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Autore: Serenity Moon    17/11/2013    5 recensioni
"L'ora che precede l'alba è sempre quella più nera, ma piano piano, i raggi del sole cominciano a far capolino. Con una lentezza dilaniante, squarciano le nubi e colorano il cielo di infiniti miliardi di sfumature. E' quello lo spettacolo più bello, l'attimo prima dell'alba. L'istante in cui il sole si fa attendere, hai paura che non arrivi più, ma sai che c'è, devi solo dargli il tempo giusto perché sorga e ti abbagli, in tutto il suo splendore.
Ed io ero così. Ero un'alba che aspettava di nascere.
E lui era la Terra che gira. Mi ha dato vita e luce e poi me le ha tolte entrambe".
Dopo tanta attesa, ecco finalmente, il prequel di 'Bitch'.
Bentornata, Jude.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
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- Questa storia fa parte della serie 'Bitch '
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Dawning bitch

 

 

# 12

 

The one that got away

 

Non lo sai mai, quando ti svegli, che tipo di giornata ti aspetta. Non c'è una spia sulla testiera del letto che ti anticipi a cosa stai andando incontro. Devi alzarti, indossare le ciabatte e mettere il caffè sul fuoco, ma nemmeno ascoltando il gorgoglio dell'acqua che bolle lo capisci.

Le belle giornate non lasciano sentore di sé. Ancor meno quelle brutte.

Non te l'aspetti mai una giornata brutta, soprattutto quando sei felice. Forse allora è per questo che fa più male. Un dolore inaspettato nuoce di più di uno atteso, saputo.

Eppure anche quelli che si sa prima o poi dovranno arrivare, se ti prendono alla sprovvista ti uccidono, ti mutilano nel peggiore dei casi. Non c'è niente di peggio che andare in giro con pezzi mancanti, come degli zombie allucinati, senza meta, distrutti. Odi perdere le gambe quando sei abituato a correre. Rinunciare alle braccia quando non hai fatto che scrivere per tutta la vita. Vederti strappato il cuore proprio quando hai iniziato a capire che ce l'hai.

Dopo mesi di presentimenti, quando il giorno arrivò, non me ne resi conto. Non subito.

Il telefono che non squillava, all'inizio, non aveva portato il panico che pensavo. I messaggi senza risposta erano solo il segnale che per il momento lui non poteva, che era impegnato a lavoro, con gli amici, con lei. Non aveva importanza. Sarebbe tornato. Il display si sarebbe illuminato, la suoneria avrebbe riecheggiato tra i muri di casa e la sua voce mi avrebbe detto 'ciao' come aveva sempre fatto. La chiave avrebbe girato nella toppa e in men che non si dica mi sarei ritrovata fra le sue braccia.

Certo, sarebbe andata esattamente in questo modo. Un finale diverso per quella giornata non poteva esserci.

E invece non fu così.

Quel silenzio piano piano cominciò ad insinuarsi nella mia pelle, arrivando a lambire e a corrodere le ossa. A romperlo erano soltanto gli squilli infiniti che sfociavano nella voce meccanica dell'operatore che annunciava l'attivazione della segreteria.

Poi di colpo nemmeno più quelli. Spento.

Per giorni interi, non ebbi nessun segnale da parte sua. Era sparito, inghiottito da quel nulla che da sempre incombeva su di noi.

Dentro di me, la vocina dell'istinto, che sin dall'inizio mi aveva guidata in quella storia, si era spaccata in due. Da una parte c'era quella forte che urlava dolore per l'abbandono, ringhiava ribelle e rabbiosa ma rassegnata alla fine. Dall'altra, un sussurro debolissimo mi incitava a continuare a sperare. 'Tornerà' ripeteva piano, 'Tornerà' e seppure fosse pressoché inudibile, la sua sola presenza, mi teneva in piedi e mi permetteva di affrontare quelle giornate interminabili.

 

"Summer after high school when we first met

We make out in your Mustang to Radio head

And on my 18th birthday we got that chain tattoos

Used to steal your parents' liquor and climb to the roof

Talk about our future like we had a clue

Never plan that one day I'd be losing you”.

 

A fatica, trascorse una settimana senza che avessi sue notizie. Mi sforzavo di fingere che tutto andasse bene, ma dentro bruciavo a causa del dolore. Non poteva essere finita così. Mi meritavo almeno un 'ciao', anche un semplice 'addio'. Ero così poco importante da non essere degna nemmeno di un ultimo saluto?

