoli delle braccia che rimanevano in tensione per non farmi stare con la faccia nel fango, le ferite alle mani poi continuavano a tirarmi la pelle nel loro processo di richiusura e, per la miseria, mi stava venendo pure mal di testa!
Pian piano strisciai scostando con delicatezza i mucchi più grandi di foglie che le mie braccia raccoglievano nell'agitarsi in avanti per tastare il terreno. Uscii da sotto il legno dallo stesso punto in cui ero entrato: avrei dovuto fare il giro della casa, altrimenti avrei rischiato di passare davanti alla stanza di Nagatoshi che sapeva che io in realtà ero tornato in camera. Camminai fino al muro bianco che circondava la casa, intenzionato a percorrerlo fino alla mia camera, nella speranza che la sua ombra mi nascondesse agli occhi di chiunque: non avrei saputo spiegare tutto il fango e le foglie che si erano probabilmente attaccati al kimono elegante che mi era stato dato per quella sera.
Pensai di cercare Rie per avvisarla del pericolo, per dirle ciò che avevo sentito, ma non sapevo dove dormisse nè se fosse alla villa quella sera. Mentre camminavo con passo felpato, sperai di poter stare tranquillo almeno per una notte.
«Chi è là?» sentii domandare dalla casa.
Mi bloccai, pietrificato, addossandomi al muro il più possibile. Avevo fatto solo una trentina di metri accidenti! Dicevano veramente a me? Qualcuno mi aveva già beccato? E cosa avrei potuto rispondere? “Sono il fattorino delle pizze”? Non avrebbero nemmeno capito la battuta…
«Padre, siete voi?» domandarono ancora. A quel punto mi resi conto che era una voce femminile. «Padre?». Non era di Rie. In quel punto della casa poteva essere solo di una domestica oppure… della nostra ospite! Era l’unica ad avere un padre lì con lei nella villa.
«No. Scusatemi se vi ho svegliata» farfugliai a mezza voce. Era una ragazza innocua, non c’era nulla di male se avesse scoperto che ero lì.
«Aspettavo che mi venisse sonno e guardando fuori, vi ho visto» mi rispose con un filo di voce. Non riuscivo a scorgerla, parlava da uno spiraglio degli shoji aperti.
«Pensavo non mi avrebbe notato nessuno se avessi camminato nell’ombra» spiegai cominciando a cercare una scusa valida per la mia presenza lì
«Però siete vestito di scuro e il muro è bianco».
Che idiota…
«Giusto» sospirai. «Lo vedete anche voi, no? Ho ancora molto da imparare dai miei cugini» cercai di scusarmi.
La sentii ridacchiare a bassa voce. Mi sarebbe piaciuto vederla mentre rideva. Quella sera avevo potuto sbirciare solo un sorriso timido sul suo volto, niente di più.
«Non riuscite a prendere sonno?» domandai facendo qualche passo per avvicinarmi
«Kazunari sama, non dovreste!» pigolò socchiudendo lo shoji. Guardava fuori solo con un occhio, le vedevo a malapena lo zigomo e un ciuffo di capelli. «Non sta bene che voi siate qui» spiegò abbassando la voce.
Perché? Con Rie non avevo avuto alcun problema. Ma solitamente le donne non combattevano, eppure lei lo faceva, quindi era plausibile che lei non fosse una rappresentante del genere femminile medio di quell’epoca.
«Scusate, dalle mie parti probabilmente ci comportiamo diversamente. Va bene se mi siedo qui e vi do le spalle?» chiesi avvicinandomi al camminamento in legno. «Nemmeno io prendo sonno e pensavo fossero tutti addormentati»
«Mio padre e Morikawa sama stanno ancora discutendo» spiegò continuando a parlarmi da dietro lo shoji: era aperto ma lei non era più affacciata.
«Scusatemi, io non so il vostro nome» dissi rendendomi improvvisamente conto di quel fatto. Tutti a tavola avevano dato per scontato che io già sapessi tutto, facendo parte della famiglia, invece non si erano nemmeno degnati di informarmi del nome della mia futura sposa. Che modo era quello per organizzare un matrimonio?
