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Autore: Moonage Daydreamer    09/11/2013    5 recensioni
Ero l'emarginata più emarginata dell'intera Liverpool: fin da quando era bambina, infatti, le altre persone mi tenevano alla larga, i miei coetanei mi escludevano dai loro giochi e persino i professori sembravano preferire avere a che fare con me il meno possibile, come se potessi, in uno scatto di follia, replicare ciò che aveva fatto mia madre.
(PRECEDENTE VERSIONE DELLA STORIA ERA Lucy in the Sky with Diamonds, ALLA QUALE SONO STATE APPORTATE ALCUNE MODIFICHE.)
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Lennon , Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Nowhere Man.


1980.
Rabbrividii, alzando la sciarpa di lana fin sopra il naso arrossato dalla gelida aria invernale.
- Ti invidio, sai. - dissi al cane al mio fianco. - Con quel pelo lungo potresti andare a fare una spedizione in Alaska senza patir freddo. -
Il bobtail alzò la testa e cominciò a scodinzolare. Quando Frency era morto, qualche anno prima, ci aveva prima lasciato una cucciolata, e alla fine Martha era riuscita a convincermi ad adottare uno dei suoi figli.
Il cane mi saltò addosso, festante.
- Sì, Lily, ti voglio bene, ma adesso giù, o finiamo per terra tutte e due. -
Lei abbaiò, ma poi si rassegnò al fatto che quel momento non era adatto alle coccole e mi obbedì.
Percorremmo le vie nebbiose di Londra, ancora quasi deserte a quell’ora del mattino, finché svoltammo in una via; sarebbe stata una normalissima strada cittadina, con i palazzi e i negozi allineati sul bordo del marciapiede, se non fosse stato per un locale, posto quasi al centro della via, le cui serrande ancora abbassate erano dipinte di colori vivaci; sopra di esse c’era un’insegna luminosa che recitava la scritta Neverland a caratteri distorti.
A vederlo lì, incastonato nella normalità degli edifici adiacenti, sembrava un pezzo di anni ’60 sopravvissuto e nascostosi in un luogo sicuro, dove nessuno sarebbe venuto a cercarlo.
Ero davvero orgogliosa del mio negozio. L’avevo aperto quasi otto anni prima, realizzando così il sogno condiviso da me e dal mio compagno, Wesley.

