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Autore: Val_Ser    12/11/2013    6 recensioni
Sicilia, fine novembre, un paese non precisato, a metà tra gli anni '70 e '80.
Marianna è un'anima inquieta, arraggiata. Anita viene da Milano, ha gli occhi "giusti" come il mare. Tra di loro, profumo di arance.
«È per me» rispose allora Marianna, stringendosi le gambe al petto. «È ca sugnu tinta.»
Anita sembrò ricercare per un attimo il significato della parola ‘tinta’. Quando lo ricordò, le si avvicinò un poco. «E perché?»
«Perché, perché…» mormorò Marianna, abbassando la testa. I capelli scuri, mossi, le scivolarono sulla fronte. «Perché non sono come te.»
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Il profumo delle arance

            Il profumo d’arance non era solo una caratteristica letteraria dei racconti di chi veniva in Sicilia e poi se ne dimenticava, lasciando agli agrumi il dovere di riportare alla mente quel triangolo di terra polverosa al centro del Mediterraneo.
            Gli aranceti erano dovunque, fiorivano in primavera e verso ottobre cominciavano a spuntare i frutti, dapprima verdi, poi maculati di chiaro, infine tondi, profumati, caldi degli ultimi raggi autunnali. Marianna amava quel profumo. Entrava nelle narici in maniera prepotente e, quando sbucciava un’arancia, il suo odore si attaccava alle dita e se ne andava solo dopo molte strigliate col sapone.
            Quella sera, a Marianna non importava. A nessuno importava. Era la sera della sagra, alla fine di novembre. Tutto il paese era in piazza, le donne mostravano le gonne più belle e i ragazzi invitavano le sue coetanee a ballare. Lei, però, non ne voleva sapere di ballare. Lo sapeva, poi, che alla fine sarebbero andati a turno nella caletta vicino casa sua, a baciarsi e fare l’amore. A Marianna non interessava.
            «Guarda ca nascisti fimmina(1), Marià» gli diceva Tommaso, suo fratello. Marianna ci rispondeva che sì, era nata fimmina, ma non arrusa(2). La maggior parte delle ragazze del paese erano già sposate, le altre gettavano sguardi languidi ai ragazzi. Si erano innamorate, dicevano talvolta. Marianna non ci credeva più di tanto ma, anche se fosse stato vero, non voleva sposarsi e poi restare a casa ad annacari i picciriddi(3). Di uomini, di bambini, non voleva saperne niente.
            Se eri una ragazza, era logico che dovevi sposarti, che dovevi stare a casa e permetterti, come massimo divertimento, una sagra di paese o il ricamo. Di studiare, viaggiare per il mondo, vivere come nei film americani che proiettavano nei cinema, nemmeno se ne parlava. Sia per lo stesso motivo di essere nata donna, sia perché non le interessava. Non sapeva cosa voleva, Marianna, ma lo voleva presto.
            «Marianna, guarda a quella!» Rosetta, la sua amica, si sedette accanto a lei sulla panca, sotto un lampione, indicando una ragazza bionda che ballava con Tanu Jacono.
            Marianna le gettò uno sguardo annoiato. Almeno lei sembrava divertirsi. «E quindi, Ro’?»
            «Ma come, non ti ricordi? È Anita, la nipote di Franco Calandra, quello della banca!» Rosetta si strinse a Marianna, sussurrandole in un orecchio: «Suo padre si fece a fuiuta(4) con sua madre e se ne scappò a Milano. T’immagini? Gente proprio china china i picciuli(5)!»
            «Ro’, ma che mi dici?» Marianna sbuffò, alzando le spalle. «Ti pare a te che è il primo che ha i picciuli e se ne scappa da qui?»
            «Mi’(6), non ti si può dire niente!» Rosetta la pizzicò su un braccio, ridendo. «Forse una fuiuita ti farebbe bene.»
            Marianna si lasciò scappare un sorriso. «Se’, e con chi?»