«Ujie Masami» rispose dopo un attimo di esitazione. Ma certo: Masamune il padre, Masato il primogenito e Masami la secondogenita.
«E quanti anni avete?».
Mi ritrovai improvvisamente avido di informazioni. Non era proprio nella mia indole attaccare bottone con una sconosciuta, ma non lo era nemmeno allenarmi a massacrare la gente. Ho già accennato al fatto che temevo di perdere me stesso? Comunque non avevo intenzione di impegnarmi con una persona di cui non sapevo nulla, anche se sarebbe stato un impegno breve.
Masami era la secondogenita della famiglia Ujie e aveva più o meno la stessa età di Nagatoshi. La sua famiglia una volta controllava una ampia porzione di territorio, dai monti dietro le colline dove ci trovavamo noi, fino alle pianure che portavano al mare. La sua casa si trovava in una cittadina molto grande (per l’epoca una “grande cittadina” sarà equivalsa a qualche centinaio di catapecchie, ci avrei scommesso) che si era sviluppata lungo il tragitto pianeggiante di un ampio fiume. Sfociava nel mare, ma da casa sua il mare non si vedeva e non si sentiva. Ci voleva un giorno intero di cavalcata per arrivarci, ma le donne dell’epoca non andavano a cavallo. Ormai da molto tempo, però, gli Ujie non erano più signori di niente e la vita si era fatta più agitata: suo fratello si era sposato poco tempo dopo l’arrivo dei Tokudaiji, insieme alla primogenita dei Morikawa, mia “cugina”.
«Lei sta bene. La casa le piace e anche con mia madre va molto d’accordo» mi spiegava con pazienza. Io la ascoltavo, ma in realtà non me ne fregava un fico secco di quella ragazza che non avevo mai conosciuto, né visto. Non era nemmeno una mia vera cugina!
«Si amavano?» chiesi. Era una cosa che una volta mi ero già chiesto: quanto amore c’era veramente in quell’epoca? Le persone si sposavano anche per sentimento, oppure ogni unione era vista come un semplice legame di interessi? Almeno nelle famiglie più abbienti, ogni tanto c’era un matrimonio d’amore? «Abitando lontano non ho mai saputo molto delle vicende di questo ramo della famiglia» mi scusai
«Allora non sapete che è stata un’unione voluta dalle famiglie? In realtà Masato e Akemi erano già promessi, ma la cerimonia è stata celebrata in fretta poco dopo l’arrivo dei Tokudaiji»
«Capisco» annuii, guardandomi i piedi, mentre li facevo dondolare giù dal camminamento. Era una buona cosa dover dare le spalle a Masami: in quel modo non avrebbe visto che ero coperto di foglie e fango che cominciava a seccarsi sulla pelle e sui vestiti. «Quindi era una prova di forza contro gli invasori» mormorai, riflettendo ad alta voce. Non era un matrimonio d’amore.
Mi sentii riempito di tristezza. C’era qualcuno che amava veramente in quel Giappone? Il cuore delle persone aveva mai provato un’emozione come quella? Ogni cosa sembrava così arida. Sentii di star cominciando a capire cosa fosse realmente la guerra, una cosa che tutto sommato nel mio tempo non è più tanto facile comprendere se si vive in un paese economicamente agiato e potente. Sì, la guerra era l’inaridimento di ogni cosa riguardasse il cuore: non solo i sentimenti romantici, ma anche l’affetto più semplice o i legami familiari.
E io perché mi interessavo a Masami? Il nostro sarebbe stato un matrimonio identico a quello: Ujie voleva “un unione a doppio filo”, anche noi non eravamo che strumenti o simboli di potere. Come Rie (anche se non mi era ancora chiaro perché o come). Forse mi provavo interesse per lei perché, seppur privato della libertà d’amare anche in quell'epoca, non avevo comunque alcun vincolo come quello del gruppo, delle fan o dell’agenzia. Anche se sarebbe stato per breve tempo, avrei avuto la possibilità di stare con qualcuno senza problemi, avrei potuto prendermi cura di una donna. Ripensando a quanto fosse carina Masami, decisi che avrei fatto del mio meglio per renderle meno amaro quel destino.
