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Autore: ThePirateSDaughter    17/11/2013    6 recensioni
“Gwen”
La volta che, senza saperlo, aveva mangiato Scarafaggi a Grappolo e le era praticamente svenuto davanti.
“Gwen…”
La manina tesa e sporca di sabbia di Gwen, al parco giochi.
“Gwen”
Quando aveva dato il primo bacio a Emily Bennet e aveva immaginato, solo per un attimo, di baciare lei.
“Gwen!”
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Battaglia di Hogwarts, 2 Maggio 1998: il Tassorosso Trent McCord cerca disperatamente la migliore amica Gwen.
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Hogwarts!AU || possibile OOC (ma non credo)
Genere: Fantasy, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alejandro, Dawn, Gwen, Izzy, Trent | Coppie: Trent/Gwen
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale
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Oh ehm, salve :)
È la prima AU che scrivo *me emozionata* e, per giunta, è una Trewen, che non sono esattamente il mio punto forte.
La storia potrebbe risultare un filo incomprensibile a chi non avesse letto (LETTO) il settimo libro della saga di Harry Potter; ci sono un sacco di riferimenti che sarebbe meglio ricordare e avere una conoscenza, a grandi linee, di cosa succede nella Battaglia di Hogwarts, in quanto a filoni di avvenimenti. Sì, perché questa è una Hogwarts!AU ^^
La fan fiction è nata dal saggio et bellerrimo prompt de Il Saggio Trent: “Hogwarts!AU, battaglia finale contro Voldemort: tra incantesimi e maledizioni, il Tassorosso Trent cerca la sua adorata Corvonero Gwen. Da lì si è sviluppata tutta questa storia, che ho deciso anche di tenere buona come prova per una raccolta di flasfic Hogwarts!Au di Total Drama che avevo in mente già da un pezzo e che pubblicherò non appena l’avrò stesa tutta.
Ho cercato di essere il più fedele possibile al Canon potteriano e totaldrammico e spero che la storia vi… piaccia.
Comunque, io consiglio questa di sottofondo: https://www.youtube.com/watch?v=rWitVrXe5tg&feature=youtube_gdata_player. Servirà per i feelings.
Per qualsiasi cosa, comunque, ci sono le recensioni o la frutta marcia.
 
 
 
E forse non ne aveva bisogno.
«Tutti i surrogati della magia che usano i Babbani - l'elettricità, e i computer e i radar e quelle cose là - impazziscono attorno a Hogwarts, c'è troppa magia nell'aria».
Hermione Granger, Harry Potter e il Calice di Fuoco
 
Interruppe la corsa e sobbalzò quando il lampo di fervida luce rossa gli passò rasente l’orecchio; rafforzò la presa sulla bacchetta, sollevandola un po’di più, cercando di individuare la fonte dell’attacco. Due secondi dopo, un altro lampo rosso schizzò vicino a lui, ma non era uno Schiantesimo, bensì una cascata di capelli rossi, preceduti da una bacchetta, dalla quale partivano gli attacchi più disparati, indirizzati al Mangiamorte all’altro capo del corridoio, che aveva avuto a malapena il tempo di dire “Protego”.
“Bambambambambam!” Izzy Crown urlava e rideva assieme, scagliando incantesimi a un secondo di distanza l’uno dall’altro. Trent deglutì e cercò di non perdere di vista il Mangiamorte; era il minimo che potesse fare, perché se non fosse arrivata Izzy, quello lo avrebbe attaccato. Era intollerabile fermarsi, ma doveva aiutarla.
“Oh, ciao!” esclamò allegramente Izzy non appena se lo vide comparire accanto “Che fai da queste parti?”
Trent indugiò per un solo attimo “Passavo di qui” optò, per poi indirizzare a sua volta uno Stupeficium alla barriera continuamente rievocata dal Mangiamorte.
“Oh vattene via!” ridacchiò Izzy “Mi ruberai tutto il divertimento! Io voglio giocare con questo Mangiamorte, magari dopo mi porterà dal Signore Oscuro in persona e prenderemo un tè tutti insieme!”.
Si volse a guardarlo per una frazione di secondo, mentre le bacchette si muovevano praticamente da sole, le menti concentratissime nell’evocazione degli incantesimi non verbali.
“Vai a cercarla e levati di torno”.