            Rosetta alzò le spalle. «C’è Turi Jacono che ti guarda sempre in modo strano.»
            Marianna si irrigidì, guardando l’amica con gli occhi spalancati. «Ma vai strammiando(7), Rose’? Turi Jacono, se’!»
            «Beddu picciotto(8)» commentò Rosetta sottovoce.
            «Pi tia su’ tutti beddi(9)!»
            Rosetta, infastidita, si alzò e tornò a ballare al centro della piazza. Marianna scosse la testa. Rosetta proprio non capiva. In un paio d’anni sarebbe stata sposata e avrebbe vissuto la vita di cui Marianna aveva già la nausea, senza averne vissuto neanche un solo giorno.
            Anita Calandra, poi. Rosetta sapeva tutto di tutti, ne sapeva pure di questa Anita Calandra. Marianna la intercettò nella folla e la osservò attentamente. Aveva un vestito a fiori corto, anche troppo, ma i ragazzi sembravano apprezzare. “Sono tutti bravi, certo” pensò Marianna, “vogliono la sdisanurata(10) per ballare, e poi si sposano la santa.”
            Marianna guardava Anita. Milano, chissà come doveva essere. Anche se era una ‘continentale’, sembrava trovarsi bene, lì in mezzo. Ballava senza sosta, ma anche –dovette concederglielo– in maniera allegra e dolce. Pareva una bimba alla propria festa di compleanno. Marianna la invidiò molto, in quel momento. Probabilmente avrebbe passato la vita ad invidiare le Anita Calandra, mentre lei rimaneva una Marianna Spataro e basta.
            Quel pensiero la sommerse, come un’onda violenta in una tempesta invernale, e per un momento rimase seduta, ferma nel proprio istante, senza riuscire a fare altro che ricacciare indietro le lacrime.
            Quando alzò lo sguardo, Anita la stava guardando. Continuava a ballare con un ragazzo, ma la fissava, corrucciando appena le sopracciglia.
            “E ora che schifiu ci talii(11)?”
            Avrebbe volentieri sfogato la sua rabbia su di lei. Senza un motivo particolare. Era bella, era una gioia vederla e probabilmente non aveva mai avuto un dubbio nella sua vita, mai. Andassero a quel paese, le Anita Calandra del mondo.
            Marianna si alzò, lasciando i suoi genitori a parlare e bere vino con gli altri adulti e suo fratello a stringere per i fianchi una ragazza più grande. Si allontanò dalla musica, dalle luci gialle che proiettavano ombre sui tetti azzurri. Camminò, accelerò il passò, si ritrovò a correre. Non c’era nessuno per le strade, se non lei.
            Si ritrovò seduta in un vicolo, a piangere e tormentarsi le mani. Marianna voleva scappare e portare con sé il profumo d’arance. Realizzò, in quel momento, che non sarebbe mai stata felice lì, in quel paesino desolato dove la sagra era la massima attrattiva. Però, non voleva andarsene. Voleva che le capitasse qualcosa, qualcosa di bello. Forse aveva ragione Rosetta: altro che fuiuta, una futtuta(12) e tutti i pensieri sarebbero passati. Ma a lei non si avvicinava quasi nessuno, perché era troppo silenziosa, rinchiusa in se stessa.
            «Stai bene?»
            Marianna alzò lo sguardo. Non aveva sentito arrivare nessuno. Anita stava in piedi davanti a lei. «E tu che vuoi?»
            Anita indietreggiò appena, sentendo il suo tono minaccioso. «Tieni.» Si slacciò il foulard che le cingeva la vita e glielo porse. «Ho solo questo.»
            Marianna la guardò, mutriata(13), voltando il capo. «T’u po’ teniri(14).»
            Anita storse le labbra, annodandosi in vita il foulard. Marianna sembrava immobile, intenta a guardare un punto imprecisato nel buio.
            «È successo qualcosa?» chiese ancora Anita.