«E voi? Vi sposerete presto? Immagino che vostro fratello voglia cominciare ad avere una famiglia propria»
«Sembra di sì» rispose con un filo di voce. Facevo quasi fatica a sentirla a quel punto. «Mio padre cerca di toccare il meno possibile l’argomento, ma non sono così ingenua: so che si sta avvicinando quel momento».
Quindi non l’avevano detto nemmeno a lei. Magra consolazione. Perlomeno lei sapeva che quello era il suo destino. Il mio avrebbe dovuto essere recitare in un film che avrebbe dovuto avere successo e preparare un nuovo tour con il gruppo: non potevo certo immaginare che la prima cosa che mi sarebbe toccata, una volta piombato nell’antico Giappone, sarebbe stato sposarmi!
«Pensavo lo sapeste» aggiunse vedendo che non rispondevo
«In che senso?» domandai aggrottando le sopracciglia
«Nulla» si corresse, poi sentii un frusciare di stoffe. «Dimentico che venite da lontano e questa è una realtà del tutto nuova per voi». Oh, non poteva nemmeno immaginare quanto!
La stanchezza arrivò per entrambi, inoltre non dovevo farmi beccare dal padre mentre stavo lì a chiacchierare: era una cosa del tutto innocua, ma valli a capire ‘sti Giapponesi dell’antichità!
Tornai in camera facendo il giro della casa passando davanti, come già avevo pianificato, e per poco non mi presi un colpo quando vidi qualcuno davanti alla porta della camera. «Toshiaki!» esclamai vedendo che era tutto intirizzito per il freddo. Si era infagottato in una delle nostre coperte, ma non era bastata e sbatteva i denti per i brividi così forte che l’avevo prima sentito e poi visto. «Che ci fai qui?»
«Dov’eri Kazu?» mi chiese con voce tremante. «Avevo freddo, non tornavi più».
Alzai gli occhi a cielo. Avevo sperato che dormisse, di modo da non avere testimoni del mio non-ritorno in camera. «Sai mantenere un segreto?» domandai tirandolo in piedi e aprendo la porta per farlo entrare. Il bambino annuì prima di entrare nel buio della camera. Non avevo nulla per accedere una candela, così dovemmo aspettare che i nostri occhi si abituassero, almeno per riuscire a distinguere il candore delle lenzuola, sufficiente a dirci dove dirigerci. «Sono andato a trovare una donna» gli dissi mentre mi spogliavo. A lui potevo dirlo: pendeva dalle mie labbra e se gli chiedevo di tacere su qualcosa, lo avrebbe fatto senza chiedere il perché.
«Era bella?» mi chiese confuso
«Sì. Stasera indossava un kimono color porpora che le donava molto» commentai lasciando il mio in un angolo: il giorno dopo avrei dovuto farlo sparire rapidamente.
«Come quello di Masami sama stasera a cena?» domandò Toshiaki
«Ah sì, come il suo» ridacchiai divertito: che occhio quel ragazzino.
«Perché ridi?» fece stendendosi e sistemando la coperta che si era portato dietro sulle altre
«Niente, niente. Sai cosa?» domandai, aiutandolo a stendere gli strati che ci avrebbero tenuti al caldo e mettendomi al suo fianco. «Quasi quasi non mi dispiace l’idea di tuo padre di farci sposare» spiegai chiudendo gli occhi.
Il bambino non disse altro, da fuori non arrivava alcun rumore e anche Nagatoshi, nella stanza a fianco, doveva ormai dormire da un pezzo.

Il mattino dopo feci colazione seduto sul legno del camminamento, come ogni mattina. Persino nel piccolo cortile interno della villa c’era un po’ di nebbia. Il freddo era pungente e le poche foglie rimaste sugli alberi mezzi spogli erano imbiancate dalla brina. Detestavo essere arrivato lì in pieno autunno e non essermene andato subito, prima che arrivasse l’inverno, perché senza climatizzatori, jeans pesanti e piumoni si gelava; ma era anche vero che la mattina facevo degli orari tali che, senza quel freddo, nulla mi avrebbe mai svegliato. Quel clima rigido mi schiaffeggiava i sensi che così erano vivi e all’erta fin dal primo momento in cui cacciavo mezzo alluce fuori dai numerosi strati di coperte sotto i quali mi appallottolavo per dormire con Toshiaki.