Lo stomaco di Trent si contorse per un attimo, ma non si fermò a chiedersi come diamine facesse la Crown a saperlo. “I-io devo aiutarti, non puoi…”
Un raggio di luce verde sferzò l’aria immediatamente davanti a loro, ma Izzy riuscì a bloccarlo un attimo prima che la colpisse. Quella Grifondoro svitata era, inspiegabilmente, una della migliori in Difesa contro le Arti Oscure.
“Ma che birbante!” Izzy scoppiò in una risata altissima, come se il Mangiamorte le avesse appena raccontato una barzelletta, invece che provato a ucciderla “Però scommetto che sono più veloce io! Vai via, Trent” aggiunse poi, a voce più bassa, riprendendo ad attaccare con foga.
Ci volle tutta la forza di volontà del ragazzo per staccarsi e riprendere a correre: il pensiero di riprendere a cercarla. Tentò di non pensare a quello che si stava lasciando alle spalle, specialmente quando sentì l’urlo di Izzy fendere l’aria alle sue spalle.
 

2 Maggio 1998.
Trent McCord, Tassorosso del sesto anno, correva come se ne andasse della propria vita. Correva e si domandava, come da cinque anni a quella parte, come avesse fatto la sua vita a trasformarsi in un groviglio unico di sconvolgimenti, tra i quali ne spiccavano tre.
Il primo: fino a undici anni, eccolo crescere con la sua famiglia e i suoi amici in un piccolo villaggio a sud di Edimburgo; poi ecco arrivare quel gufo, ecco arrivare quella lettera, quel funzionario, quell’annuncio: era un mago ed era stato chiamato a frequentare la Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts. Un colpo mica da poco. In poche settimane, eccolo scoprire un mondo completamente nuovo al quale aveva sempre appartenuto senza saperlo, un mondo che aveva sconvolto qualsiasi sua certezza e spiegato qualsiasi dubbio –quindi era stato effettivamente lui a riattaccare il manico della sua chitarra giocattolo, a sei anni, non era stata un’allucinazione!-. E non sapeva come rapportarsi con esso.
L’aveva aiutato Gwen.
Perché, altra cosa incredibile, c’era anche lei. E di Gwen ci si poteva fidare, era sempre stato un atto innato come mangiare e respirare. Non fidarsi della propria migliore amica, del resto, sarebbe stato strano. Anche Gwen aveva ricevuto la stessa lettera e anche Gwen era stata chiamata alla stessa scuola, il che l’aveva convinto che non fosse tutto un gigantesco scherzo da parte, magari, di qualche idiota come Duncan Nelson.
Una volta in coda per lo Smistamento, ricordò, ne avrebbe riso: Duncan Nelson e la sua cricca di idioti ad annoiarsi alla scuola pubblica e lui lì, ad aspettare che un cappello parlante – parlante- lo Smistasse.
E Gwen era abbastanza amica di quell’idiota; era sempre stata l’unica cosa che aveva cozzato nel loro rapporto, sempre stata motivo di discussione al di sopra della siepe che delimitava i loro giardini adiacenti. Trent non riusciva a capire come l’amica fosse riuscita a frequentarlo e, a ogni discussione, rientrava in casa, infastidito, con lo sguardo incendiario di Gwen sulla schiena. Poi uno dei due inviava un sms all’altro ed eccoli tornare fuori per chiarire.
Un botto terrificante proveniente dall’ala sud del castello lo assordò, per poi trasmettersi in una potente vibrazione che sconvolse il pavimento e lo fece appoggiare al muro per non perdere l’equilibrio; urla e sibili di incantesimi scagliati giungevano dagli altri piani in un ininterrotto sottofondo di caos. Ora gli sarebbe decisamente servito un cellulare per cercare di raggiungerla, sapere dove fosse, se stesse bene. Ma non c’era modo di far funzionare tecnologie a Hogwarts; lui e Gwen l’avevano sentito sbottare sottovoce a una ragazza con i capelli crespi in biblioteca (“ve l’ho ripetuto un centinaio di volte: leggete Storia di Hogwarts e forse vi entrerà in testa qualche concetto!”). Per questo non poteva far altro che correre, nello scenario di quel secondo sconvolgimento della sua vita: Hogwarts, che ormai chiamava casa, era stata attaccata. Lord Voldemort aveva risollevato i suoi eserciti e stava dando battaglia al castello e a chiunque stesse resistendo. Era da tutta la sera che stava cercando di non pensare a come stessero i suoi amici, i suoi compagni di Casa e combattere contro qualunque Mangiamorte gli si parasse davanti; ancora non aveva idea di come fosse riuscito a sopravvivere o a evitarli, in determinati casi. Ma forse era tutto dovuto al fatto che doveva trovarla.