No, lo sapevo che non era così. Dovevo solo aspettare e allora pregavo il tempo perché accelerasse. Imploravo i tramonti e le albe di corrersi incontro il più velocemente possibile, ma anche loro complottavano contro di me. Le ore si erano dilatate fino a sembrare mesi. Ad ogni occhiata al quadrante dell'orologio, le lancette si erano spostate così poco da sembrare ferme.

Avevo smesso di rispondere al telefono per non far trovare a Ryan la linea occupata nel caso in cui avesse chiamato. Dimenticavo di mangiare. Le mie funzioni avevano rallentato per adeguarsi allo scorrere di quei secondi anormali.

A volte mi sembrava di sentire il cellulare squillare. Allora mi fiondavo a prenderlo, ma quando il display si illuminava, compariva solo l'immagine dei due panda abbracciati che avevo come sfondo. La mia mente mi giocava pessimi scherzi. Forse anche Ryan era stato uno scherzo. Forse in realtà, lui non era mai esistito. Quei mesi bellissimi erano stati solo il frutto della mia follia, un sogno dal quale mi ero bruscamente risvegliata.

Dopotutto, dov'erano le prove? Non c'erano foto che potessero dimostrare che era tutto accaduto veramente. Nessuno a parte me e Dave era a conoscenza della mia storia con Ryan e nulla vietava che pure lui facesse parte della fantasia.

Però una cosa c'era. Il braccialetto che mi tintinnava al polso era reale. Il ricordo dei suoi baci, delle sue carezze era più vivo che mai. Non avevo fatto l'amore con una fantasia. Non era un sogno che avevo stretto tra le braccia. Le sue mani che mi pettinavano i capelli erano di carne ed ossa. Era tutto vero. Bisognava soltanto risvegliarlo.

Il problema era come fare. Ryan era già sparito una volta. Allora ero riuscita a salvare la nostra storia, ero andata a cercarlo fin nel suo studio, guidata solo da delle indicazioni approssimative. Stavolta come avrei fatto?

Potevo chiedere a Dave, ma coinvolgerlo senza destare sospetti in Vanessa mi sembrava impossibile. La mia migliore amica, anche lei inghiottita dal nulla negli ultimi mesi, avrebbe complicato tutto. Chiamare Ryan a casa e farmi trovare sotto il suo portone? Infattibile.

In quel momento mi resi conto che non sapevo dove abitava. Non glielo avevo mai chiesto e lui non me l'aveva mai detto. Ebbi una piccola illuminazione: non si fidava abbastanza di me per rivelarmi quell'informazione.

E allora che senso aveva? A lui di me non importava, era questa la realtà. Non mi voleva. Perché impuntarsi? Perché combattere?

Lui se n'era andato.

 

"I was dreaming you were my Johnny Cash

Never one, we got the other, we made a pact

Sometimes when I miss you, I put those records on, whoa

Someone said you had your tattoo removed

Saw you downtown singing the blues

It's time to face the music, I'm longer your muse”.

 

Il nono giorno uscii di casa di buon'ora per recarmi all'università. Avevo bisogno di allontanarmi un po' da quel posto. Ancora un'ora e le pareti mi sarebbero crollate addosso. Non una cattiva idea, a dirla tutta. Ormai nulla aveva più senso. Nemmeno io. Avevo perso tutto. Avevo scommesso tutta me stessa in una storia che sapevo già sarebbe finita male, ma qualunque presentimento non si sarebbe mai neanche lontanamente avvicinato alla realtà.

Un addio me lo meritavo.

Provai a studiare, nel senso che aprii il libro e mi misi a fissarne le pagine. La penna scarabocchiava cose senza senso, tanto per sprecare inchiostro e piano piano pure le lettere stampate cominciarono ad offuscarsi, fino a perdere i contorni chiari che le contraddistinguevano.

'Che senso ha? Che senso ha avuto?'. Mi ripetevo come un mantra quelle domande, impossibilitata a trovare una qualunque risposta plausibile. Per cosa avevo combattuto? Per chi mi ero fatta dilaniare il cuore e l'esistenza in quella simile maniera?