Finii la ciotola di riso e scolai la zuppa di miso incandescente in un’unica lunga sorsata. Non mi interessava scottarmi un po’ la lingua, ma volevo che mi arrivasse tutto in pancia ancora ben caldo, di modo che trasmettesse un po’ di tepore a tutto il resto del corpo.
Riportai le stoviglie in cucina, cosa che avevo fatto la prima volta per semplice educazione e che ora continuavo a fare per divertimento: era bello vedere le facce spiazzate e stupite dei domestici che fissavano un membro della famiglia entrare in cucina sparecchiando da sé le proprie cose, risparmiando a loro un piccolo lavoro. Sorrisi e mi inchinai ringraziando per la colazione, quindi uscii ridacchiando sotto i baffi.
Nello spiazzo davanti alla villa si stavano già radunando alcuni dei guerrieri. Alcuni venivano dalle stanze al primo piano, altri sgusciavano dalle porticine in legno del muro che circondava la casa. Salutai i miei compagni e individuai Rie in mezzo ad alcuni degli uomini. Chiedevano di vedere il suo pugnale, le ronzavano intorno come api con i fiori, ma lei sembrava essere abituata a stare tra uomini e riusciva a rimanere distaccata senza però sembrare scontrosa, atteggiamento che li avrebbe mal disposti.
Fissandola mi resi conto della differenza abissale che c’era tra lei e Masami. Rie non si poteva nemmeno definire una donna! E nonostante quello, all’improvviso mi ricordai del discorso origliato la sera prima e mi preoccupai all’istante: e se qualcuno di loro fosse stato incaricato di colpirla? Se avessi visto uno di loro avvicinarsi troppo sarei riuscito a fare qualcosa per evitare la tragedia?
Rie mi vide e li salutò annunciando che era arrivato il suo allievo, quindi mi fece segno di lasciare lo spiazzo. Come il giorno prima, ci mettemmo nella striscia di terreno che andava dal camminamento esterno davanti alla mia camera, al muro di cinta della villa. C’erano almeno 4 metri di spazio, quindi erano più che sufficienti per saltellare come una cavalletta impazzita.
«Rie, devo parlarti» le dissi quando ci trovammo da soli e lontani dalle troppe orecchie presenti nello spiazzo
«A dopo le chiacchiere, cominciamo con lo scaldarci. Hai male ai muscoli, vero?» ridacchiò
«Non sono chiacchiere, devi starmi a sentire: non puoi rimanere qui» dovetti insistere.
Con Rie non era una questione di uomini o donne: il punto era che io ero in debito con lei, mi aveva salvato in più di un’occasione ed era sempre stata dalla mia parte, disponibile ad aiutarmi e ad ascoltarmi. Era l’unica alleata su cui potessi fare davvero affidamento, perché fin da subito lei sapeva (o aveva intuito) chi fossi, eppure mi aveva protetto e fatto curare. Ancora dopo tutto quel tempo, era lei ad occuparsi di me: cercava informazioni su come riportarmi a casa, mi allenava quando sarei stato inutile in un allenamento normale e avrebbero potuto sbattermi fuori casa e mi chiamava per nome, quello vero. Solo lei faceva tutto quello per me. Ora dovevo essere io a ricambiare e metterla in guardia.
«Ninomiya! Devo ricordarti che ora l’insegnante sono io? Decido io quando si parla e quando si lavora» rispose alla mia insistenza facendosi seria e parlandomi in tono duro. Durante quelle lezioni evitava di aggiungere il titolo onorifico al mio nome e cambiava totalmente atteggiamento, tracciando una linea ben definita tra “quando sono la tua insegnante e fai come ti dico io” e “quando siamo amici e puoi fare come ti pare”. Avrei voluto tracciare la linea “quando mi stai a sentire perché sono qui per pararti il culo”, ma ammetto che tutta la mia verve e la capacità di impormi perdevano d’efficacia, acciaccato com’ero e con la perenne sensazione di essere fuori posto.
