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Autore: Cat in a box    14/11/2013    1 recensioni
Elis è una ragazza come tante altre, forse, solo più imbranata e con delle aspettative un po’ al di fuori della sua portata. Il suo sogno nel cassetto è lasciare Khota, il villaggio in cui vive, per visitare il mondo oltre i confini delle montagne. Un sogno che andrà a scontrarsi contro i pregiudizi di una società chiusa e arretrata, che le toglierà ogni speranza di potersene andare. Un incontro inatteso col destino, le darà la possibilità di realizzare quel sogno. Ma a quale prezzo? Questa è la storia di come nasce un’esorcista. | Coppia: Nuovo personaggio x Yu Kanda
Genere: Avventura, Fluff, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Conte del Millennio, Nuovo personaggio, Un po' tutti, Yu Kanda
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Reaching the sky
 
Konban-wa! E ben ritrovati nella mia storia ^@^

Conte: Ehi! Mi hai rubato la battuta!

Autrice: Eclissati tu! è___é Non è ancora arrivato il tuo turno!

Conte:  ma tu guarda ‘ste autrici che si credono chissà-chi… *se ne va via borbottando*

Stavo dicendo… salve a tutti e benvenuti! ^@^ Volevo premettere che gli eventi narrati in questa storia sono un sequel che prende spunto dalla conclusione di DGM. Si ricomincia da capo, da un nuovo inizio e da un nuovo personaggio! ~ Enjoy it with love! 
 
Ps_ L’ultimo avvertimento e giuro di non tediarvi più!! xD In questi primi capitoli, gli eventi saranno raccontati al passato e in prima persona dal mio personaggio. Buona lettura! 

 
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1. Un incontro inaspettato
 
Mi chiamo Elis e sono un’esorcista.

La mia storia è iniziata sei mesi fa, in un remoto villaggio della Russia orientale di nome Khota.

Non sforzatevi a cercarlo sulle carte geografiche, perché non lo troverete o almeno, non prima di aver passato intere ore a setacciare ogni millimetro della Repubblica di Saka. Vi basti sapere, che in quel piccolo villaggio dimenticato dal mondo, viveva una comunità che aveva avuto la fortuna di non conoscere la guerra.

In quel piccolo paese che contava poco meno di tremila anime, io ero forse l’unica a desiderare veramente di andarmene ed esplorare il mondo. L’idea di viaggiare, di valicare i confini delle montagne e avventurarsi in luoghi sconosciuti, mi elettrizzava. Più di una volta avevo fantasticato sull’idea di fare valige e partire, senza meta, con quel poco denaro che ero riuscita a racimolare e senza dire niente a nessuno… ma tutte queste fantasie, sembravano essere destinate a rimanere solamente un sogno relegato in un cassetto.

A Khota, a una donna non era permesso lasciare il suo villaggio, se non accompagnata dal marito.

Le bambine che nascevano a Khota appartenevano alla loro terra d’origine e avevano meno privilegi rispetto agli uomini. L’istruzione delle bambine veniva impartita dalla madre o dalla nonna a seconda delle famiglie, e doveva essere loro insegnato entro il sedicesimo anno d’età ad essere delle brave casalinghe, per poi diventare delle rispettose mogli e poi madri. Queste erano le tre possibilità di una donna a Khota. Se entro i vent’anni non diventavi una di queste tre cose, eri considerata un fallimento…

Per il sì e per il no, il mio carattere era sempre stato quello di una ribelle.

Non ero docile e disciplinata come le mie sorelle più grandi; non avevo la bravura di Ann all’uncinetto, il talento di Gyada nel suonare l’ocarina o la grazia di Marie nella danza. Non avevo specialità e in ogni cosa, mi sentivo impacciata e fuori luogo. Mia madre non mancava sempre di rinfacciarmelo, concludendo sempre ogni ramanzina dicendomi che dovevo prendere esempio dalle mie sorelle.

E io ci avevo provato veramente ad essere come loro.

Volevo solo essere bella e capace a far qualcosa, ma al loro confronto, mi sentivo sempre come nella favola del brutto anatroccolo. Come potevo io essere figlia della stessa donna ed essere così diversa da loro?