Senza accorgermene, avevo cominciato a piangere. Le lacrime si infransero su una delle pagine, macchiandola al centro ed accartocciandone un angolo. Le asciugai con il palmo, arrabbiandomi con me stessa per la mia stupida debolezza. Chiusi il libro con un colpo secco, mi alzai e me ne andai, percorrendo a grandi falcate il corridoio desolato.

Si era già fatto buio. Il suono dei passi che rimbombavano tra le pareti alte e scrostate e le ombre deformi che le luci gialle proiettavano su di essi, davano al tutto un'atmosfera sinistra. Stupidamente, mi voltai più volte per assicurarmi che dietro di me non ci fosse nessuno. Stavo già abbastanza male di mio, la paura era gentilmente pregata di farsi da parte.

Girai l'angolo ed imboccai la prima rampa di scale. Il cervello premeva perché accelerassi l'andatura, ma le gambe non ne volevano sapere. Mi trascinavo come uno zombie, giù per i gradini consumati e scivolosi. Misi il piede sull'ultimo scalino e diedi un'occhiata fuori dal portone.

La foschia di metà aprile avvolgeva gli alberi e i palazzi tutt'intorno. Sembrava quasi avesse una consistenza ben precisa, tanto pesante da scurire il pomeriggio, già diventato notte. Era umido, si stava bene in felpa, eppure io morivo dal freddo.

Qualcuno mi sfrecciò accanto e varcò il portone mastodontico per immettersi fuori. Mi voltai a guardare quel luogo spettrale che di solito mi piaceva con le sue colonnette, i sedili ricavati nei muri, il silenzio. Quella sera però, mi rendeva solo più nervosa di quanto già non fossi e ne aveva tutti i motivi.

«Jude».

La sua voce.

Pensai di essermela ancora una volta immaginata come mi succedeva col trillo del telefono, invece, girandomi di scatto, trasalii.

Dietro una delle colonne, in cima alle scale, la sua riconoscibilissima sagoma si stagliava contro le luci.

Di colpo tutto si svuotò. Non rimase più niente di quello che c'era. Fu come ritrovarsi in un'altra dimensione, a galleggiare senza alcun appiglio, di nuovo naufraghi in balìa del mare in tempesta, ma stavolta nessuno dei due porgeva la mano all'altro per salvarlo, io impietrita dal timore, lui... Lui non lo sapevo.

Non fui nemmeno capace di pronunciare il suo nome. La voce mi era morta nel petto, ancor prima che arrivasse in gola. Provai a muovere un passo verso di lui, ma con un gesto della mano, mi fece rimanere dov'ero. Il suo 'no' secco fu una pugnalata al cuore.

«Cosa è successo?».

Mi ci volle tutta la forza che avevo per pronunciare quella semplice frase. Non sapevo cos'altro dire. Il cervello mi si era inceppato. Avrei dovuto corrergli incontro e prenderlo a pugni, urlargli tutte gli insulti che conoscevo e rimproverargli la preoccupazione che mi aveva provocato in quei giorni. Avrei dovuto abbracciarlo per il sollievo, perché era lì e stava bene, non gli era successo nulla. Mi aveva annientata, ma lui stava bene...

«Mi dispiace» cominciò. Il suo viso era una smorfia indecifrabile. Non molto differente dal mio, deformato dalla certezza di quel che stava per accadere. Nemmeno questo però lo fermò dal suo intento. La stangata finale arrivò come il colpo d'ascia di un boia. «Ho sbagliato a sparire così, lo so, ma non ho avuto altra scelta. Non possiamo andare avanti così Jude. Non è giusto per lei, per te e neanche per me».

Ecco, aveva usato l'unico argomento contro cui non mi sarei mai potuta battere. Cosa era giusto per lui. Era vero, lo avevo sempre saputo. Il male peggiore, in tutta quella storia, lo aveva e lo avrebbe sofferto lui, diviso in due, costretto a mentire a tutti, per cosa? Per una come me. Una per cui non vale la pena.

Fissavo a terra, le lastre di marmo consumate, inconsapevoli testimoni di quella sceneggiata degna da film di serie B.

«Mi dispiace. E' la cosa giusta» continuò.