            Marianna si voltò, seccata. Ma perché stava perdendo ancora tempo? Stava per dirle qualcosa, quando Anita si sedette davanti a lei. Il vicolo era abbastanza stretto da permetterle di appoggiare le spalle al muro dirimpetto e rimanere comunque ad una distanza ravvicinata.
            «Ho visto che mi guardavi e sei scappata» cominciò Anita. «Non so, pensavo ci fosse qualcosa che non andasse.»
            Marianna sorrise appena. Non per la sua premura, ma per il suo modo di parlare. L’accento lombardo si sentiva, eccome. Che ci faceva, lì, quella ragazza così diversa da lei, da tutti loro? «Parli strano.»
            Anita sollevò le sopracciglia. «Anche tu parli strano.»
            Si guardarono entrambe per un attimo, poi risero. La cattiveria interiore di Marianna spinse contro quella risata, costringendola a tacere e chiudersi di nuovo nel suo mutismo. Anita, però, sembrava volerla avere vinta.
            «È per un ragazzo?» chiese ancora.
            «No.»
            «Avanti, me lo puoi dire, tanto non ti conosco.»
            «Eh, appunto!» Marianna la guardò. Era davvero bella. I capelli biondi non erano troppo chiari. Le ricadevano, lunghi e lisci, intorno al collo e sulle spalle, arrivavano quasi fino alla vita. Il suo viso era luminoso e interamente concentrato su di lei. Notò in quel momento i suoi occhi chiari, lucenti. Sembravano il mare a luglio, dove l’acqua non è né troppo bassa né troppo alta. Non trasparenti, né profondi. Solo “giusti”.
            «È per me» rispose allora Marianna, stringendosi le gambe al petto. «È ca sugnu tinta(15).»
            Anita sembrò ricercare per un attimo il significato della parola ‘tinta’. Quando lo ricordò, le si avvicinò un poco. «E perché?»
            «Perché, perché…» mormorò Marianna, abbassando la testa. I capelli scuri, mossi, le scivolarono sulla fronte. «Perché non sono come te.»
            Anita rimase in silenzio, guardando per terra. «Ma, scusa, che vuoi dire?»
            «Ma ti taliasti ‘o specchio(16)? Non sono bella, non so fare niente, sugnu tinta, e basta.»
            «E chi lo dice?» Anita le posò una mano sulle ginocchia. Marianna alzò lo sguardo a quel contatto. Aveva le mani fredde. «E poi neanche tu mi conosci, che ne sai se anche io non sono “tinta”?»
            Marianna rise. Rise per quella frase senza senso e per il suo modo di parlare in siciliano. Era buffa. E tenera. Anita rise con lei, spontaneamente, forse senza intuire le sue reali ragioni.
            «Senti, io non so perché sei arrabbiata, però, se vuoi, possiamo migliorare la serata» Anita si alzò, offrendole una mano. Marianna la guardò, diffidente.
            «Che vuoi fare?»
            «Tu vieni con me.»
            Marianna le prese la mano. Sentì un brivido a quel contatto. Si alzò. Anita non la lasciò, ma la portò con sé. E certo che non era tinta, lei, era così gentile. La rabbia di Marianna, dentro di lei, gridava. Le diceva di darle una spinta, di mandarla a fare in culo e di andarsene. Non la conosceva nemmeno, che erano tutti quei discorsi?
            Anita sembrava non accorgersi di niente, o forse ignorava le emozioni che le passavano sul volto. Attraversò vicoli, aprì un cancelletto, scalarono una montagnetta d’argilla.
            «Ma dove stiamo andando?» chiese Marianna. Non era mai stata lì. Era il punto più in alto della scogliera, da dove si poteva vedere tutto il paese. Era alta, ma non troppo distante da casa.
            «Qui.» Anita si fermò sotto un albero, quasi a ridosso sul precipizio. Era un albero di arance. Il profumo stordì Marianna per un attimo. Era una coincidenza talmente strana che per un momento dimenticò i brutti pensieri. Si sedettero entrambe, sui sassi e sull’erba.