Persino nell’aspetto ero diversa. I miei capelli, al posto di essere biondi e lisci, erano color mogano e leggermente mossi. Avevo una linea sottile e il mio fisico era quasi mascolino, mentre le altre avevano curve più accentuate. Ma quello che mia madre detestava di me, era la mia statura: troppo alta per una ragazza. Nessun uomo avrebbe mai chiesto la mia mano, se fossi stata più alta di lui. Non ero una spilungona, come potreste immaginare in questo momento, perché ero alta come qualsiasi altra ragazza di media altezza in Occidente. Un metro e settantadue, per la precisione.

Ricordo ancora la delusione sul volto di mia madre, quando a diciassette anni tutte le mie sorelle avevano ricevuto la loro proposta di matrimonio e io… bhe, ero diventata lo zimbello della famiglia.

Gyada e Marie erano spietate: non perdevano occasione di rinfacciarmi che fosse soltanto colpa mia e del mio carattere. Davano man forte a mia madre, criticando il fatto che se mi fossi impegnata di più e avessi seguito il loro esempio, probabilmente adesso avrei un posto nella società di Khota.

Ogni giorno non perdevano occasione di svilirmi e tutto quello che potevo fare, era resistere.

Ora, scommetto che vi starete chiedendo perché non ho provato a fuggire dal villaggio e lasciarmi alle spalle la mia terribile famiglia, ma sappiate questo: lasciare Khota non è così semplice come si possa immaginare.

Khota nella nostra lingua significa ‘murato’ e infatti il villaggio è protetto da spesse mura di mattoni alte tre metri. Le entrate sono sorvegliate giorno e notte dalle guardie, e inoltre, i confini della nostra terra si estendono per venti miglia, fino ai piedi delle montagne.

Non mi sono resa conto di quanto fossero lontani quei confini, finché non provai a fuggire per la prima volta. La mia fuga terminò sulle rive del fiume Naguai, a diciotto miglia dal confine. Fui riportata indietro da una guardia e processata la notte stessa per tentata fuga.

Le leggi di Khota puniscono severamente le donne che tentano di fuggire. La prima volta che provi a scappare, come nel mio caso, ti condannano ad una pena di quindici frustate in pubblico. Dicono che nessuna donna sia riuscita a superare il secondo tentativo di fuga, perché alla seconda volta, ti tagliano i tendini delle caviglie e non puoi più camminare.

Allora, vi chiederete come abbia fatto a diventare un’esorcista e a guadagnarmi la libertà… tutto è successo dopo la mia prima fuga, quando ormai avevo abbandonato le speranze e stavo accettando dentro di me, di dover passare tutto il resto della mia vita in quel posto orrendo.

 
Una settimana dopo l’accaduto, Ann, la più grande di noi sorelle, passò a trovare mia madre e la convinse a lasciarmi andare via di casa per trovarmi una nuova sistemazione. Ormai ero troppo grande per vivere con mia madre e potevo lavorare, perciò mi venne offerto un posto come cameriera alla locanda di suo marito.

Non so per quanto dovette insistere con Hans, suo marito, ad assumermi; visto che ormai tutto il paese era venuto a sapere del mio tentativo di fuga. Da zimbello della famiglia, ero riuscita a diventarlo anche per tutto il villaggio e lui, aveva paura che questo potesse incidere sull’immagine della sua locanda.

Per questo motivo, fu deciso che avrei lavorato solamente la sera, quando c’era meno clientela.

Ann, si comportava diversamente dalle mie sorelle e da mia madre. Era davvero premurosa nei miei confronti e non mi vedeva come l’anello debole della catena o la solita incapace; ma pensava che anche io dovessi avere qualche posto nel mondo e che dovevo ancora scoprire quale fosse l’attitudine per cui ero portata.

Trascorsero quasi tre mesi dalla mia assunzione alla locanda e ormai, dei segni lasciati dalle frustate, non rimanevano che le cicatrici. Quello di cui dovevo preoccuparmi maggiormente, era la gente che veniva di tanto in tanto a ficcanasare alla locanda, per chiedermi come mi fosse venuto in mente di scappare.

Non vi sembrerà strano, se dopo quel gesto sconsiderato venissi paragonata quasi ad una pazza.
 

Una sera, quando ero indaffarata a servire pietanze ai tavoli, giunse un forestiero.

Non era una rarità per il nostro villaggio ospitare qualcuno che venisse da fuori, ma quando ciò capitava, spesso la gente incuriosita non perdeva l’occasione di fare domande e chiedere qualche novità dal mondo esterno. A chi non affascinava quello che succedeva fuori dai confini di Khota?