Perché, terzo sconvolgimento, era da tre anni che covava un amore silenzioso per la sua migliore amica e doveva starle vicino almeno adesso. E magari sarebbe anche riuscito a dirglielo. Non sapeva che utilità avesse il tutto, ma forse era la ragione per cui non era ancora morto fino a quel momento.
 

“Ora, Harry Potter, mi rivolgo direttamente a te. Tu hai consentito che i tuoi amici morissero per te piuttosto che affrontarmi di persona. Io ti aspetterò nella Foresta Proibita. Se entro un'ora non ti sarai consegnato a me, la battaglia riprenderà. E questa volta vi prenderò parte io stesso, Harry Potter, e ti troverò e punirò fino all'ultimo uomo, donna o bambino che abbia cercato di nasconderti a me. Un'ora.”
Trent cercò di regolarizzare il respiro, la mano appoggiata al battente della Sala Grande. Era gelido, lo sentiva al tatto, ma era come se la sensazione gli giungesse distorta, lontana, come se fosse rinchiuso in una bolla di sapone con il potere di stordire. Come una di quelle che Lindsay Mills era riuscita inspiegabilmente a creare al terzo anno, un’eternità fa.
Aveva soltanto un’ora ed era l’ultimatum. L’ultima possibilità che quel mostro stava cercando di dare a Harry Potter per concludere tutto. Respirò a fondo. Non giudicava Harry, non sapeva cosa avrebbe fatto al suo posto: consegnarsi o continuare a lottare, alla visione del castello ormai sentito come casa ridotto in pezzi, sapendo ogni persona in pericolo di vita, con la prospettiva di un dominio oscuro sulle loro teste?
Un’ora. Un’ora in cui potevano disporre dei loro morti con dignità, aveva detto Voldemort. E Trent non riusciva a risolversi ad aprire la porta. Perché era lì che stavano disponendo i morti e se avesse scorto Gwen sdraiata a terra e più pallida del normale, non sarebbe riuscito… non sarebbe riuscito a…
La mano tremò di più quando spinse il battente.
Non appena mosse i primi passi nella Sala provò una serie di emozioni schiaccianti, dal desiderio di fuggire e non essere mai esistito, al perlustrarla cercando di non riconoscere un amico steso a terra, al voler sapere se lo fossero o meno. Non c’era altro che distruzione e dolore. Questo era tutto quello che Voldemort portava.
Gli bastò vederla in fondo alla Sala perché tutto sfumasse, lasciando posto al sollievo più soffocante che avesse mai provato.
Gwen era in piedi, pallida e graffiata, la veste stracciata e stringeva la spalla della Serpeverde Courtney Barlow, in lacrime sul corpo di Scott Wallis, ed era inequivocabilmente viva.
Sollevò lo sguardo, come percependo la sua presenza nella Sala e incrociò il suo.