            «Non ti scanti(17) che qualcuno ci venga a cercare?» chiese Marianna, chiudendo gli occhi.
            «E perché? Andranno avanti per ore» rispose con leggerezza Anita.
            Marianna sorrise, assaporando quella sensazione nuova. Una ragazza praticamente sconosciuta, il frastuono della musica che giungeva lontano, il rumore cadenzato del mare sotto di lei. Era bello, stare lì. Non sembrava neanche novembre. Era una piccola esplosione di felicità.
            Ma non durò molto. Marianna si tirò a sedere. Guardò Anita, che osservava serena l’orizzonte. Quella sua tranquillità la infastidì, le smosse qualcosa dentro.
            «Senti, ma che vuoi?»
            Anita si girò verso di lei. «Voglio cosa?»
            «Dimmelo tu.» Marianna la stava sfidando. Era una cosa sua, era per questo che era tinta. Non riusciva ad essere graziosa ed educata se non era un’imposizione.
            Anita si distese vicino a lei, trascinandola con sé, gentilmente. «Non mi hai detto come ti chiami.»
            Marianna batté le palpebre, stupita. Le disse il suo nome.
            «Marianna.» Anita scandì il suo nome, senza rafforzare la erre, come facevano tutti in paese, terminando leggera sulla a. Era un bel modo di pronunciarlo. «Io sono Anita.» Marianna lo sapeva, ma non lo disse. Era proprio perché lei era Anita che si trovavano là, in quel momento. «Che cosa è successo stasera?»
            Marianna non lo sapeva. Sospirò. «È che sono così» rispose dopo un po’. «Non mi va bene niente, e non so cosa voglio. Sugnu arraggiata(18).»
            «È giusto essere arrabbiati, di tanto in tanto» rispose Anita a bassa voce. Aveva le mani strette al petto e ne avvicinò una verso quelle di Marianna, abbandonate sopra la testa. «Ma perché lo sei verso te stessa?»
            Marianna sentì la mano di Anita cercare le sue dita. Si ritrasse appena, ma la lasciò fare. Era strano. Con Rosetta non era mai capitato. E sì che con lei non si vedevano poi tanto spesso, ma quello era strano vero. 
            «Ancora?» chiese in un soffio. «È così, punto.»
            Anita abbassò lo sguardo. Sembrava amareggiata. Marianna si sentì immediatamente in colpa. Era stata cattiva, e Anita sembrava dolce, non era giusto verso di lei.      
            «Anita» la chiamò. Era strano anche pronunciare il suo nome. Era strano essere lì con lei. «Scusa.»
            Anita non rispose. Rimase a guardare il terreno, senza muovere un muscolo. Sembrava una statua di marmo, scolpita da qualche grande maestro. Marianna una volta ne aveva vista una simile nella parrocchia: era una Vergine dormiente e a lei era piaciuta moltissimo.
            «Io le capisco queste cose» disse Anita. La sua voce era così flebile che Marianna dovette avvicinarsi per udirla meglio. «Lo so che non ti conosco e tu non conosci me, ma lo capisco.» Sospirò. Sembrava voler dire qualcosa di segreto, di inesprimibile, e Marianna capì.
            «E poi?»
            «E poi di notte mi sveglio, di tanto in tanto, e piango. Piango senza motivo. Piango perché mi mancano i miei parenti qui e vorrei in qualche modo fare parte di tutto questo.» Anita strinse le labbra e guardò Marianna, in attesa di una qualche approvazione.
            «Tu vuoi venirtene qui? Ma Milano non ti piace?» A Marianna sembrava impossibile che qualcuno desiderasse vivere lì, dove stava lei.
            «Mi piace ma è diversa. È fredda. È tutto distante. Qui siete diversi.»
            Rimasero in silenzio per un po’. «E tu?» chiese Anita. «Tu vuoi andartene?»
            Marianna alzò le spalle, stringendole automaticamente la mano. «Chi sacciu(19). È tutto qua, per me. Capisci, è tutto qua. E non so se va bene o no.»