Ma io non volevo rischiare di riaprire qualche vecchia ferita, proprio ora che stavo cercando di accettare il mio destino e costruirmi, pezzo dopo pezzo, una nuova dignità.

Seduto al tavolo c’era un uomo di mezz’età, apparentemente alto e tarchiato. Indossava una lunga cappa nera ornata con preziose rifiniture d’oro, piuttosto insolita per un semplice viandante; ma aveva anche l’aria vissuta, perché ai bordi la stoffa si era strappata.

Una fitta chioma color castano cenere e cespugliosa terminava oltre le spalle, arrangiata in una coda. I lineamenti del viso erano decisi e tozzi, con qualche ruga di vecchiaia qua e là e le guance scavate. Su un naso tozzo poggiava la montatura rossa degli occhiali e un paio di folti baffi grigi nascondeva il lato superiore della bocca.

In un secondo momento, notai che portava con sé un vecchio zaino, anch’esso dall’aria piuttosto vissuta. Da un lato, alcuni rotoli di carta emergevano fuori, rivelando solamente un miscuglio di colori e figure indistinte. Capii che doveva trattarsi di un pittore.
 

Quella sera, lo straniero, restò seduto al tavolo fino a tardi, a consumare le birre offerte dal locandiere e a parlare con chiunque si sedesse al suo tavolo. Sembrava che trovasse piacevole parlare con le persone e rispondere alle loro assillanti domande.

Quando la locanda si svuotò e l’orologio a parete stava per rintoccare la mezzanotte, fu in quel momento che gli parlai per la prima volta.

- Vuole ordinare qualcos’altro, signore? – domandai, stringendo al petto un vassoio vuoto e cercando di non far notare le gambe che tremavano per la stanchezza.

Notai che in quel momento, aveva tirato fuori dal suo zaino un blocco di fogli bianchi, dei carboncini, qualche matita e una tavolozza di acquarelli. Spostai lo sguardo sul disegno a cui stava lavorando e sentii un tuffo al cuore.

Un bellissimo panorama di un tramonto sul mare mi tolse il fiato di bocca. Il cielo, le nuvole, la sabbia e persino le onde che si infrangevano sul bagnasciuga, parevano molto reali. Non avevo mai visto in tutta la mia vita il mare, ma ora più che mai, avrei desiderato vederlo dal vivo.

-Ti prego signorina, dammi del ‘tu’... – l’uomo si voltò verso di me e sorrise. Notò quasi subito la mia espressione sbalordita e se ne compiacque.

- Ti piace il mio disegno? – domandò con voce soave.

Annuii, ricambiando timidamente il suo sorriso.

- Prego, accomodati pure. Ne ho degli altri se ti fa piacere vederli… - mi fece un cenno con la mano per dirmi di sedermi affianco a lui. Per un momento, rimasi come stordita da tanto splendore e dai vivaci colori di quel mare e di quelle nuvole. Allora, il mondo là fuori era veramente così bello?

Mi accomodai affianco al forestiero, dimenticando completamente il motivo per cui ero venuta al suo tavolo, al fatto che avevo ancora una miriade di faccende da sbrigare prima di chiudere il locale e che Hans sarebbe potuto sbucare da un momento all’altro a darmi una strigliata.  

Lo guardai srotolare sul tavolo i suoi capolavori.

- Questa è una città del Sud in cui sono stato diversi anni fa, si chiama Capri. - spiegò, mostrandomi il panorama di una città affacciata sul mare. Le case erano di un bianco latte, piccole e rettangolari, tinte di tanto in tanto, da alcune punte di verde.

Poi, mi mostrò il paesaggio di alcune montagne rivestite da un fitto bosco, paesini immersi tra le montagne, cascate, deserti e steppe. Erano uno più bello dell’altro. Quando arrivammo alla fine dei suoi capolavori terminati, gli chiesi di mostrarmi anche quelli che non aveva finito e le bozze.

- Non ho mai conosciuto qualcuno a cui piacessero così tanto i miei disegni! - disse con soddisfazione, squadrandomi in una rapida occhiata.

- Sono tutti bellissimi! - aggiunsi, continuando a guardare quei paesaggi e sentire, pian piano, quella parte che avevo cercato di seppellire tre mesi fa, ritornare più forte di prima e gridare dentro di me il desiderio di quella libertà a cui anelavo.