Si corsero incontro quasi simultaneamente. Il petto di Trent era come tagliato in due dall’ansia che sfumava e dal desiderio di stringerla e non lasciarla più andare; mano a mano che si avvicinavano, la figura di Gwen gli portava ogni sorta di ricordi vissuti in tredici anni di amicizia. I venerdì sera estivi in cui cercavano di vedere un film horror insieme e lui scappava in bagno fino ai titoli di coda; le volte in cui Tassorosso e Corvonero avevano lezione insieme e loro due correvano in classe quindici minuti prima per trovare due banchi liberi; il primo anno di corso di Antiche Rune, quando avevano fatto i compiti insieme e avevano tradotto “fenicottero” invece di “fantasmatico”; i pomeriggi in biblioteca a studiare e a scarabocchiarsi i libri a tradimento; lo Schiopodo Sparacoda Speranzoso; la volta in cui Gwen e Heather Wilson si erano sfidate a duello e Gwen ci aveva rimediato quindici punti in meno per Corvonero, due settimane di infermeria e la pelle che variava dal rosso al marrone al blu (“non è riuscita a far Evanescere il fatto che sia pallida, ma oh, io sono riuscita a far Evanescere i suoi preziosi capelli”); la gita scolastica durante la quale, a nove anni, Gwen aveva accettato la sfida di quel pallone gonfiato di Chris McLean, il bulletto ripetente, per stabilire se fosse tanto coraggiosa. Si era fatta chiudere in uno scatolone e fatta seppellire per quelli che dovevano essere cinque minuti sotto la sabbia a Plymouth. Tremava di paura, ma Trent l’aveva visto solo perché la conosceva bene; non l’avrebbe mai ammesso, tantomeno davanti a Chris. Trent non si era staccato un attimo dal punto dove l’avevano seppellita; grazie a Dio si erano portati dietro le ricetrasmittenti giocattolo, quella volta. Non che Gwen avesse avuto bisogno di una ricetrasmittente per sapere che Trent sarebbe stato lì, ma così era meglio: una ricetrasmittente ciascuno ed ecco come, grazie alle chiacchiere lievemente agitate dell’amico, la bambina era riuscita a superare tre minuti e mezzo, prima che le maestre scoprissero l’accaduto e mettessero in punizione lei, Chris e i suoi amichetti e, perché no, anche Trent.
Le braccia del ragazzo si chiusero attorno al corpo sottile di Gwen, mentre espirava tutto quello che sentiva; fu come levarsi un masso di dosso. Le mani di Gwen salirono ad afferrargli le spalle, da dietro la schiena, con un singhiozzo a malapena fermato dalla ragazza.
“Grazie a Dio stai bene”
“Potrei dire la stessa cosa”
 

“Dicono che abbiamo un’ora. Ne è passata mezza”
Camminavano in silenzio per il corridoio del secondo piano da quelle che sembravano ere intere e solo quella frase di Gwen ne scalfì la coltre. Per qualche ragione al mondo, ora che l’aveva trovata, Trent non riusciva a parlarle. Forse sarebbe bastato, si disse comunque, forse non ce n’era bisogno. Dirlo adesso sarebbe stato da idioti.
Girarono l’angolo, poco distanti da un’aula vuota. Heather Wilson giaceva scompostamente vicino alla porta aperta, i freddi occhi grigi spalancati e fissi; Alejandro Burromuerto, il suo compagno di Casa, era accasciato vicino a lei, la bacchetta dimenticata da una parte e lo sguardo sbarrato, una mano che non riusciva a smettere di tremare e di accarezzarle i capelli. Era crudele e, in qualche modo, sbagliato. Erano anni che quei due si morivano dietro, praticamente da quando si erano conosciuti al primo anno e non se lo erano mai detto chiaramente. Forse non ne avevano –avuto- bisogno nemmeno loro.
Ma Trent sapeva che avrebbe trovato intollerabile essere nella stessa situazione di Alejandro, con quelle parole a pesargli per sempre sullo stomaco che, al solo pensiero, sembrò ribollire di orrore.
“Gwen” La ragazza, nel mentre, alla vista del corpo di Heather aveva emesso un breve rantolo, come se fosse sul punto di piangere; Trent la trasse a sé e lei lo lasciò fare, affondandogli il volto nella divisa. “Gwen, io…”
“Harry Potter è morto. È stato ucciso. Stava fuggendo, per mettersi in salvo mentre voi davate la vostra vita per lui. Vi portiamo il suo corpo a dimostrazione che il vostro eroe è caduto”.
Parvero gelarsi l’uno nelle braccia dell’altro.
Non poteva essere vero. A prescindere da come Voldemort aveva descritto Potter, non poteva semplicemente essere vero. Potter non poteva essere morto. Era l’eroe, era il simbolo della lotta e se era effettivamente morto, questo significava come anche la loro ultima arma fosse svanita.
Gwen parve leggergli nel pensiero.
“Dobbiamo andare a vedere” sussurrò “E, anche se fosse, questo non cambia niente. Io continuerò a lottare”.
“Giusto” rispose Trent.
E, comunque, ci volle qualche secondo più del necessario perché potessero sciogliersi dall’abbraccio nel quale si erano come appena ritrovati, con Gwen che lo fissava come se vedesse una luce nuova sul suo viso, mentre arrossiva appena. Ed era surreale, con Voldemort che dettava condizioni, riuscire a soffermarsi su quello che stava succedendo. Sulla maniera in cui Gwen prese la mano di Trent e cominciò a correre verso il piano di sotto.