Feci come mi era stato detto e cominciai gli esercizi. Giuro che non mi ero lamentato fino a quel momento. E so che sembra strano per uno come me. Ma quello era veramente troppo! Mi allenai, ma non trattenni nessuna lamentela, nessun mugolio di disperazione, nessuno sbuffo e nessun impreco. Se mi fossi impegnato, almeno avrei fatto bella figura con Ujie, che non avrebbe pensato di dare in sposa la sua unica figlia ad un inutile menestrello, futuro signore di quattro scogli in mezzo al mare. Che alter ego misero che mi ero trovato!
Insomma andai avanti ripensando alla sera prima e alla delicatezza nei modi di Masami. Così dovevano essere le donne dell’epoca: splendide, eleganti e aggraziate. Rie invece era una specie di animale imbizzarrito, lasciato totalmente allo stato brado! Tentavo di distrarmi per non pensare al dolore e alla fatica, ma alcune ore dopo l’inizio egli allenamenti, più o meno verso pranzo, sentimmo i primi rumori.
Ad attirare la nostra attenzione fu il rumore di uno schianto, del legno spezzato con tanta forza da sovrastare le grida di incitamento e i colpi secchi degli allenamenti nello spiazzo davanti alla villa. Poi sentimmo altri schianti simili, ma meno violenti, e rumore di zoccoli. Rie mi posò una mano sulla spalla bloccando il mio allenamento. Mi voltai a guardarla ed ero chiaramente spaventato. Lei si posò l’indice sulle labbra facendomi segno di stare in silenzio, poi nel giro di pochi secondi sparì. No, nessuna magia (anche se ogni tanto mi chiedevo dove fosse, dato che lei mi aveva detto che esisteva): con una breve rincorsa fece due passi sul tronco di un albero vicino, saltò di lato e si aggrappò ad un ramo robusto. Lo usò per dondolarsi due volte, poi con un colpo di reni si diede lo slancio e vi salì sopra. Era un sempreverde, quindi sparì tra gli aghi folti per ricomparire quando, poco più in alto, la vidi fare un salto non indifferente dal ramo al tetto della casa. Non si girò nemmeno a guardarmi e una volta lassù scomparve di corsa. Probabilmente andava a sbirciare sul piazzale dall’alto.
Io una cosa simile non potevo farla, forse avevo abbastanza muscoli, sì, ma mi sarei riaperto le deboli cuciture sulle mani. Decisi di correre rasente il muro di casa e andare a sbirciare, magari da dietro i grossi ginepri che stavano all’angolo, anche se pungevano da morire. Era un piano perfetto, ma feci appena in tempo a fare quattro passi di corsa, poi un individuo a cavallo si sporse dallo spiazzo a guardare quel lato della casa. Aveva i capelli lunghi e il pizzetto curato. Indossava sgargianti abiti colorati e nessuna protezione: non era un guerriero, era un nobile. Rimasi a fissarlo pietrificato, con gli occhi sbarrati mentre un tremito di paura mi scuoteva il corpo intero. Persino da così lontano, mi sembrava di riuscire a percepire la rabbia e il disprezzo che infiammavano il suo sguardo.
«Daitarō Mitsuyoshi sama!» gridarono dal piazzale e lui si distrasse. Doppio nome, quindi era molto nobile. Nel momento in cui smise di guardarmi, ripresi a respirare. Lui tirò le redini del cavallo e si allontanò. «L’abbiamo trovata, Signore!» gli urlavano a gran voce.C'era rumore di lame, ma nessuno dei miei compagni sul piazzale era armato d’acciaio, usavamo solo bambù, quindi i casi erano due: o chi era arrivato stava massacrando tutti, oppure stava combattendo con gli unici armati di tutta la villa in quel momento, ossia il piccolo seguito di Ujie.
Tremavo di paura, fermo nell'erba secca a fissare il punto dove prima stava quell’uomo, poi vidi Toshiaki affacciarsi alla nostra camera aprendo gli shoji.