La cosa giusta. Certo. Ovvio. Chi poteva avere il coraggio di dargli torto? Lo era davvero. Sin dal primo istante, sapevamo entrambi che prima o poi sarebbe andata così. Lo sapevamo, era inevitabile. E il momento era arrivato. Come un proiettile sparato da un fucile con il silenziatore. A premere il grilletto, il miglior cecchino del mondo: il Destino. E proprio come un proiettile ben mirato, aveva colpito la zona giusta. L'addio mi aveva dilaniato quel che mi restava del busto, già seriamente compromesso durante i giorni di attesa.

«Non avrei dovuto metterti in questa situazione».

Ancora parole sussurrate, mentre io volevo solo mettermi ad urlare e distruggere tutto quello che mi capitava tra le mani. Non potevo infliggerli anche il dolore di vedermi crollare, quando sapevo bene che se fosse successo non sarei stata capace di rialzarmi. Così come non ero capace di guardarlo non negli occhi, ma neanche in faccia. Eppure dovevo farlo. Dovevo imprimermi nella mente l'ultima immagine del suo bellissimo viso, perché solo quella mi sarebbe rimasta da lì in poi, solo il ricordo, ogni giorno più sbiadito di quei lineamenti che avevo amato tanto, resi grotteschi dall'illuminazione notturna. Invece continuavo a fissare, inerme, il pavimento sotto i miei piedi, sicura che da un momento all'altro, una voragine si sarebbe aperta, proprio lì dove stavo io e con mio grande sollievo, mi avrebbe inghiottita, risparmiandomi tutta quella sofferenza.

«Tu... Io...» farfugliai come una stupida. Non ce la facevo. Era più forte di me. Ci aveo pensato tanto, ma non ero pronta. Non lo sarei mai stata. E allora mi comportai da vigliacca. «Buona fortuna» sussurrai ed andai via, abbandonando quel set cinematografico.

Ma se fosse stato un film, lui mi avrebbe rincorsa.

Se fosse stato un film, mi avrebbe chiamata, fermata, abbracciata. Mi avrebbe implorata, anzi no, mi avrebbe ordinato di restare, restare con lui perché noi ci amavamo e quella era la vera scelta giusta. Restare noi, contro tutto e contro tutti.

Ma un film non era ed io continuai a camminare, ogni passo che faceva male come una pugnalata a quel cuore che non avevo più. Ecco, il mio cuore sì che aveva fatto la scelta giusta. Lui era rimasto.

Automaticamente, mentre attraversavo il cortile, all'improvviso popolato di ogni sorta di gente, strinsi le braccia al petto. Magari in quel modo, avrei evitato di sbriciolarmi e per transizione, avrei impedito alle gambe di cedere e crollare a terra, come un muro abbattuto, lì in mezzo ad una strada piena di sconosciuti che ridevano, correvano, passeggiavano, litigavano, parlavano, amavano, odiavano, si accorgevano di me, solo dopo che gli ero andata a sbattere contro, si scansavano e tornavano alle loro vite, mentre la mia smetteva di avere un senso.

 

"And in another life I would be your girl

We keep all our promises, be us against the world.

And in other life I would make you stay

So I don't have to say you were the one that got away

The one that got away”.

 

Non so come, riuscii a raggiungere casa. Mi sentivo come una bomba in procinto di esplodere, eppure ritardavo con tutte le mie forze la fine del countdown. Intontita ma razionale allo stesso momento. Vagavo senza pace ed ero presente in quel mondo che piano piano si sbriciolava senza che io potessi fare niente, se non pregarlo che si sbrigasse, perché non avrei potuto sopportare un attimo in più. Restava intatto però e allora cambiavo richiesta.

'Ancora un attimo, ancora un attimo. Fatemi nascondere prima, per favore' ripetevo a me stessa, al mondo e al peso che mi gravava sulle spalle, quella sensazione di essere perseguitata, che da sempre mi portavo dietro. Sapevo a chi apparteneva quell'ombra. Al leone sempre in agguato. Al mostro che Ryan ed io avevamo risvegliato: il Destino, onnipotente ed onnipresente.

Mi sembrava di sentirlo ridere, quel bastardo mentre mi allontanavo, sghignazzava soddisfatto del suo sporco lavoro. «Te l'avevo detto» ruggiva, «ti avevo avvertita, adesso piangi e crolla. Sbriciolati. Hai voluto combattere, ma ho vinto io. Vinco sempre io!» e con i suoi artigli mi graffiava la schiena per spingermi in avanti, come a voler dire che fermarsi e morire lì sarebbe stato troppo facile. Dovevo soffrire ancora e ancora e ancora.