 

Da lì, successero molte cose.
Erano lì quando Voldemort arrivò davanti al portone con il cadavere di Harry tra le braccia di Hagrid.
Erano lì quando Neville Paciock si ribellò.
Ed erano lì quando un gigante spiccò una corsa sin dalle profondità della foresta, ruggendo qualcosa che suonava come “Hagger!” e scatenando un pandemonio: i giganti di Voldemort corsero all’attacco, mentre un gruppo di centauri si precipitava in offensiva dal nulla, scoccando frecce su frecce e seminando agitazione tra i due fronti.
La battaglia era ricominciata in un attimo. Trent avvertì la mano di Gwen lasciare la sua perché potesse correre alla bacchetta: un Mangiamorte stava avanzando proprio verso di loro. Tempo pochi secondi ed eccoli combattere fianco a fianco; Gwen scagliava Incantesimi di Ostacolo come nessuno e Trent rafforzava la presa sulla bacchetta, agitato, guardandosi attorno a sincerarsi che nessuno li sorprendesse su altri lati.
Non aveva paura di morire, non così tanto di vedere qualcun altro morire. O continuare a morire. Doveva finire; e che potesse finire. Vide Alejandro correre nella mischia, in lacrime, scagliando maledizioni a qualunque Mangiamorte incrociasse; Bridgette Farlie urlava il nome del suo ragazzo, guardandosi intorno; Tyler Oldring, impacciato com’era, rovinò a terra e fu il suo canto del cigno…
Gwen si sbarazzò del Mangiamorte e gli riafferrò la mano; insieme ingrossarono la fiumana di altri studenti che indietreggiava nel castello, impegnati nella lotta. Presto altri due Mangiamorte si avvicinarono loro, minacciando anche i due studenti immediatamente prossimi; il duello prese forma serrata.
E Trent non lasciò la mano di Gwen.
 

La lotta sembrò accelerare il tempo; non sapendo come, tutto il castello era ritornato a popolarsi di gente, sparsa principalmente attorno alla Sala Grande.
Petrificus Totalus!” gridò Gwen e il Mangiamorte cadde a terra come un birillo. Nel corridoio non c’era più nessuno; ormai tutti erano radunati nella Sala Grande, dalla quale improvvisamente si levò alto l’urlo di Voldemort, acceso di furia e scorno. Doveva essere successo qualcosa di grave.
“Gwen!” Trent tese la mano nella sua direzione, perché la ragazza lo raggiungesse e la prendesse. Gwen si voltò verso di lui e, in quella, il tempo sembrò curiosamente ghiacciarsi, gonfiarsi, proseguire con una lentezza estenuante che avrebbe impresso a fuoco ogni secondo nella mente di Trent per sempre; i capelli che frustavano l’aria mentre si voltava a guardarlo. Lo sguardo cerchiato e ardente di fervore, speranza e tristezza. Il lungo graffio rossastro che le deturpava la guancia pallida, dal mento fino all’attaccatura dei capelli. Le labbra semiaperte sull’ultimo istante, prima che qualcosa, forse un gigante in lotta, si schiantasse contro la parete esterna, già franata, dandole il colpo di grazia: una pioggia di detriti e sassi si abbatté sulla ragazza, accumulandosi in una montagna disordinata e polverosa in pochi secondi.
 

Aveva solo una vaga idea di come dovesse apparire da fuori.
Un ragazzo sedicenne di Tassorosso, i capelli neri imbiancati dalla polvere, la divisa sporca e insanguinata, lo sguardo stravolto, gli occhi spalancati a fissare, perfettamente immobile, un cumulo di macerie.
La bacchetta gli scivolò lentamente di mano.
L’urlo di orrore venne soffocato da quelle che sembravano esclamazioni e grida di giubilo all’interno della Sala Grande (qualcosa come “È vivo, è vivo!”), ma non ci diede peso. Si precipitò verso i detriti, senza nemmeno stare a pensare alla bacchetta, afferrando manciate di detriti a mani nude e scagliandoli via. Avvertiva a malapena il dolore sferzante delle unghie che si spaccavano, delle dita che si ferivano e i suoni dalla Sala Grande sembravano lontani anni luce; sentiva solo il rumore dei sassi che colpivano la terra man mano che li scagliava via, percepiva solo il suo respiro affannato, disperato.