«Kazu!» mi chiamò con un’espressione spaventata sul visino
«Toshiaki sama! Rientri subito» lo rimproverava la sua insegnante vedendolo sporsi troppo fuori dagli shoji
«Stai dentro» gli dissi gesticolando e cercando di cancellare la paura dalla mia espressione e dalla voce. «Vado a vedere cosa succede e poi torno ad avvisarti. Capito?»
«Sì, va bene» annuì facendosi nuovamente indietro con la testa. Qualsiasi cosa stesse succedendo, se eravamo in pericolo sarei tornato a prendere Toshiaki e lo avrei portato in salvo perché, per quanta paura avessi, non mi sarei mai sognato di lasciare che uccidessero anche quel bambino.
Quel piano mi diede un po’ di coraggio e alla fine feci come avevo pianificato: dopo aver corso lungo il muro mi sporsi a guardare, rimanendo dietro i cespugli di ginepro, e constatai che non eravamo sotto attacco e nessuno si era fatto male. I miei compagni non si stavano più allenando, ma erano sparpagliati lungo il perimetro dello spiazzo, per lasciare libero il passo ad un gruppetto armato e dalle protezioni scintillanti (ogni tanto incrociavano le lame tra loro, solo per fare rumore e sembrare minacciosi, ma nessuno stava combattendo). Le due porte laterali erano state sfondate e il cancello era parzialmente aperto.
«Vi prego, lasciatemi!» sentii gridare. Dalla parte opposta rispetto a me, un terzetto ben armato stava spingendo Masami verso lo spiazzo: erano andati a stanarla nella sua camera.
«Che modi, che modi! Non è così che si tratta una signorina di buona famiglia» fece l’uomo sul cavallo che avevo visto prima. «Vogliate scusarli, sono uomini poco avvezzi ad aver a che fare con signorine d'alto rango come voi» spiegò con voce affabile. Allungò una mano accennandole al cavallo di fianco al suo.
«Si può sapere cosa succede?» Ujie comparve sulla soglia di casa, subito seguito da Morikawa. «Daitarō?» fece sbarrando gli occhi
«Ujie Masamune, buongiorno» salutò l’uomo a cavallo, doveva avere la mia stessa età, eppure fissava un uomo dell’età di Ujie come se avesse avuto davanti un poppante. «Sono arrivate alle mie orecchie delle notizie molto inquietanti» spiegò facendo un gesto ai suoi uomini. Dato che Masami non accennava salire in groppa al cavallo, gli uomini la sollevarono di peso e, nonostante le sue proteste, la issarono sulla sella.
«Quali notizie? E perché trattate così mia figlia?» domandò l’uomo facendosi avanti con cautela. Non potevo esserne sicuro, ma avevo il sospetto che quello appena arrivato fosse uno dei famosi Tokudaiji.
«Mi dicono che state combinando un matrimonio di cui io non sapevo nulla» spiegò riducendo gli occhi a due fessure. Sembrava farlo per contenere l’ira che invece gli faceva tremare la voce. «A mio padre non piace essere preso in giro e a me piace ancora meno, Masamune. Questa donna è promessa a me» specificò alzando il tono della voce sull’ultima sillaba. «C’è un accordo tra le nostre famiglie, non puoi pensare di aggirarlo portando qui in segreto la mia futura sposa per darla ad un altro uomo. Tu non puoi fare questo. No, non puoi: lei è roba mia, l’hai promessa a me» continuò a ribadire a mezza voce, carica di furia tremante. «Quindi sono venuto qui perché sono stufo di aspettare il momento giusto: prima che tu cerchi di fare qualche altro giochetto, ho deciso di venire a prendermela. Masami starà nel mio castello fino al giorno delle nozze che mio padre sceglierà non appena saremo arrivati».
Era il figlio dei Tokudaiji quindi. E lui e Masami erano promessi? Con la tensione che c’era nel paese, possibile che Ujie avesse tentato lo sgarbo di darla a me senza essere più che certo di non essere scoperto? Quella svista da parte di un complottatore come il vecchio Ujie mi colse di sorpresa ben più del realizzare che non mi sarei sposato con la bellissima Masami.