uando ero finalmente riuscita a pubblicare un romanzo, che per un certo periodo aveva avuto un discreto successo, Martha ed io avevamo cominciato a pensare e a discutere l’idea di partire. Mi ero trovata molto bene in Italia, tuttavia non ero mai riuscita a sentirla davvero come casa mia, anche se prima di considerare un trasferimento, avevo voluto accertarmi che per mia figlia non ci sarebbero state conseguenze negative. Alla fine ero tornata in Inghilterra, ma non a Liverpool, bensì a Londra. Anche Elisabeth e James si erano trasferiti già da qualche anno nella capitale, così avevano avuto l’occasione di intensificare i rapporti con la loro nipotina.
Dopo un anno avevamo deciso di passare l’estate girando per l’Europa, e io avevo insistito affinché venisse anche la mia mamma adottiva, poiché aveva sempre sperato di riuscire a vedere la Francia e volevo che finalmente realizzasse quel sogno, condividendolo con me e con Martha, mentre James aveva preferito lasciarci fare quel “viaggio tra ragazze”.
Dopo tre settimane passate tra Normandia, Parigi e Provenza, ci eravamo spostate ad Amsterdam, dove, per un caso fortunato, avevo incontrato Wesley.
Era successo durante uno dei primi giorni dopo il nostro arrivo; dopo una giornata di pioggia torrenziale, passata chiuse nell’albergo, solamente verso sera aveva cominciato a schiarirsi; non ne potevo più di stare al chiuso, così, essendo troppo tardi per far uscire anche Martha, avevo lasciato mia figlia in compagnia di Elisabeth, che le aveva promesso di raccontarle tutte le fiabe di Perrault, ed ero uscita un po’ per conto mio.
Avevo vagato senza meta per un po’, osservando la città, con le case dalle silhouette slanciate allineate lungo i canali, su cui si riflettevano le luci dei lampioni. Ero appena giunta in una piazza sulla quale si affacciavano numerosi caffè con i tavolini di ferro battuto quando aveva ripreso a piovere. Seguendo il mio istinto, che come sempre mi stava dicendo “Se non sai come uscire da una situazione difficile, entra in una libreria e troverai la soluzione!”, mi ero rifugiata nel primo negozio adatto che ero riuscita a trovare.
Si trattava di una libreria piccola, con gli scaffali alti fino al soffitto e il pavimento di legno, un’aria accogliente profumata di inchiostro e carta. Avevo cominciato a guardarmi intorno, pur sapendo che non avrei mai potuto capire una sola parola di qualunque libro, accarezzando con le dita il dorso dei volumi. Alla fine, quando trovai “Urlo” di Allen Ginsberg con il testo in lingua originale a fronte, non resistetti alla tentazione e cominciai a sfogliarlo, articolando senza produrre alcun suono i miei passi preferiti. Persa nella mia contemplazione, non mi ero accorta di aver destato la curiosità di un altro cliente della libreria.
- E’ davvero strano trovare qualcuno che legga Ginsberg da queste parti, e soprattutto che lo faccia in lingua originale. - aveva detto.
Ridestandomi di colpo da quella specie di trance in cui ero caduta, avevo alzato lo sguardo e mi ero ritrovata davanti un giovane uomo alto e slanciato, dai capelli talmente biondi da sembrare quasi tinti e gli occhi azzurri, dai quali traspariva un’espressione estremamente gentile. Parlando con lui, quella sera in libreria e anche in seguito, avevo appreso che Wesley era uno scrittore e un poeta.
E le tre settimane che avremmo dovuto passare in Olanda erano diventate mesi, e infine i mesi erano diventati anni.
Avevamo avuto un figlio insieme, Jaime, che ora aveva sette anni, avevamo aperto Neverland, e vivevamo felicemente insieme da quasi dieci anni, anche se non ci eravamo mai sposati.