“Gwen” ansimò appena. Tremava. “Gwen!” urlò poi, non sapendo nemmeno da dove stesse trovando la voce. Non poteva essere. “Gwen… Gwen no…”
Era sbagliato. Non era giusto, non poteva essere. “Gwen!”
Davanti agli occhi lampeggiò di nuovo la visione di Alejandro chino sul corpo di Heather.
“GWEN!”
Non poteva essere. Non poteva essere, non poteva essere, non poteva essere, non poteva essere.
Aveva ancora il suo sguardo sulla pelle.
“Gwen”
I pomeriggi a passeggiare per Hogsmeade.
“Gwen”
La volta che, senza saperlo, aveva mangiato Scarafaggi a Grappolo e le era praticamente svenuto davanti.
“Gwen…”
La manina tesa e sporca di sabbia di Gwen, al parco giochi.
“Gwen”
Quando aveva dato il primo bacio a Emily Bennet e aveva immaginato, solo per un attimo, di baciare lei.
“Gwen!”
Tutti i loro messaggi sul cellulare.
“GWEN!”
Se solo avesse potuto contattarla.
I sassi sembravano non finire mai. Qualcosa gli diceva che stava tremando e una sensazione fredda sulla faccia gli fece presagire che stava piangendo, ma non poteva essere. Se piangeva, voleva dire che era finita davvero. E non poteva essere. Gwen era… doveva…
“Io continuerò a lottare”.
L’hai detto Gwen. L’hai detto tu. Ti prego, ti prego…!
Ed era come a nove anni. Trent stava vicino alla sua –non pensarlo!- tomba.
Dentro c’era Gwen.
E non c’erano ricetrasmittenti.
Non ci sarebbero mai state.
E, se anche ci fossero state, non avrebbero mai funzionato.
E, se anche avessero funzionato, non ci sarebbe stato nessuno a rispondere a Trent.
 

Lo riuscirono a staccare dalle macerie solo tanto tempo dopo.
A quanto pareva, tutto era finito. Voldemort era morto. Avevano vinto. E Gwen non era lì per vederlo.
Quanto era sbagliato. Era morta e non era morta in battaglia, non era stata abbattuta da un Mangiamorte, non aveva fronteggiato Voldemort o il suo serpente; era morta per uno stupido incidente.
Trent non ebbe nemmeno bisogno di divincolarsi dalla presa di Alejandro e Noah, una volta che i professori ebbero rimosso, con un colpo di bacchetta, tutte le pietre. Dov’era la sua, di bacchetta? Non riusciva nemmeno a ricordarlo. I due ragazzi lo lasciarono semplicemente andare, con la compostezza amara di chi sa perfettamente come ci si sente. Dopotutto, anche le loro ragazze erano state uccise.
E Gwen non aveva nemmeno fatto in tempo a diventarlo. O a poterlo essere. Non gliel’aveva detto. Non era riuscito a dirlo. “Forse non ne avrebbe avuto bisogno”, aveva pensato. Ma chi aveva voluto prendere in giro?
Gwen giaceva con la divisa strappata e ingrigita dalla polvere, i capelli scompigliati, un lungo taglio sulla fronte. Trent cadde in ginocchio accanto a lei, senza un suono.
A cosa valeva la vittoria, se lei non era là per contemplarla?
Avrebbe voluto toccarla, prenderla tra le braccia, poggiare la fronte contro la sua, ma realizzò di non averne semplicemente il coraggio.
Ancora.
E fu quello a farlo muovere, alla fine.
Era di una leggerezza disarmante, nelle sue braccia.
Un tremito che proveniva dal cuore stesso della disperazione si impadronì del corpo di Trent, che affondò il viso nell’incavo del collo della ragazza.
 

Il sole gli picchiava forte sulla nuca. Incredibile come, dopo quello che era successo, riuscisse ancora a splendere e portare luce, incredibile come il mondo andasse avanti. Le dita di Trent erano saldamente intrecciate tra loro; seduto sul bordo di una poltrona della Sala Comune dei Corvonero, i gomiti poggiati alle ginocchia, teneva lo sguardo fisso sul pavimento, il cervello pieno di un’opprimente vuotezza.