«Non so chi ti abbia detto una cosa simile, ma ti assicuro che non era mia intenzione» Masamune si inchinò profondamente. «Ti prego, lascia mia figlia. Se sei impaziente di celebrare il matrimonio, la porterò io da te, come tradizione, dopo che saremo tornati a casa e avrà potuto salutare un’ultima volta la sua famiglia»
«Mi hai preso per un’idiota? Se la sua famiglia vuole salutarla allora venga al matrimonio, io non tornerò a casa senza di lei lasciando che tu me la porti via» insistette scuotendo il capo.
Masami era sul cavallo e aveva smesso di scalciare. Era immobile a capo chino. Provai una grande pena per lei: effettivamente non aveva senso opporsi per una donna nella sua posizione e in quell’epoca, perchè nessuno avrebbe mai ascoltato la sua opinione. Quello che lei pensava non aveva mai avuto peso, e prima ancora non l’aveva avuto quello che aveva pensato sua madre del proprio matrimonio, o sua nonna. Alle spalle di Masami c'erano generazioni di donne senza voce in capitolo, quindi opporsi non era proprio concepibile dalla sua mente.
«Daitarō, sono qui per combinare un matrimonio, ma non il suo» ammise infine Masamune. Strabuzzai gli occhi: come? E di chi allora? Aveva altre figlie? Oppure non era di me che parlava? Ma no, i Morikawa non nascondevano nessun altro a parte me.
«E cosa è venuto a fare un vostro lontano parente qui?» chiese ancora Daitarō Tokudaiji. spostando lo sguardo su Morikawa Toshiaki
«Mio signore, è figlio di una delle mie sorelle» rispose lui. Ovviamente era molto più ossequioso. Tutto sommato era un sottoposto di Ujie e lo trattava anche abbastanza amichevolmente nonostante il rapporto di subordinazione, forse in nome della loro lunga amicizia. Ma con i Tokudaiji non era la stessa cosa. Erano i conquistatori, gli estranei, gli aguzzini, i signori indiscussi. A loro doveva solo una cosa: rispetto (e un pizzico d'odio, che ai conquistatori piace sempre instillare negli altri). «È qui per allenarsi e diventare un buon guerriero presso la sua famiglia. Non è stato mandato per alcun progetto di matrimonio, né io potrei proporgli qualcuna senza sentire la sua famiglia prima» rispose tenendo il capo chino
«E dove sarebbe costui, sentiamo?» chiese l’uomo guardando i guerrieri nel piazzale
«Sta facendo degli allenamenti speciali, data la sua scarsa preparazione non è ancora in grado di stare al passo con gli altri». Storsi il naso: non era affatto vero! Ma stava coprendo il fatto che mi ero ferito e poi salvato in uno scontro con le guardie di quella stessa odiosa famiglia, quindi potevo quasi perdonarlo. Quasi.
«Beh, allora è la vostra parola contro la mia» concluse Tokudaiji. «E io mi fido molto di me stesso, quindi mi prendo Masami. Verrà preparata al matrimonio da mia madre e sarà un’ottima compagna di giochi per mia sorella».
Feci per alzarmi e andare nel piazzale. Mi sarei inventato una balla qualsiasi, mi sarei finto l’essere più inetto ed inutile dell’universo pur di convincere quel tipo che nessun uomo sano di mente mi avrebbe dato in sposa sua figlia, ma mi sentii strattonare e feci appena in tempo a raddrizzare le gambe per alzarmi che mi ritrovai di nuovo col sedere a terra. «Che vuoi?» sbottai girandomi. Alle mie spalle trovai Toshiaki.
«Non andare. Non servirebbe» scosse il capo preoccupato. Tokudaiji fece un gesto e la sua scorta si fece a lato per proteggere il suo passaggio e quello del cavallo di Masami fino al cancello d’uscita.