- Se ti piacciono così tanto, te li regalo tutti. - irruppe lui all’improvviso, lasciandomi ancora una volta a bocca asciutta.

- Ma…ma i-io… non credo di poter accettare quei disegni, potrebbero valere tanti soldi! - balbettai, cercando di nascondere il mio imbarazzo.

- Non sono i soldi a far valere un dipinto… - passò una mano sul primo disegno che mi aveva mostrato, quello del tramonto sul mare, e lo guardò con aria nostalgica - … ma le persone che lo guardano, ed era da tanto che non vedevo qualcuno a cui brillavano gli occhi in quel modo. –

- Grazie, ma non posso davvero accettarli tutti… - dissi timidamente - …vorrei solo quello del tramonto sul mare, se va bene. –

Il forestiero annuì e sorrise, poi con un gesto un po’ inaspettato, tese una mano verso di me e si presentò.

- Il mio nome è Froi Tiedoll, piacere di conoscerti. –

- Piacere mio, io mi chiamo Elis. – gli strinsi la mano.

Decisi di non rivelare il mio cognome, dal momento che non ero in buoni rapporti col resto della mia famiglia. A dir la verità, avevo preso l’abitudine a non utilizzarlo molto tempo prima. Ormai, non riuscivo a vedere più un nesso tra il mio nome e quello della mia famiglia, a mio parere, eravamo due cose diverse e separate.

All’improvviso, fummo interrotti dalla voce di Hans che gridava dalla cucina il mio nome. Mi stava chiamando per finire di lavare i piatti e ordinare la locanda prima della chiusura.

Scattai in piedi e rivolsi uno sguardo mortificato verso Froi, ma lui sembrò comprendere la situazione e prima che potessi aggiungere qualcosa, mi rassicurò che avrebbe soggiornato ancora per qualche giorno alla locanda.

Lo salutai e gli lanciai un’ultima occhiata, prima di sparire dietro la porta della cucina.

Froi stava rimettendo nello zaino i suoi disegni e si stava preparando per ritirarsi nella sua stanza per la notte. Notai solo in quel frangente, qualcosa luccicare sotto alla sua cappa nera. Mi accorsi di qualcosa a cui non avevo fatto caso prima; e infatti, appesa alla cintura dei pantaloni, intravidi una piccola bisaccia al cui interno alcune misteriose luci cerulee volteggiavano, come se fossero sospese a mezz’aria.

Solo una di queste, però, aveva preso a brillare più delle altre.
 


 
°º¤ø,¸¸,ø¤º°`°º¤ø,¸ Note dell’Autrice °º¤ø,¸¸,ø¤º°`°º¤ø,¸

Salve salvino a tutti i lettori! ^o^ E benvenuti nella mia prima storia dedicata al fandom di D. Gray – Man! Non vi chiederò di essere clementi, visto che è già da un pezzo che pubblico storie su EFP, quindi se pensate che faccia schifo possa migliorare qualcosa, scrivetelo nella recensione o fatemelo sapere in qualche modo. xP Spero che questo capitolo introduttivo vi abbia stuzzicato un po’ di curiosità e che abbiate voglia, mi auguro, di leggere anche il seguito! Premetto, nel caso non sia stata chiara, punto ad inserire un personaggio anti-Mary Sue. Elis non è la solita bellona tutta curve perfette coi super-poteri e capace a fare qualsiasi cosa… ma è una semplice ragazza che sogna la libertà e che per ottenere quello che dovrebbe essere un diritto di ogni essere umano, indipendentemente dal genere o dall’etnia, dovrà scontrarsi con i pregiudizi di una società chiusa e arretrata, come quella di Khota. Ah, giusto! Ovviamente la Repubblica di ‘Saka’ (Sacha) esiste, è una regione della Siberia. Il nome del villaggio è puramente inventato e anche il suo significato, quindi non illudetevi che in russo ‘khota’ voglia dire veramente ‘murato’! Ok, odio scrivere troppo nelle note, quindi vi avverto solo che il prossimo capitolo sarà pubblicato tra una settimana… ora passiamo al mio momento preferito… LO SPOILER!  >:D

Il titolo del prossimo capitolo è… “2. Le ali della libertà”.

Prossime new entry: Yu Kanda e Noise Marie.

Spazio alle recensioni!! 
   
 
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