Neverland era un negozio piuttosto strano, tanto che non si sarebbe potuto definire in modo esatto. Era una sorta di ibrido fra un caffè, una libreria, un negozio di dischi e uno di articoli musicali, ed era articolato in più ambienti, ciascuno dei quali, pur essendo simile agli altri, aveva una funzione diversa. Il primo di essi, dal quale si entrava, era caratterizzato da un bancone e alcuni tavolini di legno chiaro; sulle pareti c’erano alcune mensole dello stesso materiale su cui erano appoggiati dei libri dalle copertine colorate, mentre i muri erano dipinti a volute e spirali multicolori. C’erano due archi, su due pareti opposte, ciascuno dei quali permetteva l’accesso a una stanza; una delle due aveva il pavimento coperto con un tappeto su cui erano appoggiati numerosi cuscini dalle dimensioni e disegni diversi, mentre le librerie addossate contro le pareti erano intervallate da bassi e chitarre elettriche e scaffali con sopra dei dischi, oltre che da vari poster di gruppi rock e da quadri psichedelici. In un angolo dell’ambiente, di fronte a una finestra c’era persino una batteria. Infine, nell’ultima stanza troneggiavano due divanetti, posti di fronte ad un caminetto che era lì più per bellezza che per altro, sopra il quale era appesa una bellissima Martin. Se si escludeva quella chitarra, per il resto gli altri lati della stanza erano completamente rivestiti di librerie che arrivavano fino al soffitto; dal lato opposto rispetto ai divanetti, invece, c’erano due cavalletti da pittore con appoggiate delle tele bianche, in mezzo ai quali c’era il tavolino su cui erano appoggiati pennelli e colori dentro barattoli di vetro colorato.
L’intento mio e di Wesley era stato quello di creare un luogo di ritrovo per i giovani, dove questi potessero confrontare le proprie idee artistiche, parlare di musica e letterature, ascoltando dischi o sfogliando libri, senza dover necessariamente comprare qualcosa. Neverland era una sorta di oasi artistica, che a una prima occhiata sembrava troppo caotica e psichedelica, ma una volta che ci si abituava, diventava un rifugio le cui porte erano aperte a tutti. Io lo sentivo come una seconda casa, ed era per quello che ci passavo più tempo possibile, arrivandovi molto prima dell’apertura e uscendone il più tardi possibile.
Quando entrai accesi le luci e sganciai il guinzaglio di Lily, la quale subito, come il suo solito, andò a sdraiarsi sui cuscini della stanza adiacente.
- Quelli veramente sarebbero per i clienti. - borbottai mentre lanciavo le chiavi del negozio in un cestino di vimini sul bancone.
Feci un caffè così come avevo imparato in Italia, perché non ero mai più riuscita a bere quella schifezza che propinavano nei Paesi anglofoni, poi cominciai a spolverare le stanze e a mettere in ordine i due scatoloni di libri che erano arrivati il giorno prima.
Quando sentii i campanelli attaccati alla maniglia della porta tintinnare andai subito a vedere chi fosse, perché era ancora presto e il negozio non era ancora presto, ma non appena Lily si alzò dai cuscini abbaiando e scodinzolando come una pazza intuii di chi si trattasse.
- Ehi, Wes, non ti aspettavo! - esclamai andando ad abbracciarlo, poi gli diedi un bacio.
- Ti ho fatto una sorpresa. - rispose il mio compagno sorridendo. - Ma se vuoi me ne vado e ritorno oggi pomeriggio come da programma. -
Alzai gli occhi al cielo e scrollai le spalle:- Martha e Jaime sono andati a scuola?-
L’olandese annuì:- Serve una mano in qualcosa?-
- No, ho appena finito di sistemare i libri appena arrivati. - risposi. - Perciò il tuo intento di arrivare qui al momento giusto per evitare tutta la fatica è assolutamente riuscito. -
Lui ridacchiò: - Mi farò perdonare.-
- Questo è tutto da vedere. - replicai prendendolo in giro. - Cambiando argomento, come procede il tuo romanzo? -
- Bene, è quasi terminato. - mi informò lui sorridendo.
- Meno male, perché se il tuo agente telefona ancora una volta sul numero di casa, giuro che mi sente. -
Wesley mi cinse i fianchi e mi diede un bacio sul collo:- Lo avvertirò di guardarsi le spalle, d’ora in poi. -
Il mio compagno andò a dare un’occhiata ai libri nuovi, e io pensai di mettere su un po’ di musica, ma poiché quella mattina non riuscivo a scegliere alcun disco, decisi di accendere la radio.
La prima stazione che fu ricevuta sembrava quella di un notiziario, così feci per cambiarla, ma, poi, improvvisamente, distinsi delle parole che mi bloccarono sul colpo.

- ... e così è stato confermato il decesso di John Lennon, il quale, ieri sera ... -