            Anita sorrise. «Non ti piace stare qui?»
            Marianna scosse il capo. «È che qui ci sono solo l’occhi pi chianciri(20). E poi che devo fare? Sposarmi, fare figli, e tutto qui, agneddu e sucu e finìu u vattìu(21).»
            Anita sorrise di nuovo. Marianna la guardò, senza capire. Per lei, la situazione era tragica. Una vita finita ancor prima di cominciare, mentre l’altra sicuramente andava a scuola, aveva il suo chiffari(22), si sarebbe sposata con un uomo bello come il sole e che magari pure ci piaceva.
            «Non vuoi fare nulla di tutto questo?» chiese Anita in un sussurro, avvicinandosi appena a lei. Marianna sentì un brivido strano. Non provò neanche ad allontanarsi. Era così vicina che poteva sentire il suo respiro. Che stava facendo? Era  troppo, troppo vicina e non sapeva se la cosa le desse fastidio o meno.
            «No» rispose Marianna, a fil di voce. Tremava un poco. Si portò le braccia sul petto, stringendosi appena. «Queste cose non le voglio fare.»
            «E questo lo vuoi fare?»
            Anita si sporse verso di lei, posando delicatamente le labbra sulla sua guancia. Marianna bruciò. Era notte, ma bruciò come un falò estivo. La sua carne si irrigidì, si lasciò andare, si consumò a quel contatto. Aveva gli occhi spalancati.
            «Ma che fai?»
            Anita si ritrasse. La guardò con occhi vacui. «Scusa. Io… scusami.»
            Marianna sentiva la guancia rovente. Le prese la mano di scatto. Non capiva quello che stava succedendo, ma sembrava, in qualche modo, bello. «Aspe’, calmati.»
            Si guardarono a lungo. Marianna la osservò per la prima, vera volta. Come poteva essere così bella, accussì nica(23) da farla perdere nel suo viso? Era normale? Era qualcosa di giusto? O era tinto pure quello?
            “Va fatti u bagnu, Marià(24)” disse a se stessa.
            Marianna si mosse rapidamente. Sotto l’albero di arancio, si mise a cavalcioni sopra di lei, cogliendola di sorpresa. Le loro gonne si sfiorarono. «Anita» sussurrò. «Ma questa cosa che è?»
            Anita sorrise, improvvisamente timida. «Una cosa bella.»
            Anita le sfiorò i capelli con una mano, attirandola verso di lei. Allora le baciò le labbra, dischiudendole con le proprie, accarezzandone i bordi con le dita. Si baciarono a lungo, lentamente, fino a che i loro corpi non aderirono l’uno con l’altro. Marianna non capiva, e ne era felice.
            Per una volta, le pareva di stare facendo la cosa giusta.
            Man mano che andavano avanti, sembrava che tutto il mondo intorno a loro girasse. Anita era bella, e faceva sentire bella anche lei. Glielo disse.
            «Sei bella, Marianna» sussurrò Anita.
            «E tu si’ bedda(25)» rispose  Marianna, baciandole i capelli.
            Rotolarono sul terreno polveroso. Le loro mani si incastravano nelle curve dei loro corpi. Era un incrocio di sguardi, tocchi lievi e baci incantevoli. La sagra continuava, poco distante, ma loro erano lontane, lontane da Milano, dalla Sicilia, dall’Italia, dalla terra e dall’universo tutto.
            Anita sarebbe ripartita, Marianna lo sapeva, e sarebbe tornata arraggiata, come sempre. Non ci pensò più di tanto, però, mentre Anita le sollevava la gonna con le mani, baciandola con delicatezza e muovendo le sue dita lì.
            Marianna chiuse gli occhi.
            Poteva essere tinta tutti i giorni che le pareva. Poteva sentirsi sbagliata, e sbagliare, ed essere la solita Marianna di sempre per anni interi.
            Quella sera, erano lei e Anita il centro del mondo.