“Eccomi qui”
Sollevò lo sguardo sulla voce delicata che si sentì improvvisamente davanti; Dawn Ward, la compagna di Casa di Noah famosa per la sua E in Divinazione, era tornata dal dormitorio femminile e ora gli porgeva un piccolo taccuino.
“Mi dispiace tanto che tu non possa salire Trent” esordì, accennando un lieve sorriso “E mi dispiace anche per tutto il resto. La tua aura è…” Si interruppe come se fosse stata percorsa da un tremito “Ci sono tante cose che vorrei dirti, ma non servirebbero, credo”. Gli posò il taccuino di Gwen tra le mani e, stringendogliele brevemente, lo lasciò solo.
A Trent ci volle qualche secondo anche solo per metabolizzare che lo stava veramente facendo. L’idea era stata di Noah, sperando che potesse aiutarlo a stare meglio o, quantomeno, a reagire al dolore. Ma come poteva? Sapendo che quella era stata la Casa di Gwen per i passati sei anni, che la ragazza aveva vissuto, studiato, riso, scherzato, sbuffato in quella Sala Comune e che quello che teneva in mano era il suo diario e che ora lui stava là, come un estraneo?
“Trent, l’hai vista morire sotto i tuoi occhi e non hai ancora pianto”.
Serrò le dita sulla copertina del taccuino. Non sapeva cosa fare. Era come se fosse tutto sbagliato. Era il diario segreto di Gwen. Se era segreto, non si poteva leggere.
Senza emettere un suono lo aprì.
Un foglio scivolò a terra non appena lo fece, ma non se ne preoccupò subito; sfogliò le pagine quasi come in sogno, percependo in un angolo distante della mente che la mano di Gwen era passata sopra quelle pagine, che le dita si erano macchiate dell’inchiostro di quelle parole. Anni di considerazioni, di pensieri, di riflessioni; era tutto quello che rimaneva di lei.
Voldemort arriverà presto, lo so. Ma non ho intenzione di scappare. Se lo facessi, se lo facessimo, sarebbe fare il suo gioco, sarebbe arrendersi e non possiamo permetterci di perdere quello che amiamo”.
La considerazione scatenò qualcosa in fondo al cuore di Trent.
“Inoltre – e a proposito- Trent è ancora qui”.
Una lacrima cadde sul nome proprio.
Trent strinse le dita sulla copertina del diario così forte che pensò lo avrebbe deformato; un calore rovente minacciava di fargli esplodere la testa pur di uscire fuori e scatenare la propria disperazione e riuscì a trattenerlo pressando le labbra; i singhiozzi uscirono fuori comunque. Lacrime amare scorrevano senza più freni sul viso del ragazzo, che bruciava nel pentimento, nel rammarico, nel dolore intollerabile di sapere Gwen perduta per sempre e, contemporaneamente, di tenere in mano la cosa più vicina al suo cuore che gli fosse rimasta.
In quel momento di pausa, lo sguardo gli cadde su quello che aveva creduto fosse un foglio che era caduto quando aveva aperto il diario. In realtà era una foto: lui e Gwen avevano quindici anni ed era la loro estate in campeggio a Wawanaqwa Island, un posto dimenticato da Dio che i loro genitori avevano trovato su Internet. Un posto completamente deserto, con una sua qualche bellezza; la terza notte l’avevano spesa tutta a chiacchierare, senza dormire nemmeno per un’ora, chiedendosi curiosità e gusti anche solo per verificare quanto sapessero dell’altro, dopo una vita di amicizia. Sì, la sua canzone preferita era She Will Be Loved. Sì, il suo colore preferito era il blu notte. Se lo ricordava ancora.
Gwen lo abbrancava per la vita e sorrideva all’obiettivo, mentre Trent, che era sempre stato più alto di lei, la fissava da sopra, un braccio attorno alle sue spalle, un sorriso appena accennato. Ed era una foto Babbana; non si muoveva. I loro sorrisi, però, in una qualche maniera, sembravano farlo.
Raccogliendola, le mani che gli tremavano forte, posò il diario sul tavolino di fronte a lui, non leggendo – almeno, non immediatamente- quanto seguiva.
E se Trent è qui, non posso permettermi di lasciarlo solo. E so che non se ne andrà, perché ci sono io. E forse, dopo questa battaglia, se sopravvivremo, glielo dirò. Sempre che non l’abbia già capito. Sempre che ne abbia effettivamente bisogno, di sentirselo dire”.
   
 
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