Non sentii il resto della frase. In effetti, non riuscivo a sentire, né percepire, né distinguere alcunché.
Ero lì, perfettamente immobile, ghiacciata in quella posizione senza poter muovere in muscolo. Cominciai persino a dubitare di averne ancora, di muscoli.
- Anna, stai bene? - udii Wesley, ma sembrava lontano, come se io fossi stata prigioniera di una bolla che ovattava tutti i suoni.
Il mio compagno mi guardò apprensivo e si mise in ascolto nel notiziario, che evidentemente dovette chiarirgli che cosa fosse successo, perché lo sentii vagamente sfiorarmi la mano e poi abbracciarmi.
- Mi dispiace. - sussurrò.
Se fossi stata ancora quella ragazzina di Liverpool che ero tanti anni prima, avrei cominciato ad urlare, a sottrarmi alla sua stretta, a dire che non era vero, che non poteva dispiacergli, che mi stava mentendo, e che anche la radio mentiva perché John, John non poteva essere morto.
E invece rimasi ferma, senza provare rabbia, e nemmeno dolore.
Solamente vuoto.
Un enorme, indefinito senso di vuoto che aveva risucchiato l’aria dai miei polmoni e i pensieri dalla mia testa.
Passò un tempo indeterminato prima che riuscissi ad articolare dei movimenti.
- Io... ho bisogno di una boccata d’aria. - gemetti. Wes lasciò la presa intorno alle mie spalle.
- Vuoi che venga con te? - si offrì.
- No. - risposi. - Ho bisogno di stare un po’ da sola. -
Lui annuì, ma continuò a rivolgermi uno sguardo preoccupato mentre mi accingevo a uscire dal negozio.
- Ti amo, Anna. - disse appena prima che varcassi la soglia.
Io non gli risposi “anche io ti amo”. Mi sarei fatta troppo schifo se l’avessi fatto.
Cominciai a camminare in silenzio, lungo le vie ammantate di nebbia, come se anche la città avesse voluto indossare il velo del lutto.
Il tempo rispecchiava esattamente il modo in cui mi sentivo. Vagavo confusa, senza curarmi di dove stessi andando, guardando i pezzi di marciapiede che si svelavano dopo ogni mio passo e subito venivano inghiottiti dalla caligine.
Portai una mano a coprirmi la bocca.
John era morto.
Erano passati anni dall’ultima volta che ci eravamo parlati, quando ci eravamo incontrati davanti agli studi di Abbey Road, e tuttavia c’era una parte di me che credeva che non se ne sarebbe mai andato del tutto dalla mia vita. Era quella parte che adesso sanguinava e agonizzava, relegata in un angolo della mia mente, la quale cercava in tutti modi di velocizzarle il trapasso, così che tacesse.
Perché ora John se n’era andato, era partito per un viaggio dal quale non sarebbe più tornato.
Senza nemmeno accorgermene, mi ritrovai tra gli alberi familiari di Hyde Park. Percorsi i viali a testa bassa, stropicciando gli occhi che bruciavano senza trovare sollievo. Non mi accorsi che c’era qualcun altro che camminava nel parco, altrettanto velocemente, altrettanto a testa bassa, finché non ci urtammo a vicenda.
- Mi scusi, signore, non l’avevo vista...- farfugliai, ma mi interruppi quando alzai lo sguardo.
Di fronte a me c’era un volto pallido e tirato; i tratti erano incavati e segnati, gli occhi arrossati e lividi, come se non avessero trovato pace per molto tempo.
E nonostante questo, li riconobbi.
- Paul?- sussurrai, forse temendo che se avessi parlato con un tono troppo alto, lui si sarebbe spaventato e sarebbe fuggito.
L’uomo ebbe un moto di sorpresa quando a sua volta mi identificò.
- Anna... - si limitò a mormorare in risposta.
Ci guardammo negli occhi per una manciata di minuti, i suoi, sbiaditi, nei miei, altrettanto stravolti.
E poi, finalmente, giunsero le lacrime. Cominciarono a scorrere con la stessa violenza di un fiume in piena che rompe la diga che lo sbarra, scesero lungo le guance e mi finirono nella bocca, che si riempì del loro sapore di sale.
Anche Paul era in lacrime; ci abbracciammo, e io nascosi il volto contro il suo collo, singhiozzando.
Il mondo intero sarebbe stato in lutto, quello era certo. Ma tutti avrebbero pianto Lennon, e avrebbero sentito la mancanza del suo carisma, della sua musica e dei suoi ideali.
E poi c’eravamo Paul ed io, abbracciati al centro di Hyde Park,lui che piangeva il suo migliore amico, ed io l’uomo che avevo amato più di ogni altro.
Piangevamo John, il nostro John, mentre cominciavamo a capire che quello non era uno dei suoi soliti scherzi.
No, invece lo era davvero, uno scherzo, ed era quello che gli era riuscito meglio.
A quell’idea un malinconico sorriso mi incurvò gli angoli della bocca, ed ebbi l’impressione che anche Paul avesse pensato la stessa cosa.
Socchiusi gli occhi; io e Paul non eravamo più nel parco.
Intorno a noi erano comparse molte persone, persone che conoscevo.
C’erano Pete Shotton, Rod Davis e tutti i membri dei vecchi Quarrymen, c’era Pete Best e c’era Cyn; Astrid e Stu si tenevano per mano, mentre Klaus mi salutava con la mano accanto a Ringo e a George.
Mi sciolsi dall’abbraccio di Paul, ma continuai a tenerlo per mano, chiedendomi se anche lui condividesse quella visione, o se essa fosse un delirio solamente mio.
Non feci in tempo a darmi una risposta, perché guardando in avanti lo vidi, con la giacca di pelle e i capelli tirati su come quando eravamo in Germania.