            Come il profumo delle arance che le circondava, e il loro succo che rimaneva appiccicato alle dita, Anita sarebbe rimasta infinitamente su di lei, dentro di lei, per quell’ora di paradiso simile ad una vita insieme.


Note di traduzione:
1. "Guarda che sei nata femmina/donna."
2. Prostituta -o, per rimanere più fedeli al contesto, puttana-.
3. Cullare i bambini, inteso qui come occuparsi di loro come unica prospettiva di vita.
4. Fuiuta o fuitina: fuga d'amore, solitamente per indurre forzatamente un matrimonio.
5. "Piena piena di soldi!"
6. Abbreviazione di 'minchia' o 'mizzica' (esclamazioni tipicamente sicule).
7. Qui, la traduzione migliore è: "Sei impazzita?"
8. "(É un) Bel ragazzo."
9. "Per te sono tutti belli!"
10. Sdisanurata: che non ha onore, disonesta.
11."Che cosa stai guardando?" inteso come provocazione verso l'essere osservati.
12. Volgarmente: scopata. Che, comunque, è la parte centrale della 'fuiuta'.
13. Si intende come cambiamento d'umore, da buono a cattivo.
14. "Te lo puoi tenere" o meglio "Puoi tenertelo".
15. "É che sono tinta." Una cosa "tinta" è una cosa cattiva.
16. "Ma ti sei guardata allo specchio?"
17. "Non hai paura (…)?"
18. "Sono arrabbiata". La "raggia", comunque, non è solo uno stato d'animo. É tipico anche delle persone sempre maldisposte e poco cortesi.
19. "Che ne so."
20. "Qui ci sono solo gli occhi per piangere" intendendo che nel paese di Marianna non c'è nulla di rilevante.
21. "Agnello al sugo ed è finito il battesimo", frase tipica dopo un evento concluso, ma anche per indicare la fine netta di una qualunque cosa.
22. Chiffari: le cose da fare, gli affari da portare avanti.
23. Accussì nica: così piccola, inteso non solo per età o corporatura ma anche per indicare tenerezza.
24. "Vai a farti il bagno, Marianna" - è un modo gentile per automandarsi a quel paese.
25. "E tu sei bella".

 

A/N: Innanzitutto, nel banner troviamo gli occhi di Anita (Lyndsay Fonseca) e quelli di Marianna (Meghan Markle). Chiunque voi siate, grazie per il banner very very cheap che mi avete permesso di fare.
Tornando a noi: questa è la prima femslash della mia vita. E non intendo fermarmi.
Mi è venuta in mente di getto, volevo fosse ambientata in Sicilia, in un paese non ben identificato. L'idea delle arance, giusto per fare le intellettuali, mi è venuta mangiando mandarini. Odio le arance, ma 'il profumo dei mandarini' aveva meno senso ed era decisamente ridicolo.
Marianna e Anita oggi sono entrate nel mio cuore e ci resteranno. Hanno due vite diverse, due culture diverse e due modi di vedere le cose diverse. Fondamentalmente, sono l'una l'opposto dell'altra, ma nella loro attrazione non c'è posto per le differenze.
Riguardo alle varie note che avete trovato: mi scuso con chi ha trovato difficoltà, in caso, per l'estremo uso del dialetto, ma era -ovviamente- necessario. Per Marianna, dal quale punto di vista -bene o male- è narrata la storia, è la lingua principale e quindi ho deciso di inserirla nei punti dove 'ci stava'. Alcune frasi, poi, possono risultare sgrammaticate o in un italiano superficiale: a meno che non si tratti di congiuntivi sbagliati (in quel caso, mea culpa), è voluto anche quello, come una sorta di italianizzazione dei suoi pensieri in siciliano.
Spero vi piaccia, grazie a chiunque sia arrivato a leggere le (mie lunghissime, inutili, interminabili) note. Era da tempo che volevo scrivere una cosa del genere, credo sia venuta fuori qualcosa di almeno leggibile.
A presto <3


 
   
 
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