«Non ti avevo detto di rimanere in camera?» chiesi spaventato
«Qualcuno ha fatto la spia, mentre a te non ti conosce: si fiderà più che del suo infiltrato che di un altro, no?» ragionò mentre guardavo la partenza della ragazza sentendomi impotente. Non aveva tutti i torti ed era un ragazzo sveglio e intelligente, a quell’epoca si doveva crescere velocemente.
«Hanno detto che non sono io a dovermi sposare. Eppure ero sicuro» borbottai tra me e me fissando le porte sfondate
«Forse il fratellone Toshinori?» suggerì il bambino cercandolo con gli occhi tra gli uomini che tornavano verso il centro dello spiazzo ormai libero.
«No, ho sentito Ujie che parlava a tuo padre di qualcuno che lui stava nascondendo» scossi il capo.
Non c’era motivo di rimanere dietro quel cespuglio, ma non volevo pormi quelle domande da altre parti se non in quell’angolino, perché qualcuno aveva fatto la spia e avevo solo una spiegazione su come fosse successo. Non ero l'unico a sapere che Ujie aveva dei piani nuziali per qualcuno, ovviamente, ma sembrava fossi l'unico a pensare che mi riguardassero. Però non conoscevo i Tokudaiji, quindi non potevo averglielo comunicato io. La spiegazione al disastro capitato quella mattina era che qualcuno aveva origliato quelle quattro parole che avevo detto a Toshiaki la sera prima.
«Ma tu non sei nascosto» mi fece notare Toshiaki. Sì, beh, per quello che ne sapeva lui io non avevo nulla di strano, ma ignorava molte cose sul mio conto, quindi non poteva capire che invece ero nascosto eccome.
Scossi il capo e mi alzai. «Già, che schiocco. Allora chissà di chi parlavano» sospirai facendo finta di dargli retta
«Rie» mi disse rimanendo accucciato a terra
«Chi?» domandai incredulo
«Rie» ripetè girando lo sguardo verso di me. Era triste e non capivo perché.
«Rie è tua sorella, non c’è nulla di segreto» spiegai mettendo le mani sui fianchi. «Andiamo, altrimenti la tua insegnante di preoccuperà»
«Non te ne sei mai accorto?» domandò abbassando lo sguardo. «Rie non mangia a casa. Rie non dorme con noi. Rie non è mai qui e quando lo è non indossa niente di carino. È sempre vestita come uno degli altri guerrieri» cominciò a spiegarmi Toshiaki.
Mi accucciai a terra e gli misi le mani sulle spalle, preoccupato. «Cosa stai dicendo?» domandai con una strana ansia nel cuore
«Papà non parla mai di Rie. Il fratellone Toshinori nemmeno. Il fratellone Nagatoshi neppure. I domestici non fanno nulla per lei» continuò ad elencare. «Rie non esiste nella nostra famiglia»
«Come? Che senso ha? Nessuno sa che ha un'altra sorella? Nessuno sa che Rie è la quartogenita di tuo padre?» feci confuso. Lo fissai sbalordito: ora che mi diceva tutte quelle cose, mi rendevo conto che erano vere. Si era presa cura di me da sola, mi aveva portato la cena da sola, nessuno le aveva mai rivolto la parola in casa e i suoi familiari non avevano praticamente mai fatto cenno a lei. O forse un paio di volte, ma mi sembrava di ricordare che fossimo soli, senza nessuno di esterno alla famiglia ad ascoltare.
«Sono io il quarto» annuì Toshiaki. «Mi hanno raccontato che lei è nata insieme a Nagatoshi. Lo stesso giorno».
Erano gemelli.


Il capitolo è più lungo dei precedenti. Perdonatemi, sto cercando di mantenere una lunghezza simile, ma non c'era modo di tagliare delle parti senza sacrificare qualcosa che io ritenessi importante.
Il mistero si infittisce...

Un grazie va alla dolce WhenItsTime che commenta con intelligenza e attende paziente gli aggiornamenti: a proposito di questo matrimonio hai scritto qualche riga di considerazione sulla sua reazione nell'utlima recensione,ora che ne dici di questo sviluppo? ;) ne vedremo delle belle secondo me! (→ come se non fossi io a scrivere la storia!)

  
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