John era lì, proprio di fronte a me.
E sorrideva.
He’s a real nowhere man,
sitting in his nowhere land,
making all his nowhere plans for nobody.
(The Beatles, Nowhere Man.)


_______________________________________

Eccoci qui, dunque, siamo arrivati alla fine.
Sembra impossibile, davvero, non riesco a capacitarmene.
E’ passato ben più di un anno da quando ho pensato “ma sì, dai, perché non fare una storia sui Beatles?”, è stato un processo lungo, e spesso faticoso, perché tra impegni scolastici, computer poco collaborativi e grane familiari ci sono state delle volte in cui credevo di non riuscire ad arrivare al termine, di lasciare la storia a metà come tante altre che ho cominciato a scrivere.
E invece ce l’ho fatta, anzi, ce l’abbiamo fatta, perché è stato soprattutto grazie al vostro sostegno e ai vostri incoraggiamenti che sono riuscita a passare i momenti di blocco creativo.


Weasleywalrus93: se vuoi ti mando per messaggio il mio indirizzo, così puoi venire in tutta comodità e uccidermi; però, purtroppo, era ora di finirla, questa storia, altrimenti si sarebbe protratta troppo a lungo, e sarebbe peggiorata. Certo, avrei potuto farla finire bene, ma boh, sentivo che era così che doveva finire. (Non mi odi, vero? Ti preeego, dimmi di no.)

Cagiu_Dida: come al solito non posso fare che ringraziarti! Il fatto che dopo tutti questi capitoli continui a pensare che non sia noiosa è uno dei motivi che mi ha spinto a scriverla. Vorrei dirti di più, ma ormai avrai capito che sono una frana con le risposte, quindi... scusa!

JennyWren: figurati, io adoro il nonsense (praticamente il mio cervello è il manifesto del nonsense), e la tua recensione mi ha fatto davvero piacere. Scrivendo lo scorso capitolo avevo il timore che fosse un po’ troppo fluff (ma in realtà era tutto per prepararvi alla botta di questo - non è vero, ma fa figo sembrare diabolici, di questi tempi-) e sono davvero, davvero felice che ti sia piaciuto.


Ringrazio StreetsOfLove, BohemianScarmouche, Melpomene Black, Jane across the universe, CheccaWeasley, Cherry Blues, Axe Vikernes, otrop, binsane, BibiGreenEyes, EggWomen, weasleywalrus93, Nice_, Quella che ama i Beatles, parabatears, Meli123T, SlowDownLiz, saradepp, _mclennon_, Cagiu_Dida, JennyWren, Judee per le recensioni che mi hanno lasciato, che hanno riempito di gioia e soddisfazione anche le giornate più depresse.
Un ringraziamento particolare a Youcanbemyhero, che è stata la mia consulente durante tutto il percorso, dall’ideazione della prima parola all’ultimo punto di questo capitolo.
Infine, un grosso, gigantesco grazie a tutti i lettori, che hanno seguito la storia per intero, o anche solo per una parte: grazie, grazie, grazie!

Ora non mi resta che salutarvi, per l'ultima volta nello spazio autrice di questa storia, e darvi appuntamento alla prossima! ;P

Peace n Love,
Meg.


PS. (Mi mancherete, ragazzi/e!!!!!!!!!!!)
  
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