 

"And in another life I would be your girl

We keep all our promises, be us against the world

And in another life, I would make you stay

So I don't have to say you were the one that got away”.

 

Lo avrei fatto. Avrei sofferto fino ad annullare quel poco di me che rimaneva, senza il bisogno che lui infierisse più di quanto non avesse già fatto, perché era stato lui a controllare tutti i giochi, sin dall'inizio. Era stato lui a farci scontrare. Lui mi aveva fatto perdere il libro. Lui aveva convinto Ryan a raccoglierlo e ad aspettarmi per ridarmelo. Lui mi aveva fatto inventare la scusa della festa, lui mi aveva spinto a lasciargli il mio numero, ad invitarlo da me. Lui aveva fatto sì che Ryan accettasse, che venisse da me, che mi abbracciasse, che mi baciasse.

Lui, quel maledetto bastardo del Destino aveva mosso tutte le pedine. Mi aveva fatto innamorare per la prima volta di un uomo che non avrei mai potuto avere. Lui, lui, LUI! Era tutta colpa sua! Ed io ne avrei pagato tutte le conseguenze!

 

"All these money can't buy me a time machine, no

Can't replace you with a million rings, no

I should've told you what you meant to me, whoa'

Cause now I pay the price”.

 

 

Allora esplosi.

Come una furia, entrai in camera mia, afferrai le prime cose che mi capitarono sotto mano e le scagliai per terra. L'abat-jour, lo specchio, il mobile da toeletta, le tende, i cuscini, i vetri della portafinestra, i quadri. Non si salvò niente.

Urlando e piangendo, distrussi tutto quello che mi stava intorno. Il bicchiere dell'acqua che tenevo sul comodino si sfracellò su una parete. Il contenuto dei cassetti ed i cassetti stessi si sparsero sul pavimento, il rumore degli oggetti che divenivano cocci copriva quello del pianto. Nell'impeto, mi ferii le mani, ma in confronto a quello che già provavo, quel dolore era talmente insignificante che nemmeno lo sentii.

Caddi sulle ginocchia. Avrei potuto sfracellarmele, ma neanche di quello mi importava. Chi voleva più camminare?

I singhiozzi mi mozzavano il respiro. Mi tenevo la gola, tremando convulsamente, come in preda ad un demone. Con le unghie, mi graffiai la faccia fino a sanguinare.

Bruciavo e mi consumavo. Speravo solo che di me non restasse più nulla. Soltanto il pensiero che ci sarebbero stati dei giorni a venire mi disgustava. Non sarei sopravvissuta un secondo di più. Non volevo sopravvivere un secondo di più.

Esausta, mi trascinai sopra al letto, coperto di piume e spugna. I cuscini si erano squarciati rivelando il loro contenuto ed il piumone si era stracciato in più punti.

Ancora col petto scosso dai singulti, nascosi la testa sotto le coperte e chiusi gli occhi.

Non avevo più ragioni per respirare.

La mia storia finiva lì.

 

E si spengono le luci. Il sipario cala. Ma dietro le quinte, il dramma non ha mai fine...

 

In another life...

 

E' una brutta cosa cliccare sulla casellina 'completa'. Mi son venuti i brividi ed il magone.

Grazie a tutti quelli che hanno seguito questa avventura. AngeM, bad_girlxx, Deeeeeeeeo (ho contato le e u.u), El_, Euterpe_12, milly97, Miss Demy, mygirl, Sophisticity, Thunder_light, vallinda, WakingDream, _vannie_, Brunette_, ally99, Anadiomene, April_Elle, bimbic, Bryce 78, elisa nico, Enif, FairyLeafy, immarell4, Maya89, pinkpricess, rebeccuori, Smjley_, sometimes_strawberry, Teatime, ryanforever e a tutti gli altri che hanno recensito o letto questa storia in silenzio, a voi va tutta la mia gratitudine.

Jude tornerà presto con Rising, la terza parte di questa interminabile storia. Spero di ritrovarvi tutti e anche qualcuno di nuovo. Per tenervi aggiornati, se volete, questa è la mia pagina: https://www.facebook.com/oo00SerenityMoon00oo?ref=hl

Ancora grazie di cuore a tutti voi.

A presto, la vostra Serenity.

   
 
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